La principessa e il truffatore
Capitolo Tre
La principessa e il truffatore
Il maledettissimo Jack Valentine.
Il maledettissimo, stronzissimo Jack Valentine.
Cosa diavolo ci fa qui a Beystick Locks? Perché è qui? Da quel che ne sapevo era rimasto a Williamstone dopo esser stato bocciato per l'ennesima volta al liceo, quindi perché diavolo ora si trova nella città dove mi sono trasferita per sfuggire dal passato e da me stessa?
<<Che diavolo ci fai tu qui, King?>>
Il disgusto che leggo nella sua voce è talmente palese che non riesco a trattenermi. Il rammarico e l'irritazione dovute all'incontro tutt'altro che produttivo con Avery vengono spazzate via dall'acredine profonda che si forma nel mio stomaco e risale, risale, risale, fino a uscire dalla mia gola. <<Che diavolo ci faccio io qui? Che diavolo ci fai tu qui! E che diavolo hanno fatto quelle due pesti? Ridatemi la mia pochette!>> esclamo, puntando il dito contro i due nanerottoli che si sono nascosti divertiti dietro le gambe chilometriche di Valentine. Stanno ancora sorridendo come se avessero vinto la lotteria, totalmente incuranti della mia indignazione.
Valentine inarca un sopracciglio e incrocia le braccia al petto. Non è cambiato poi molto dall'ultima volta che ci siamo visti. E' cresciuto in altezza, vero, ma ha mantenuto lo stesso fisico da uomo delle caverne e – anche – lo stesso modo di vestire da strafottente assoluto. Maglietta bianca sporca a maniche corte, jeans slavati pieni di strappi non voluti da chiunque li abbia progettati, e scarpe da ginnastica grigie così usurate da sembrare dei calzini. <<E' arrabbiata!>> esclama la bambina dietro la gamba sinistra di Valentine.
<<E' arrabbiata, Guar!>> conferma il bambino dietro la gamba destra.
<<Ovvio che sono adirata, piccoli infanti truffatori che non siete altro!>> strillo furibonda. <<Mi avete rubato la mia pochette!>>
L'altro sopracciglio di Valentine si inarca. <<E tu, non fare lo sbruffone! Ti ricordo che l'ultima volta che ci siamo visti il mio piede era sopra le tue gonadi! Non mi farò troppi problemi a ripetere una simile esperienza!>>
<<Peccato che ora tu sia da sola, principessa, e che non ci sia più la tua amica sociopatica o i tuoi fratelli ultraricconi a proteggerti.>> L'angolo sinistro delle sue labbra si solleva in una smorfia di pura malvagità. <<Vedo che ti piace ancora atteggiarti da superiore usando un linguaggio che solo tu puoi conoscere, principessa.>>
<<Non. Chiamarmi. Principessa>> ringhio, sempre più fuori di me. <<E voi, ridatemi la mia pochette!>> aggiungo, rivolta ai due bambini che continuano a sghignazzarsela.
<<La tua cosa?>> ripete Valentine con la faccia di un cretino. Quanto vorrei, in questo momento, avere il carattere di Sasha, lei sì che avrebbe potuto rispondergli a tono (o a violenza).
