Ultimo giorno da principessa
Ultimo giorno da principessa
Jack non c'è più.
Quando mi risveglio e mi sollevo dalle lenzuola, nuda dentro e fuori, del suo corpo che affossa il materasso non c'è più traccia. La camera è silenziosa, solo la luce del sole che filtra dalle finestra e illumina il mio viso. Non c'è niente più che questo, e io davvero non so come reagire a tutto ciò.
Mi sento stanca, terribilmente stanca, nonostante abbia passato tutto questo tempo a dormire e abbia consumato la notte in attività molto più che interessante, i miei muscoli sono flaccidi, le mie gambe tremano e dentro il cuore ho solo un masso gigante che non se ne vuole andare più.
Dopo essermi infilata la vestaglia e aver saccheggiato tutta la casa alla ricerca dei vestiti che lui mi ha strappato la sera scorsa, vengo accolta nel soggiorno da Papillon. Jack deve averlo liberato dal bagno prima di uscire: il mio cane mi latra contro e mi zampetta, circondandomi e ruotando la sua coda come se volesse scagliarmela addosso. È ancora arrabbiato per esser costretto a non poter più condividere il letto insieme, e io non so nemmeno come dirgli che non ho idea se la cosa continuerà ancora per molto o se invece, stanotte, è terminata per sempre.
Sull'isola della cucina c'è un foglio, un post-it. Non appena lo scorgo, il mio cuore sprofonda nella pancia e l'ansia mi assale, un velo di sudore ricopre il mio volto ancora ricoperto dalla vestaglia in raso. Deglutisco di nuovo, trovare il coraggio per guardare cosa Jack vi ha scritto sopra è praticamente uno sforzo disumano per me, ragazza debole e fragile che solo ora ha dovuto iniziare a lottare.
Sophie,
Devo tornare da Lala per sistemare alcune carte a proposito di Roy.
Non sono scappato, sta' tranquilla, anche se immagino che una parte di te quasi lo sperasse.
Passa da noi quando vuoi, Jasmine vorrà sicuramente vederti.
E dobbiamo parlare.
Perché lo so che hai sentito quel che ho detto ieri.
Jack
P.S.
Non andare in giro da sola.
Avrei preferito mille volte che il mittente del messaggio fosse Sasha, dove mi suggeriva qualche strana posizione per fare sesso come "il marshmallow ripieno" o "il galoppo del salame", piuttosto che leggere simili parole dall'unico uomo in grado di distruggermi e ricrearmi al tempo stesso.
Il mio corpo scivola da solo, ricade inginocchiato per terra. Papillon inclina il capo, confuso, mentre io affogo il mio fra il nascondiglio delle mie gambe. Le abbraccio, con forza. Fa caldo qua dentro, in questo appartamento, in questo cuore dove lui si è infiltrato, dove ha scavato, ha ricercato, mi ha trovata. Come ci è riuscito? Da quanto tempo? In che modo?
Ti amo, Sophia.
La sua voce. Perché riesco a sentire la sua voce anche qui, nella mia testa? Perché percepisco il suono del suo respiro nell'orecchio, la contrazione dei suoi muscoli sotto i palmi della mia mano, e il sudore con cui è scivolato sopra di me, il delicato odore in cui mi ha intrappolata, facendomi sua o rendendomi sua, ancora non l'ho capito. Riesco a sentirlo persino qui, ora che non c'è, ora che dovrei esser solo io in vestaglia rosa senza più pensieri nella testa, sollevata dal doverlo affrontare ancora e ancora.
Ti amo, Sophia.
Fra le labbra ho un sospiro, la testa di Papillon si solleva e analizza il tremolio delle mie gambe. Mi copro lentamente il volto arrossato, proprio come lo è diventato quando l'ho guardato e l'ho sentito pronunciare quelle due parole. E in quegli occhi così azzurri io ho ritrovato distese di ghiaccio che potevano fornirmi amore, e in quel viso così duro, distrutto dalla vita e dal dolore, io ho trovato i solchi per poter ritornare ad esser felice. Ed era così spaventoso vederlo così, sopra di me, con quegli occhi innamorati grazie a cui mi guardava, con quel viso splendente che mi tormenta sia quando dormo che quando sono sveglia.
La memoria della notte passata non scompare, permane nell'aria, quasi il mondo volesse costringermi a riviverla per sempre, nell'eternità. Non so dire quali emozioni mi stanno scalfendo, in questo momento; se è ansia o angoscia il lancinante dolore che provo al petto, se è sollievo o gioia, il terrificante calore che scalda il mio stomaco.
Ti amo, Sophia.
Non me lo aspettavo, non me lo aspettavo proprio. Non pensavo che avrebbe pronunciato quelle parole, soprattutto durante un contesto in cui meno sarei stata pronta per sentirle, in una situazione dove ero spoglia sia dei vestiti che delle mie difese, intrappolata ancora nel morso dilagante del senso di colpa, a ricordare gli sbagli del passato e il fantasma del ragazzo che ho amato per tutta la vita.
È stato sleale, così sleale, così crudele. Lui sapeva, lui sapeva che non avrei potuto ignorarlo, in quel modo. Lui sapeva che non sarei potuta sfuggire, in un simile attimo. Lui sapeva che quello era il secondo perfetto per potermi consegnare il pacchetto delle sue emozioni senza che io avessi alcuna possibilità di rifiutarlo o fingere che non esistesse.
Arrogante, stronzo, bastardo.
Non doveva, non doveva, non doveva. Non quando non potevo non sentire, non quando potevo fingere di non averlo ascoltato. Perché mi ha costretta a vedere, mi ha costretta a guardarlo: la dolcezza nei suoi occhi di ghiaccio, il tremore delle sue dita mentre mi accarezzava, quell'amore profondo che avrei preferito ignorare mentre sgusciava in me e mi depredava di ogni respiro e di ogni battito.
Ti amo, Sophia.
Afferro Papillon, lo stringo fra le braccia ignorando tutti i latrati che mi rivolge. Non ce la posso fare, non posso, non posso. Quella voce non era di Andrew, quelle parole non me le ha rivolte lui. Perché? Perché è così doloroso? Perché mi viene così difficile da accettare? Perché nella mia testa risuona solo il nome di Jack, invece che il suo? Perché doveva entrare così a fondo da impedirmi di pensare ad altro, persino al ragazzo che amavo? Perché è così insito in me, al punto di non potermi più concedere il lusso di non poterlo più rivedere in ogni cosa, in ogni tocco, in ogni respiro?
«Pam» sussurro. «Pam.»
Vestirsi è un delirio, riuscire a sentirmi viva mentre mi sfilo la vestaglia e indosso le prime cose che trovo nell'armadio mi porta a non respirare. Sono vittima della mia stessa ansia, angosciata dalla mia stessa ira. Quando esco di casa, strattono Papillon con forza, perché lui vuole restare nell'appartamento a stuprare pupazzi, mentre io voglio solo poter parlare con l'unica persona che può ricordarmi lui, che può ridarmi il suo respiro, che può occultare un po' dello spazio occupato da Jack e ridarmi il ricordo del mio grande amore.
Guidare fino a casa di Pam, con un cane incazzoso che sbraita dal finestrino, rischia di farmi perdere seriamente il senno, e quasi non mi rendo conto quando arrivo di fronte al pianerottolo della sua casa, arrivando a bussare seimila volte sulla porta in legno. Il cuore è in gola e le mie dita non smettono di tremare, e quando la porta si spalanca ho già le parole intrappolate nella bocca.
«Sophia?» Il viso sorpreso di Pamela sguscia dalla porta. I capelli così spettinati che si sollevano da soli nell'aria, gli occhi stanchi, una vestaglia bianca estremamente stropicciata. «Che succede, Sophie? Sono le sette del mattino.»
«Devo... Ho bisogno di parlarti.»
Pamela si passa una mano sul viso, sistemandosi il colletto della vestaglia e coprendosi tutto il corpo, quasi nascondesse delle bombe in esso. «Ehm... Sophie, che è successo?»
«Devo... Accidenti, Papillon!» Papillon strattona come non mai, desideroso di sfuggire via e di ritornare alla libertà, il suo guinzaglio si tende mentre tenta di trascinarmi via con sé. «Pam... devo parlare con te a proposito di...»
«Sophie, ne... Ne possiamo riparlare più tardi?» Il sorriso forzato con cui mi saluta mi manda in totale crisi. «Ecco... vedi... la verità è che ho... Ehm... Sono impegnata.»
«Impegnata?» Sono sbigottita, Pamela non ha mai niente da fare durante i giorni liberi, anzi, di solito mi tartassa sempre al telefono nel tentativo di andare a casa sua per mangiare qualche dolce insieme, così che lei non si senta una solitaria zitella che ingurgita zucchero come se non ci fosse un domani.
«Sì... Ehm...» Si guarda attorno, pronta a inventare una scusa possibile, quando una volte alle sue spalle, oltre la porta, e di cui entrambe conosciamo il proprietario, risuona fra le pareti del pianerottolo.
«Bambola, è tutto okay?»
Bambola.
Un solo cretino potrebbe chiamare Pamela in questo modo senza vergognarsi minimamente di se stesso. La porta si spalanca, rivelando la figura di Bill, completamente nudo ad eccezione di un solo asciugamano bianco avvolto attorno la vita per nascondere le sue parti intime.
Il volto di Pamela si fa rosso.
Il mio bianco.
Bill solleva un sopracciglio, non ci sta palesemente capendo più nulla, per poi dichiarare, quasi con supplizio: «Ti prego, Sophie, non lo dire a Sasha.»
«Non glielo dire» prosegue Pamela, annuendo con vigore. «Ti supplico.»
«Oddio...» gracchio, coprendomi il volto con una mano. Ora tutto si spiega: la vestaglia sgualcita, i capelli impazziti e la faccia di una che si è fatta per tutta la notte. O, per meglio dire, che si è fatta montare per tutta la notte. «Non lo volevo proprio vedere. Scusate per il disturbo...»
«No... ehm... non ti preoccupare, Sophia...» Pamela si passa una ciocca dietro le orecchie, imbarazzata quasi quanto me.
«È successo qualcosa, sorellina?»
«No! No!» Scuoto con forza il capo. «Assolutamente nulla!» La mia voce sembra il suono di una chitarra mal accordata.
«Sorellina, ti senti bene?»
«Sophie, perché non entri? Posso darti un po' di cheese-cake alle fragole.»