<<La mia pochette>> rispondo a denti stretti. <<Quella che tua figlia sta stringendo come se fosse un frisbee!>>
Jack Valentine scoppia in una fragorosa e grassa risata che rimbalza fra i muri delle due case di legno e risuona nelle mie orecchie solo come un'altra forma di insulto. <<Jasmine>> la chiama a quel punto con un sorriso, allunga una mano <<fammi un po' vedere che cosa hai trovato di bello.>>
La bambina, Jasmine, gli mostra il suo sorriso sdentato e gli passa la mia bellissima pochette che lui afferra come se fosse una qualsiasi borsa da quattro soldi. Provo a muovermi, ma la mano di lui mi blocca per la spalla mentre osserva i ricami minuziosi del tessuto, le sue labbra si stendono sempre di più verso l'alto. <<Chissà perché non sono affatto sorpreso di scoprire che vai in giro con oggetti simili, principessa>> il suo sguardo si posa sul mio corpo, sul mio cappotto in pelliccia di visone, le mie gambe nude e i miei stivali. E una luce di conferma attraversa i suoi occhi. <<Vedo che non sei minimamente cambiata.>>
<<Dammi la pochette>> allungo la mano. <<O ti devo forse ricordare che Sasha fece una foto quando ti misi K.O. per terra? Credi davvero che l'abbia cancellata? Quella ragazza è pienamente consapevole dell'utilità che riserva del buon materiale ricattatorio.>>
Lui fa una smorfia buffa per quel ricordo che, sono sicura, vorrebbe farsi asportare chirurgicamente. <<Pochette>> ripete fra sé e sé, mentre me la consegna. <<Che nome ridicolo.>>
<<E' francese>> ci tengo a precisare.
<<Ecco perché sembrava ridicolo.>>
Lo fulmino con un'occhiataccia che lui ignora volontariamente. Il suo sorriso divertito mi sta facendo saltare i nervi, e non sono proprio in vena di simili litigi, non dopo aver avuto quell'incontro terrificante con Avery. Mi schiarisco la gola e aggiusto il collo a giro del cappotto, posandolo sulle mie guance accaldate per poter contenere i fremiti che stanno attraversando il mio corpo. Stringo con violenza la pochette e poso il mio sguardo sui due nanerottoli – ancora nascosti dietro le sue gambe – per poi dire: <<Dovreste scusarvi, sai?>>
In risposta, ottengo solo delle parole di quella lingua sconosciuta che non saprei nemmeno ripetere ad alta voce, e Jack, stupefatto, scoppia in una fragorosa risata. Si inginocchia di fronte alla bambina e la stringe a sé per poterla sollevare fra le sue braccia quando si rialza. <<Loro sono i miei fratelli>> mi spiega alla fine. <<E sono fiero di loro, per esser quasi riusciti a fregarti.>>
<<Vedo che sei rimasto ancora un erudito della deficienza>> mormoro a bassa voce.
<<Vedo che sei rimasta ancora una stupida principessa snob con la puzza sotto al naso.>>
Stringo con violenza le mani in due pugni e serro al petto la pochette per contenere il desiderio di prenderlo a calci. <<Non sono una principessa>> dichiaro alla fine, sforzandomi di non morire dentro ogni volta che pronuncio quest'ultima parola. <<Non più.>>
<<A me non sembri poi così tanto diversa, Anja.>>
<<Come, prego?>>
Si limita a sorridermi di nuovo. Mi sta provocando, mi sta sfidando, gli piace farmi incazzare, si vuole vendicare per quello che gli ho fatto quattro anni fa. <<Sei un infante australopiteco!>> lo insulto a gran voce. <<Un decerebrato neurale! Un bipede malformato moralmente!>>
<<Continua, ti prego, Anja, i tuoi insulti mi stanno facendo morire dalle risate.>>
E non solo lui, anche la nanerottola numero uno e il nanerottolo numero due se la stanno sghignazzando alla grande. <<Sai che cosa, brutto erudito della deficienza? Ora vado dritta dalla polizia a denunciare quello che i tuoi fratelli hanno provato a fare!>> esclamo, e con immensa soddisfazione vedo il suo volto, fino a un secondo fa divertito, trasformarsi e diventare irritato. Ah, Sasha sarebbe così fiera di me!