Arretro, calpesto la coda di Papillon che, in risposta, mi morde la caviglia. Una bestemmia sgorga dalle mie labbra mentre saltello come una gallina senza zampa per tutto il pianerottolo. «Sophia?» Bill inarca l'altro sopracciglio. «Sei sicura di...»
«Sto una meravig-» Con l'unico piede scivolo sul tappetino rosso e cado di faccia, schiantandomi a mezzo metro da Papillon. Il dolore alle ossa è atroce, tremendo, il mio cane mi guarda come se si stesse chiedendo "perché la mia padrona è così cogliona?" e davvero, non lo posso biasimare per questo.
«Sophia...»
Ti amo, Sophia, ti amo.
Questa non è la sua voce, questo mio cuore non sta battendo per le parole che mi ha detto lui, questo mio cuore sta battendo per un'altra persona che non è Andrew. Non è Andrew.
«Sophia?»
È sempre stato lui, è sempre stato Andrew a dirmi quelle parole, a sussurrarmele all'orecchio mentre facevamo l'amore. Sempre lui, continuamente! Provo a ricordare, provo a non dimenticare, ma ogni volta che torno indietro nella memoria il suo volto magro e graziato viene occupato da quello di Jack. Non è lui, non è Andrew, non è per lui che dovrei stare così in ansia.
«Sophia? Soph-Dove stai andando, Sophia?»
Corro, trascinando Papillon con me, esco dall'edificio senza più fiato, stringendo la testa fra le mani. Non riesco a sentirlo più, non lo sento più, non sento più Andrew. Dov'è finito? Che fine ha fatto? Andrew, Andrew, Andrew!
Jack, Jack, Jack.
No! No! Non era così che doveva andare! Non era così!
Le lacrime sgorgano dai miei occhi, occultando la vista del parcheggio che attraverso per raggiungere la macchina. Non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio. Non posso guidare in queste condizioni, non quando nei miei occhi c'è solo pioggia, non quando il mio cuore è unicamente tempesta. E lo sento, sento il dolore, sento l'agonizzante tormento di star dicendo addio a tutto, una volta e per sempre, di star lasciando andare anche l'ultimo, invisibile legame che mi univa a lui.
Per sempre.
Jack è ovunque, dappertutto. È nella mente e nel cuore, nella testa e nei tremori, è nell'aria che respiro, nel fuoco che divampa, nei ciottoli che calpesto, nei pensieri che mi divorano. Lo sento quando vibro per prendere aria, lo sento sotto la pelle, pezzo di me, intangibile e irremovibile, che struscia, che si ripercuote, che affonda, che si diffonde. Una malattia contagiosa, una febbre incurabile.
Non doveva andare così.
Non era quello che mi immaginavo, non quando ero con Andrew, non quando ero la sua Cenerentola, non quando la sua mano mi afferrava e ballavamo insieme a Dream Lake, con le lucciole che ci guidavano e ci mostravano la via per esser felici.
Lui era il mio tutto, lui era il mio respiro, il mio battito, e non avrei mai voluto che qualcun altro prendesse il suo posto. Ma ora, quando chiudo gli occhi, il suo viso è offuscato, e l'abito che mi decora non è più quello di una principessa, sono vestiti sgualciti, uguali, comuni; e la mano che stringe la mia non appartiene a un principe, è una mano rozza e callosa, che ha lavorato e faticato tanto; e il corpo che mi sorregge non è magro e basso, è alto, possente, energumeno.
Non c'è più Andrew.
C'è solo Jack.
Papillon si china su di me, sulla mia figura inginocchiata per terra, accanto alla macchina. Con la lingua asciuga le lacrime che graffiano le mie guance, e profuma, come profuma il mio cane. Mio Dio, non avrei mai creduto che un giorno sarei stata così felice di averlo al mio fianco, affinché mi consolasse in questo modo.
«Non so se ce la faccio, Papillona» ammetto alla fine. «Non so se ne sono in grado.»
Papillon aggrotta la fronte, inclina la testa, lecca il mio viso, lo asciuga con la sua lingua. Tremo per queste carezze così inaspettate e altrettanto necessarie. Il suo pelo è morbido mentre lo stringo a me, lui lancia un piccolo e strozzato guaito, quasi a voler soffrire al mio fianco, condividere questo lancinante dolore che mi devasta.
Sophia, ti amo.
Se fossi stata in un'altra vita, se fossi stata un'altra persona, forse queste parole non mi distruggerebbero così tanto. Che senso ha avuto conoscere Andrew, amarlo così a fondo da sentirlo dentro, nel cuore, se poi ogni cosa andrà perduta, schiacciata dall'amore che provo nei confronti di Jack? Che senso ha avuto incontrare il mio principe, se poi a mezzanotte avrei incontrato il truffatore che mi avrebbe ammaliata? Perché l'ho dovuto incontrare? Perché l'ho dovuto conoscere?
Perché non ho potuto amarlo come ora amo Jack?
***
«Non hai una bella cera, sai?»
Sollevo lo sguardo, rabbiosa, rivolgendolo agli occhi di Avery. Quest'ultimi sono puntati unicamente sul foglio di carta rosa che sta piegando per andare a creare un origami, se ne sta ferma, lei, con la sua maglietta grigia e spenta.
«Dovresti dormire un po' di più» aggiunge poi. «Lo sai che mi danno dei medicinali per farmi dormire? Sono utili, molto utili, perché non li prendi anche tu?»
Perfetto, venire sbeffeggiata dall'assassina del mio ragazzo era nelle priorità della mia vita. Meraviglioso, semplicemente stupefacente.
Avery inclina leggermente la testa, una ciocca dei suoi capelli finisce di fronte al suo viso, ma lei pare non accorgersene minimamente. Oggi sembra più sveglia del solito, più reattiva, ha gli occhi scattanti, la voce che sgorga più facilmente dalle labbra. Piega il foglio, più e più volte, fino a creare un piccolo cigno dalle dimensioni di una pallina da tennis. «Ultimamente non sei più venuta a trovarmi» mormora alla fine. «Iniziavo davvero a sperare che avessi rinunciato a tormentarmi, ma da quel che vedo non è stato così. O forse è successo qualcosa che ti ha portata a dimenticare di venire qui?»
Odio il modo in cui i suoi occhi mi scrutano, quasi potessero leggermi nella mente, la sicurezza e spietatezza nella sua voce, come se già sapesse tutto, come se già comprendesse ogni cosa. Mi stringo nelle spalle, le serro, sigillando le labbra. La sala d'incontro è più silenziosa del solito, gli altri pazienti stanno parlando con i loro amici e parenti. «Mi stai prendendo in giro?»
«No, nient'affatto, a dire il vero ero quasi contenta. Per te, non per me.» Posa il cigno sul tavolino in vetro che separa le poltrone su cui siamo sedute. «Andrew non faceva altro che parlare di te e sono sicura che sarebbe stato felice di vederti continuare a-»
«Non parlare di lui come se lo conoscessi meglio di chiunque altro!»
«Be', cosa vuoi che faccia?» La sua testa ciondola per qualche istante, a destra e a sinistra, come una molla. Gli occhi a palla, sgranati, le labbra incrostate. «Cosa vuoi che ti dica? Che ti menta? È vero che io lo conoscevo, lo sai anche tu. Conoscevo parti di lui di cui tu non avevi idea, conoscevo il suo dolore, tu no.»
Se mi avesse pugnalato al cuore avrebbe fatto comunque meno male di queste parole che squarciano in due la mia mente. Mi mordo il labbro, vorrei urlarle, gridarle contro, ma ogni sillaba di questo suo discorso contiene solo verità. Perché è vero, è dannatamente vero: Andrew con lei parlava di cose molto più importanti di quanto fossero gli argomenti di discussione che intratteneva con me. Andrew le confidava le sue sofferenze, cosa che con la sottoscritta non ha mai fatto.
Ha sbagliato.
Le parole di Jack sono pallottole che si conficcano nel cervello. Chiudo gli occhi, sibilando, mi massaggio le tempie. È doloroso, troppo doloroso. Non riesco a contenere questa sofferenza che dilaga.
«Sai, non è perché non ti amava.»
Sollevo il capo, scattante, la fisso a occhi sbarrati, il fiato ancora intrappolato dentro i polmoni. «Cosa?»
«Non è perché non ti amava» ripete lei, fissandomi come se fossi una deficiente. Afferra uno dei tanti fogli di carta impilati sopra il tavolino e torna a piegarlo. «O perché non si fidava di te, o perché ti riteneva troppo perfetta per lui.»
«Che cosa?»
«Semplicemente non voleva darti quel dolore» prosegue lei, interrompendo i miei discorsi. «Ti amava talmente tanto che avrebbe fatto di tutto per te, anche nasconderti quanto stesse male. Mentre con me, che ero già distrutta, sapeva di potersi confidare tranquillamente. Un po' egoista da parte sua, non trovi? Con te voleva la luce, da me, invece, sapeva di poter condividere l'oscurità. Per questo si confidava a Theghost, per questo non parlava dei suoi problemi a te. Con te era felice, e voleva mantenere quella felicità, io ero unicamente la perfetta valvola di sfogo. Non trovi che sia un po' opportunista?»
La mia bocca trema con così tanta violenza che la sento bruciare le mie guance, incavarle con la rabbia di non poter rispondere a tali affermazioni, perché sono vere, sono dannatamente, crudelmente, dolorosamente vere.
«Credo che fosse stato questo a farmi arrabbiare, sai?» sussurra lei alla fine. Reclina il capo sullo schienale della poltrona e solleva lo sguardo sull'alto soffitto che ci osserva da sopra. I muscoli della sua gola si muovono in maniera quasi disgustosa quando deglutisce. «Quando venne da me per dirmi che non si sarebbe suicidato perché aveva capito che la mossa migliore da fare sarebbe stata... parlarti... Mi sono sentita come... Come una bambola che era stata usata per rilasciare lo stress e che ora non aveva più alcuna utilità. Per questo sono impazzita in quel modo. Per questo mi sono arrabbiata così tanto. Io non volevo, sai, Sophia? Non volevo che morisse. Volevo che capisse, solo questo. Quanto stavo male all'idea che mi avesse usata in quel modo. Non pensavo sarebbe caduto dalla finestra, lo giuro. Io non volevo...» Si ferma, riposa la testa sulle sue spalle, si gratta i capelli spettinati, sospira.