<<Anja, non provare minimamente a pensare che...>>
<<Cosa?>> lo sfido. <<Provare a pensare cosa, Valentine? Pensi davvero che non abbia il coraggio di denunciare i tuoi fratelli solo perché sono dei bambini?>>
<<Se ci provi...>>
<<Fammi del male, e poi vedrai quanto io ne farò a te.>>
Si blocca, il suo volto è contratto, anche i bambini hanno capito che la situazione si è fatta tesa, e mi piace, mi piace un sacco vedere come l'irritazione fa impallidire il suo volto, mi piace guardare la sua mascella che si serra, le sue labbra che si chiudono e distendono in una linea dura e orizzontale, mi piace troppo. Mi piace tantissimo. Perché anche lui se lo merita. Se lo merita eccome. Per quello che mi ha fatto, al liceo, quando ha distrutto il mio armadietto e ha scritto E' COLPA TUA, per aver detto la verità che non sapeva nemmeno essere una verità. <<I bambini stavano solo giocando>> dichiara con tono profondo e baritono. <<Ti stavano solo prendendo in giro.>>
<<Magari sì, magari no, ma visto che sono una stupida principessa snob con la puzza sotto il naso non vedo perché non sfruttare la cosa. Riesco già immaginarmi la faccia dei poliziotti quando scopriranno che appartengo alla famiglia King.>>
Sorrido di fronte al lampo di luce irritato che attraversa i suoi occhi. <<Anja...>>
<<Io mi chiamo Sophia King!>> dichiaro a gran voce. <<Niente principessa, niente Anja, qualunque cosa significhi, solo Sophia King, mettitelo bene in testa perché se mi capitasse di rincontrarti in simili circostanze dovrai cercare un avvocato molto bravo.>>
<<Sei brava a minacciare quando il tuo culetto sodo è protetto da paparino, non è così?>> mi ringhia contro lui.
Mi rendo conto in questo momento, di quanto stupida posso esser stata. Avrei dovuto lasciare andare quei nanerottoli, rifiutarmi di seguirli, la situazione sta degenerando e io sono troppo stanca per poter continuare questa stupida, insensata lite. Sono stanca, sono debole, sono rotta.
Non ce la faccio a riaggiustarmi.
<<Pensala come ti pare. Continua pure a fare il truffatore>> dichiaro alla fine, sollevando le mani in segno di resa. <<Io me ne chiamo fuori.>>
Quando mi volto, tuttavia, mi rendo conto di non avere la più pallida idea di dove mi trovi. Ho seguito quei ladruncoli incalliti senza preoccuparmi di ricordare la strada che stavo percorrendo, e ora mi ritrovo in una viuzza alquanto inquietante, in piena notte, con un energumeno a cui in passato ho minacciato di renderlo per sempre un eunuco.
Merda.
Stringo con forza la pochette appena riottenuta, e nella mia testa penso alle varie possibilità che ho davanti. Possibilità numero uno: andare alla vaga, nella speranza di riconoscere qualche villa o stradina. Possibilità numero due: chiedere al truffatore incallito alle mie spalle di riaccompagnarmi alla stazione. Possibilità numero tre: google maps. Ma certo! Google Maps! Quanto sono stata sciocca, è un bene che porti sempre con me il telefono.
Solo che Jack Valentine non si muove, e nemmeno i suoi fratelli, continuano a fissarmi come se si aspettassero che dalla mia testa inizino a crescere funghi. Forse lo sperano anche. E io sono troppo orgogliosa per ammettere di essermi persa per colpa di due nanerottoli ladri. <<Qualcosa non va, principessa?>> mi sfotte Valentine, col suo sorriso divertito che ho sempre detestato.
<<E' tutto apposto, meravigliosamente apposto>> mi affretto a rispondere, mentre una goccia di sudore scivola lungo la mia schiena. Sono stata una sciocca, non avrei minimamente dovuto pensare di inseguire quei piccoli truffatori. E ora? Questa via è deserta e sembra alquanto pericolosa, e io sono una ragazza ventenne che se ne va in giro con una pelliccia che costa più del guardaroba di Sasha (non che ci voglia molto), degli stivali da ottocento dollari e una pochette che hanno appena tentato di rubare.
Il sudore dilaga come una cascata.
Merdamerdamerdamerda.