Lo odio, odio tutto questo. Odio il fatto che riesca a comprenderla, odio la compassione che sento nei suoi confronti. Dovrei destarla, dovrei desiderare la sua morte, dovrei picchiarla e insultarla, e invece perché ora, quando la guardo, tutto ciò che riesco a vedere è solo una bambina distrutta, dagli occhi troppo gonfi e lo sguardo troppo spento?
«Sai, mi sono resa conto di tante cose da quando sono qui» aggiunge poi, lasciando il suo foglio piegato a metà sopra le sue cosce. «Prima di tutto, che sono in pochi coloro che ti restano accanto durante il dolore. Infatti, ora, nessuno viene a trovarmi, tranne te, che non lo fai per starmi accanto, e Emily, che invece lo fa perché mi vuole aiutare.»
Ho un sussulto nel sentire questo nome. Emily Elaister, la sua migliore amica. Avery inclina di nuovo il capo, fissa il suo foglio senza vederlo per davvero. «Emily mi aiuta un sacco, sai? Mi viene a trovare tutti i giorni, ha deciso di frequentare l'università qui proprio per poterlo fare. Credo si senta in colpa, o forse mi vuole veramente bene, non lo so.» Si stringe nelle spalle. «Non vedo perché dovrebbe volermi bene, visto che sono qui, però mi viene a trovare lo stesso, e quando parlo con lei mi sento meglio. Non parliamo quasi mai di cose importanti, di come sto, di quali farmaci prendo, del gesto che ho compiuto. No. Con lei io parlo del fatto che ha preso un gatto senza pelo e che il suo fidanzato non lava mai i piatti. Ed è bello, molto bello. Credo fosse così che Andrew si sentisse quand'era con te.»
Mi tremano le spalle, mi fa male il cuore, mi piangono gli occhi. Stringo con più forza la mascella, intrappolo i denti fra di loro, per trattenere i gemiti di dolore che sconquassano il mio petto. Avery socchiude gli occhi, senza guardarmi, tamburella le dita sul foglietto di carta. «Mi dispiace» sussurra alla fine. «Non volevo togliertelo.»
«Tu...»
«Mi dispiace.»
Balzo in piedi, non ce la faccio più, non mi sento neanche più dentro la mia pelle. Le lacrime colano sul mio volto, gocce lente, pioggia delicata. La guardo, trattenendo i brividi del labbro inferiore, nascondendoli con il morso dei denti. «Non mi ricordo più» singhiozzo alla fine. «Non mi ricordo più di lui» ripeto. «Perché me lo hai dovuto portare via? Perché non potevi lasciarmelo?»
«Non l'ho fatto apposta.»
«Lo so!» gracchio, e varie sono le teste che si voltano nella nostra direzione. Sto esplodendo, mi sento un fuoco d'artificio che non può più esser fermato dal suo scoppiettare infinito. «Lo so! E ti odio per questo! Ti odio! Avrei preferito che tu fossi un mostro!» La mia voce è rauca, pare provenire dall'oltretomba. «Avrei preferito che tu fossi un'assassina senza sentimenti e emozioni! Avrei preferito che tu lo avessi ucciso volontariamente! Perché, Avery? Perché? Lui era mio! Lui avrebbe dovuto esser mio per sempre!» Lacrime calde scalfiscono la superficie fredda del mio viso, percepisco le sopracciglia abbattersi sopra i miei occhi; il pianto mi impedisce di vedere ciò che ho davanti, di fronte a me c'è solo la pellicola movimentata dell'acqua «Perché me lo hai portato via?»
«Signorina, la prego, si calmi» le mani di un'infermiera si aggrappano alle mie braccia, bloccandomi. «La prego, questo non è luogo dove gridare in questo modo.»
Ho il fiato depositato nella lingua, bloccato lì, incapace di uscire o entrare. Guardo Avery, e nei suoi occhi vedo lo stesso dolore che ora riempe i miei. I miei denti si serrano ancora, con più violenza.
E quando la vedo, quando la guardo, ora, che sta piangendo insieme a me, mi ritrovo a dirle: «Odio il fatto che non riesco ad odiarti!»
Avery sgrana gli occhi, solleva le sopracciglia, la mascella le cade per terra. Pare sconvolta come me per questa dichiarazione che è inaspettata per entrambe. L'infermiera mi strattona, cercando di portarmi via dalla sala, ma lei la ferma, la blocca. «Sto bene» la rassicura. «Sto bene.»
«Signorina King, la prego di calmarsi.»
«Sophia» mi richiama Avery, e quando la guardo, quando vedo le sue lacrime, il mondo dentro di me crolla, la rabbia si sfalda, sostituita, invece, dal dilagante sentimento del perdono. Un perdono che non volevo concedere a nessuno, né a lei e men che meno a me stessa. «Era per questo che ti amava, era per questo che era innamorato di te.»
«Cosa?»
«Andrew ti amava proprio perché tu lo facevi sentire umano» sorride lentamente, con difficoltà e dolore. Gocce di pioggia scivolano sul suo viso distrutto. «Per questo tu, per lui, sei sempre stata la luce.»
***
Il viaggio di ritorno fino a Beystick Locks è stato un inferno.
Ho pianto tutto il tempo, mentre ero in treno, con Papillon che abbaiava a qualunque passeggero che rivolgesse l'attenzione al mio corpo vibrante di dolore.