Dovrei chiamare un taxi? Sì, sembra l'idea migliore, ma allo stesso tempo sono restia a starmene ferma in questo posto con un tizio inquietante dietro che sfora alla grande il metro e novanta, pesa più di novanta chili e a cui un tempo gli ho arrecato un'umiliazione cocente. Deglutisco rumorosamente. Cosa farebbe Sasha, in certi casi? Diavolo, che ci penso a fare? Quella tizia non ci rifletterebbe neanche su e tornerebbe alla stazione da sola, a piedi, nonostante i rischi. E' una ragazza che se ne va in giro per la città con uno spray al peperoncino e un taser illegale dentro la borsa. E' lei il pericolo per i possibili malviventi, non il contrario.
<<Ti sei persa, principessa?>>
<<Non mi chiamare principessa>> puntualizzo irritata, tornando a voltarmi verso loro tre.
Sul serio, devo sbrigarmi ad andare in palestra per imparare qualcosa di autodifesa. Almeno le basi. Cribbio. Mi faccio pena da sola.
Patetico, semplicemente patetico.
Prima che possa andarmene, Jack fa scendere per terra la bambina fra le sue braccia e posa le mani sulle spalle di entrambi i furfantelli. Dice loro qualcosa, usando di nuovo quella lingua sconosciuta che mai, prima d'ora, avevo sentito. I due bambini sorridono e lo baciano sulle guance, prima di salutarmi con un bel bacio volante, come se fino a pochi minuti fa non mi avessero mai scippato la pochette.
Piccoli bastardelli.
Scappano via come un razzo, superando la viuzza fra le due case e scavalcando con dei balzi impressionanti una staccionata in legno dietro la quale si trovano centinaia di roulotte e tende, probabilmente abitate dalla popolazione zingara del posto.
E' a questo punto che faccio due più due. L'incontro con Avery mi ha prosciugata da ogni forma di intelligenza per un periodo fin troppo promulgato. <<Sei uno zingaro?>>
Lui si volta verso di me, si erge come una montagna, i muscoli sotto la sua maglia si tendono con furia, quasi stesse aspettando un colpo violento da parte mia. Ricordo che una volta Pamela mi disse che al mondo esistono due tipi di bellezze: quella oggettiva e quella soggettiva. Ad esempio, aveva detto, te e i tuoi fratelli appartenete alla prima categoria. E sono consapevole di quanto avesse ragione, non è per vanto, anzi, tutto vorrei fuorché esser così, ma si tratta di un semplice dato di fatto.
Mentre Valentine... Valentine appartiene indubbiamente alla seconda categoria. Non è bello, non è figo, è particolare. Ha questa corporatura massiccia da ragazzo di strada che potrebbe pure intrigare alcune ragazze, ma che ne spaventerebbe altrettante, inclusa la sottoscritta. Quello sguardo acuto, da falco, da predatore, quella barba, quei capelli poco curati, quella cicatrice verticale che attraversa la sua guancia sinistra dall'angolo esterno dell'occhio all'angolo esterno della bocca. Ed è peloso, Dio se non è peloso, quel poco di pelle scoperta che la manica lascia trasparire mostra peli neri e scuri come i suoi capelli.
<<Sono un rom>> dichiara alla fine. <<Qualcosa da dire, in proposito?>>
<<Be', ora si spiegano molte cose.>>
Un lampo d'ira attraversa i suoi occhi, il suo corpo si irrigidisce, mi sforzo di mantenere lo sguardo alto e fiero. <<Me ne sbatto che sei una donna, se osi insultare ancora una volta la mia famiglia...>>
<<Perché, scusami, tu puoi insultare la mia ma io non posso insultare la tua?>> rispondo, l'acido in gola che annienta ogni forma di buon senso. <<Oh, l'ipocrisia...>>
<<Principessa...>>
<<Non mi chiamare principessa.>>
Lui serra la mascella e sbuffa, come un toro. Ed effettivamente la somiglianza con quell'animale è abbastanza azzeccata. Toro Valentine. Suona bene, Sasha lo adorerebbe, anche se lei preferisce chiamarlo Doberman o Hipster. <<Muoviti>> dichiara alla fine, superandomi con un passo e affacciandosi verso il marciapiede.
<<Come?>>
<<Dove hai parcheggiato la tua Maserati?>> mi domanda, fermandosi non appena scorge la mia figura ancora immobile.