Mi sembra di esser tornata indietro, al primo giorno in cui lui non c'è più stato, a quando ho scoperto della sua morte, a quando hanno celebrato il suo funerale.
Scendere dal treno è stato faticoso, ritrovarsi alla stazione dove tutto è cominciato ancor di più. Perché qui, in questo luogo dove ero giunta per condannare un'assassina, ho fatto il primo passo per scucire per sempre quell'intreccio di dita che mi legava ancora a lui, il suo fantasma.
C'è dolore atroce, nel mio petto, perché so, ormai, di dover compiere l'ultimo passo. Di dover rispondere alle parole che Jack mi ha rivolto ieri notte, quando eravamo solo noi due e il mondo era scomparso con la delicatezza delle sue dita. Devo sussurrare a mia volta quella frase, confidargli quel segreto che porrà fine alla favola, una volta e per sempre.
Della mia fiaba vissuta come Cenerentola, ormai, non ci sono più pagine da riempire, più inchiostro da consumare. Il libro si è concluso nel peggiore dei modi, e non c'è possibilità che io possa tornare indietro per aggiustarlo e dare un degno finale a una conclusione così terrificante. Non so nemmeno se voglio farlo, perché comporterebbe anche tante altre cose: come non aver mai conosciuto Jack.
Cammino lenta, lungo il marciapiede, percorrendo la stessa via che una volta attraversai di corsa, inseguendo due bambini che mi avevano rubato la pochette, del tutto inconsapevole a cosa quel piccolo furto mi avrebbe portata.
Perdona, Anja, perdona.
Lala, la sua voce, le sue parole, non smettono di riempirmi la testa. La rivedo, quella donna anziana, che mi racconta gli anni migliori della sua vita, dove l'amore era il vento e accarezzava i suoi capelli, le baciava le labbra, la faceva sorridere. Quella serenità con cui rammentava simili ricordi, presto, inizierà ad appartenere anche a me, ed è difficile spiegare quanto la sola idea mi terrorizzi.
Papillon, oggi, è più arrabbiato che mai. Non vuole andare a casa di Jack, per qualche motivo. Forse teme di nuovo che Jasmine lo torturi insieme ai suoi fratelli, perché continua a cercare di riportarmi indietro, alla stazione, dove sta la mia macchina. Abbia, latra, butta bava per terra, mi guarda quasi supplicante, mentre io gli domando con gli occhi distrutti cosa stia accadendo.
«Cosa succede, maledizione?»
Papillon si immobilizza e azzittisce di colpo, nell'istante esatto in cui ci ritroviamo vicino al campo rom: gli occhi spalancati e la coda sigillata fra le gambe.
E poi lo sento.
Rumori, suoni, voci indistinte, non troppo lontano da me.
E poi li vedo.
Una coppia di uomini, i cui abiti neri si confondono col buio della notte, dai passamontagna che celano i loro volti, vanificando i miei tentativi di nascondere loro la verità. Sono vicini alla staccionata che circonda il campo rom dove Jack e la sua famiglia abitano: indossano un vestiario inusuale, spaventoso, da aggressori.
Un colpo al cuore, un battito che si perde, sudore gelido che riveste la mia pelle.
Uno dei due si sfila qualcosa dalla cinta dei pantaloni: un oggetto che luccica sotto i raggi lumani, come gemma impreziosita, nera, lucida. Ci impiego qualche secondo per rendermi conto che si tratta di una pistola: una pistola vera, di tutto rispetto, una pistola pericolosa.
Una pistola che uccide.
Non si fermeranno, aveva detto Jack, e Dio solo sa quanto ho dato per scontato queste parole.
«Così si spaventeranno» una voce disgustosa, deplorevole, ridacchia, l'uomo della pistola sta gongolando, quasi felice di possedere quell'arma così pericolosa e mostrandola con vanto al suo amico. Io, lontana da lui di pochi metri, trattengo il respiro, indietreggio lentamente. «Quegli zingari bastardi se ne devono andare, ora e subito. Vedrai come se la faranno sotto, quando li costringeremo a scappare via col fuoco nel culo.»
Il suo compagno ride. Perché ride? Perché si diverte? Non è normale, tutto questo non è normale. Questi non sono uomini, questi sono dei mostri.
La paura mi intrappola, indietreggio ancora, le mie mani accorrono subito alla borsetta. Non si sono ancora accorti di me, posso farcela, posso farcela in tempo. Devo solo aprire la zip della borsa senza fare rumore e afferrare il telefono. Chiamare la polizia. Devo chiamare la polizia.
Le mie dita tremano mentre mi sforzo di compiere questi gesti così meccanici, il terrore dilaga in me, più forte che mai, nella mia testa un solo pensiero, tanto bello quanto disarmante:
JackJackJackJackJackJack.
«Ehi! Ehi! Puttanella! Cosa cazzo credi di star facendo?»
Il cuore si ferma in gola, il dolore arriva prima che me ne renda conto. Li sento addosso in un istante, senza che possa in alcun modo fermarli. Percepisco il telefono scomparire dalle mie dita, sento il rumore dello schermo che si rompe non appena crolla a terra, e delle braccia che mi stringono il corpo, che mi intrappolano in un fisico molto più grande del mio. La mia schiena sbatte contro il petto di uno sconosciuto, il mio gracile essere viene rinchiuso in una gabbia di arti che mi risucchia.