<<Come?>>
<<Sai dire solo questo?>>
<<Che diavolo?>>
<<Oh, vedo che ti è rimasta ancora un po' di fantasia, pensavo che a furia di cercare tutti quegli insulti altolocati avessi prosciugato ogni forma di immaginazione.>>
Vorrei lanciargli la mia pochette in testa, ma costa troppo per esser sporcata dal suo stupido sangue, e in più c'è anche la possibilità che se la freghi come i suoi fratelli minori. D'altronde da qualcuno quei piccoli birbanti dovranno aver preso l'esempio. <<Se non lo hai ancora capito, principessa, ti voglio accompagnare fino alla macchina. Visto che ti comporti come una donzella in pericolo non vedo perché non fingermi un prode principe azzurro così da scortarti sana e salva fino alla tua carrozza dorata.>>
Queste parole sono più taglienti di quei frammenti di vetro che io, masochista che non sono altro, feci incastrare nella mia gamba destra dopo aver dato un calcio al tavolino del salotto. Principe azzurro. Donzella in difficoltà. Sembra tutto così patetico, tutto così lontano. Eppure, un tempo, era davvero così.
Un tempo, era tutto così.
<<Dove devi andare?>>
Faccio fatica a parlare. <<Al parcheggio della stazione.>>
Lui annuisce, e riprende a camminare.
Stringo le labbra, le sigillo in un muto silenzio che non so quanto ancora potrò tollerare, e faccio un passo avanti, col suono dei tacchi che risuona sull'asfalto del marciapiede come gli zoccoli di un cavallo. Valentine è di fronte a me, non mi affianca e si rifiuta a voltarsi per controllare la situazione, le sue gambe si muovono lente, ma a causa della loro lunghezza ogni sua falcata equivale a tre delle mie, perciò non mi stupisco nel notare che la distanza fra i nostri corpi aumenta man mano che proseguiamo lungo il marciapiede.
E c'è silenzio.
C'è un sacco di silenzio.
Ma non è quel silenzio.
Non sarà mai quel silenzio. Quel silenzio dolce, piacevole, che mi schiariva sempre la mente quando passeggiavo mano nella mano con Andrew, quando andavamo a Dream Lake e ci tuffavamo in quel lago magico e ci divertivamo a prenderci in giro senza parole ma con molti fatti. Quello era il silenzio che amavo, il silenzio che più mi manca.
E quel silenzio non c'è più.
Ce n'è un altro. Ma non è il suo. Non potrà mai essere il suo. E' una flagellazione continua, un ripetitivo colpo al cuore che sembra stremato, che si rifiuta di continuare a battere ma che per qualche strano motivo continua a farlo. Forse perché l'ha sempre fatto, forse perché non sarebbe più un cuore se non lo facesse, o forse perché la mia morte è solo metaforica, e non fisica. Al contrario di quella di Andrew, che è presente nella mia mente e assente ovunque io posi il mio sguardo.
Continuiamo ad avanzare in silenzio, svoltiamo in varie stradicciole che non ho mai visto prima d'ora, e i miei occhi si posano sulla schiena dell'uomo che mi sta portando forse al parcheggio o forse alla mia tomba. Cammina con fierezza, le sue gambe si muovono sicure, le sue spalle sono dritte, alzate, ampie, la sua schiena è rigida, riesco a intravedere quello che sembra essere un tatuaggio tribale sotto il colletto della maglia. I suoi abiti sono talmente slavati che a fatica riescono a entrargli. Non ha l'orgoglio nobile di Aaron, né il fascino ammaliante di Bill, e men che meno la dolcezza distruttiva di Andrew. Appartiene a una categoria completamente diversa, una categoria che non voglio e non so definire.
La sua coda fa ondeggiare i suoi capelli a ogni suo passo, scorgo un altro tatuaggio, dietro l'orecchio sinistro. Quello che sembra un ragno. Perché? <<Credevo che gli zingari non amassero tatuaggi e piercing>> mi ritrovo a dire, prima che possa impedirmelo.
Lui non risponde, continua a camminare, fingendo di non aver sentito. E forse è meglio così, il mio disperato bisogno di riempire questo silenzio che non sopporto e non mi appartiene potrebbe portarmi a commettere errori irrimediabili. Continuo a seguirlo lentamente, il paesaggio muta, all'improvviso le strade si fanno un po' più pulite, un po' più sicure, un po' più accoglienti, e quando all'improvviso si ferma, sussulto. I suoi occhi grigi sono su di me, due occhi che sembrano volermi dar fuoco. <<Affinché tu lo sappia, esistono migliaia, anzi, milioni di comunità rom diverse fra di loro. Solo perché secondo il vostro stupido stereotipo da gagè siamo tutti puzzolenti e stronzi non significa che lo siamo per davvero.>>
Lo guardo, sorpresa da questo improvviso attacco. <<Non ho mai...>>
<<Scommetto che appena siamo arrivati qui hai pensato che questo posto fosse decisamente più sicuro, meno pericoloso e più pulito dell'altro, non è così?>>
Sigillo le mie labbra, in un muto silenzio colpevole che basta per fargli conoscere la mia risposta. Rotea gli occhi al cielo e torna a darmi le spalle, riprendendo a camminare con falcate più decise e violente. <<Ehi!>> esclamo, tentando di raggiungerlo coi miei piccoli passi. <<Ti ricordo che i tuoi fratelli mi hanno derubato, è ovvio che sia spaventata!>>
<<Ti hanno preso una semplice poccetta, e te l'hanno restituita!>>
<<Pochette!>> gracchio con affanno. <<Si chiama pochette!>>
<<Quel che sia.>>
L'irritazione sale, e sale e sale ancora. <<Non è colpa mia se i tuoi piccoli te hanno avuto la brillante idea di borseggiarmi!>> esclamo. <<E' già tanto che non abbia chiamato la polizia! Cosa avresti fatto al mio posto?>>
<<Sicuro non li avrei inseguiti!>>
<<Stai sul serio difendendo i tuoi fratelli?>>
<<Sì!>> esclama, tornando a fermarsi, con gli occhi più lucenti del magma, mi guarda. <<Sì, li sto difendendo! Perché a differenza nostra tu hai talmente tanti soldi che potresti comprarti un intero supermercato! Perciò, se permetti, non mi dispiace poi così tanto se qualcuno ti borseggia!>>
<<Che uomo nobile!>> esclamo.
<<Non ho mai detto di esserlo, principessa!>>
<<Be', io invece ti ho detto di non chiamarmi così!>> ribatto irritata. <<Perdonami se tu e i tuoi fratelli non mi avete fatto una buona impressione. Tu hai distrutto il mio armadietto quando facevo il liceo.>>
<<Ma se non sapevo neanche di chi fosse quell'armadietto!>>
<<Oh, e immagino che questo ti faccia molto onore, Jack Valentine! Hai distrutto l'armadietto di cui non conoscevi nemmeno l'identità del proprietario per mille fottutissimi dollari e ora pretendi che io non abbia pregiudizi su di te?>> Gli faccio notare, impuntando i piedi. <<Solo perché tu hai il diritto di trattarmi a merda allora io non posso dire nulla in proposito?>>
<<Io non ti tratto a merda!>> si difende. <<Mi sembra chiaro che non vorrei trattarti proprio, in generale! Che non voglia avere nulla a che fare con te!>>
<<Be', allora la prossima volta dì ai tuoi fratelli di controllare a chi stiano fregando la pochette!>>
Il nervo scoperto sul suo polso inizia a pulsare più velocemente, ma non si muove, e non lo faccio nemmeno io. Restiamo a guardarci e basta, come due cani, come un doberman e un barboncino, proprio come disse Sasha anni fa. <<Sai cosa? Fa' come ti pare>> esclama Valentine. <<Ti riaccompagno alla tua Maserati e chiudiamo qua la discussione.>>
<<Non ho una Maserati!>>
Un verso sprezzante, torna a camminare dandomi le spalle.