«Che cazzo credi di fare, eh, stronza?»
Il passamontagna che mi è davanti mostra solo due occhi che sono odio puro: non ne distinguo il colore, non ne distinguo le fisionomie, solo il magma bollente che ribolle in essi. Un grido rimane strozzato nella mia gola quando percepisco il tocco freddo della pistola sulla mia pancia. Provo a muovermi, a gridare, ma l'altro corpo che mi stringe ora mi afferra la bocca e la soffoca nella stretta delle sue dita.
«Ah, sì! Io ti conosco! Tu sei la puttanella che se la fa con quello zingaro disgustoso! Ti abbiamo visto varie volte entrare e uscire dal loro campo! Ehi, dimmi, come sono loro a scopare? Ti piace, vero, venir sbattuta così dalla feccia della società?» L'uomo che mi fissa e che mi guada puzza di alcool e erba in modo indicibile, lo guardo, a occhi sgranati, mentre il sudore torna a scivolare sulla mia gola. «Cosa stavi cercando di fare? Di proteggere il tuo amato chiamando la polizia? Tranquilla, non gli faremo del male, basta che lui e la sua lurida famiglia se ne vadano via da qui, com'è giusto che sia.»
Quanto odio, quanta rabbia che contiene, e quanto dolore e quanta paura ho dentro il mio cuore. L'uomo che mi stringe a sé e mi blocca ride per le battute del suo compagno, è terribile, agonizzante, sento le sue mani sul mio corpo, le sue dita sulla mia pelle, che sigillano i miei arti, che bloccano il mio respiro.
Con gli occhi fisso Papillon, ancora paralizzato sul posto. Lo guardo, lui guarda me. "Ti prego, non li attaccare, ti prego, non li attaccare", lo scongiuro, lo supplico. Perché, se lo facesse, non sopravvivrebbe. Se lo facesse, perderei anche lui.
«Sembra che il tuo fidanzatino e i suoi amichetti non abbiano capito il messaggio che gli abbiamo mandato quando abbiamo dato fuoco a una delle sue case» prosegue l'uomo che blocca i miei arti. «Devono andarsene da qui, hai capito?»
«Tutto questo ben di Dio sprecato per uno schifoso zingaro» sputa l'altro, e quando la sua mano finisce sul mio seno, intrappolandolo nella stretta del suo palmo, io grido, ci provo, ci provo davvero, ma le mie labbra sono serrate dalle dita del compagno, le mie urla vengono filtrate dal suo guanto nero di pelle e a stento risuonano nell'aria.
Torno a guardare Papillon, che ancora non si è mosso, ancora è paralizzato, in mezzo a noi.
«E tu che vuoi, cagnaccio? Vuoi difendere la tua padrona? Eh? Ci vuoi provare? Vuoi morire?»
Ti prego, ti prego, ti prego, Papillon, scappa.
Lo fa.
Dio, lo fa. Dio, scappa. Il suo piccolo e magro corpo corre via, fugge come una scheggia, e io, dentro di me, mi ritrovo a ringraziare per la prima volta il Signore per aver dato ancora un cervello al mio cane. Dio, che bello vederlo andarsene, dove sarà al sicuro, dove potrà esser tranquillo, dove non morirà. Grazie, grazie, grazie, Dio.
E io sono sola, ora, sola, con due uomini che mi trattengono, con il fiato e il respiro bloccato, con una mano sulla bocca e uno sul mio seno. Ho i brividi, il terrore, le lacrime negli occhi occhi, che li consumano fino a non farmi vedere più niente. «Davvero, puttanella, cosa ti piace così tanto di quei parassiti?» L'uomo allontana la punta della pistola dalla mia pancia, lentamente, il mio petto si alza e si riabbassa per la poca aria che riesco a intrappolare nei polmoni, grazie alle narici libere. Lo guardo, ma tutto ciò che vedo è solo una figura nera senza viso, con solo due occhi carichi di odio. «Scopano bene, non è così? Ti sbatte bene quel figlio di puttana, eh? Ti piace avere la feccia della società? Forse dovresti esser scopata da qualcuno che ne sia in grado, non trovi?»
Ho paura, ho paura, ho paura, ho paura. Non sento niente, non vedo niente, sono su una strada desolata, a pochi passi da Jack, e lui non è qui, non è lui che mi sta toccando, non è lui che mi sta sbottonando la camicia bianca, non sono le sue dita quelle che accarezzano la curva del mio collo nudo.
Jack, Jack, Jack.
Le lacrime sgorgano, copiosamente, il mio corpo si contrae perché non vuole, prova repulsione nel sentire questi uomini sfiorarmi e depredarmi. Ho paura, angoscia, vorrei sparire, svanire per sempre. Tutto, ma non questo. Tutto, ma non questo.
Provo a dimenarmi, ci provo davvero, a combattere, ad andare via. L'uomo che mi serra a sé aumenta la presa, il suo braccio si attorciglia al mio fino a bruciarne i muscoli. Grido ancora, con più forza, e di nuovo il mio urlo rimbalza nel tessuto in pelle del guanto nero. Tremo quando il pizzetto del mio reggiseno bianco sbuca fuori, un conato risale in gola quando l'uomo che mi è davanti mi alita addosso e quello che mi intrappola da dietro ride degli urli che non riesco a far uscire nell'aria.
Poi il mondo si sfalda, l'uomo con la pistola lancia un grido, e li sento, improvvisamente li sento: ringhi, urla. «Cane maledetto!»
Papillon.
Papillon.
È lui, lui, che si è lanciato contro la caviglia dell'uomo, che la sta azzannando attraverso i pantaloni scuri, che rimane avvinghiato ad essa anche mentre lo sconosciuto cerca di scalciarlo via. «Stupida bestia! Stupido, lurido cane!»
Il sollievo è tanto quanto la paura, rischio di crollare. Il tipo che mi sorregge perde l'equilibrio di fronte all'improvviso cedimento delle mie gambe, impreca, lancia bestemmie, per poi urlare insieme a me quando un pugno si abbatte sulla faccia del suo compagno.
Jack.
Jack.
Jack.
Papillon non è scappato, non se n'è andato, non mi ha abbandonata.
È corso a chiamare Jack.
Le lacrime di sollievo sgorgano in me non appena lo riconosco, anche nella penombra di questa notte, anche nel buio di questa vita. Lo riconoscerei ovunque, perché lui è ovunque, in me e per me. Ed è una furia, è una bestia mentre si scaglia contro l'uomo. La pistola che quest'ultimo reggeva rotola verso di noi.
Grido, ancora, di nuovo, il criminale che mi stringe prova a fermarmi, ma è sconvolto e scombussolato e ora Papillon si è attaccato alla sua di caviglia.
Sta succedendo tutto così in fretta, tutto così velocemente. Sento il suono dei pugni di Jack che si abbatte sul viso dell'uomo che, fino a pochi secondi fa, mi stava minacciando con la pistola. Mordo con furia il guanto che ancora si serra sulla mano che blocca la mia bocca, lo sconosciuto sibila, Papillon affonda i suoi denti sulla caviglia e finalmente io mi libero.
La pistola, devo prendere quella pistola, così lontana da me, troppo lontana da me, in mezzo a questa strada deserta.
Corro, corro più veloce che posso, verso di lei, ma le mie gambe tremano ancora, il mio corpo è ancora tramortito, una mano mi blocca per il braccio e mi strattona all'indietro. Papillon rotola lungo l'asfalto, calciato via dal criminale che, ora, sta raggiungendo l'arma.
«No!» grido, scongiuro, supplico. La punta dell'arma è rivolta a Jack, alla sua schiena ancora ingobbita per colpire l'altro maledetto bastardo. Lui la sta guardando, felice, contento, pronto a ripulire quella che considera la feccia della società. «No!»
«Sophia!»
Onestamente non so dire cosa succede.
Onestamente non so dire come il mio corpo sia riuscito a raggiungerlo in tempo.
Onestamente non so dire se Jack mi ha chiamato, se mi ha vista mentre correvo verso l'uomo che stava mirando a lui.
Onestamente non so dire neppure che suoni stavano collimando nella mia testa, in quel momento, che mondo ha scorto i miei occhi, mentre mi frapponevo fra la punta di quell'arma e la schiena dell'uomo che amavo.
Posso dire di aver solo sentito il colpo della pistola.
Posso dire di aver solo sentito il dolore lancinante che ha divorato il mio stomaco l'attimo dopo.
Posso dire di aver solo visto il mio sangue, il mio stesso sangue, che gorgogliava ovunque, dappertutto, fino a quando il suo rosso acceso non è stato occultato dal nero dell'oblio.
Ti prometto che non morirò prima di te, aveva detto Jack, e quasi mi verrebbe da ridere per l'ironia di questa situazione.
Perché nessuno dei due ha mai pensato alla possibilità che, a morire per prima, sarebbe stata la principessa.
***
È caldo.
È molto caldo qua.
C'è qualcosa di bagnato, sotto di me, qualcosa di tiepido e liscio, che mi solleva e che mi accoglie. E quando sollevo le palpebre, mi rendo conto di esser sopra la superficie bluastra e accesa, quasi fosforescente, di un lago.
«Sophia.»
Ci sono dei piedi, appostati di fronte ai miei occhi socchiusi, intrappolati in un paio di scarpe da ginnastica che mi sono familiari.
Molto familiari.
«Ehi, Sophie, cosa stai facendo? Credevo fossi la mia Cenerentola, non la Bella Addormentata.»
Questa voce. Riconosco questa voce.
«Svegliati, Sophie, è l'ora del ballo.»
Chiudo gli occhi, li riapro, chiudo gli occhi, li riapro.
Non respiro.
«Andrew?»
Nota autrice:
Prima di tutto, mi scuso per il ritardo del capitolo. Sono stata molto impegnata in questo periodo e ho avuto alcuni grattacapi da poter risolvere, vi prometto che cercherò di aggiornare la storia il prima possibile, anche perché, ormai siamo quasi agli sgoccioli, mancano solo quattro capitoli!
So che ora mi odiate, ne sono consapevole.
Sappiate che io vi amo, invece! E vedrete, vedrete cosa accadrà...
Nel prossimo capitolo.
Che si intitolerà...
"Addio, Cenerentola".
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