<<E devi andare più lento!>> esclamo poi. <<Perché se non l'hai notato io sono un metro e sessanta e tu sfiori i due metri! Perciò o rallenti quella cazzo di camminata o me ne torno al parcheggio da sola! Anzi, hai ragione, chiudiamo direttamente qua la discussione. Torna pure dai tuoi fratelli, io me ne vado alla mia fottutissima Jeep.>>
Il suo sopracciglio torna a sollevarsi quando si ferma e io lo supero a passi veloci. <<Guidi una Jeep?>>
Lo fulmino con un'occhiataccia e dopo avergli mostrato il medio continuo a camminare, ma, ahimè, è impossibile sfuggirgli, perché la sua camminata è decisamente più veloce e efficiente della mia. <<Sei un truffatore>> gracchio <<e non ho bisogno che un truffatore mi accompagni alla mia maledetta macchina.>>
<<Allora è un bene che lo sia, così non ho la necessità di fare quello che mi dici.>>
Maledizione!
Mi affianca, e il suo divertimento è palese, perché sa che sto camminando e mi sto affaticando per mantenere il passo veloce, mentre per lui si tratta di una semplice passeggiata come altre. <<Nella nostra famiglia i tatuaggi sono accettati, così come i piercing.>>
Sono sorpresa, non mi aspettavo rispondesse alla mia domanda, men che meno così in ritardo. <<Anzi, di solito gli unici a non averceli sono i bambini.>>
<<Grazie per l'informazione, ora posso morire felice.>>
Mi fulmina con un'occhiata omicida e io faccio altrettanto. <<Se non sbaglio, sei stata tu a chiedermelo.>>
<<Se non sbaglio, ti eri rifiutato di rispondermi e avevi iniziato a insultarmi.>>
Lui torna a scrutare la strada di fronte a noi, e lo sento borbottare qualche parola incoerente che ora lo so - nasce dalla lingua della sua comunità. Riflettendoci, avrei dovuto arrivarci prima alla sua appartenenza etnica. Effettivamente conserva molti tratti somatici delle comunità rom, come la pelle più scura, i lineamenti delineati, la peluria, il taglio degli occhi. Non ho incontrato molti zingari, nel corso della mia breve vita, anzi, potrei contare sulle dita di una mano simili incontri, che sono stati più che altro uno scambio di sguardi o di cenni, eppure, nonostante ciò, c'è qualcosa di diverso in lui, rispetto a quelle occasioni.
E' così diverso da...
No. Non posso pensarlo. Non li devo minimamente paragonare. Lui non ne vale la pena. Sarebbe un'offesa ad Andrew se anche solo provassi a metterlo a confronto con un truffatore come Valentine. Se solo lui...
Se solo lui...
Trattengo il respiro. Il fuoco brucia nei miei polmoni a ritmo della mia disperazione, mentre i miei occhi si riempono di lacrime. Non devo piangere. Non di fronte a Valentine. Ricaccio indietro tutto quanto: lacrime, dolore e rimpianti. E finalmente, quando alzo lo sguardo, riesco a scorgere all'orizzonte il grosso parcheggio della stazione, riesco persino a intravedere la mia jeep rossa. E' proprio lì. Sono al sicuro, ora. Posso tornare a casa, ora. Fra poco potrò piangere. Fra poco potrò tornare ad essere debole.
<<Eccoci arrivati, principessa.>>
Siamo di fronte alla mia jeep, la mia bellissima jeep. Devo solo aprire la portiera, entrare, avviare il motore, e tornarmene a casa a biasimare il mondo e, soprattutto, me stessa.
Con la mano destra, stringo con forza il polso sinistro, dove si trova l'elastico pieno di pompon che Andrew mi aveva regalato. Il suo regalo d'addio. Il regalo che mi diede quando ancora non sapevo, quando ancora ero del tutto ignara che lui stava pensando di uccidersi e che il giorno dopo sarebbe stato invece ammazzato da una pazza perché aveva cambiato idea.
<<Bene.>> Mi rifiuto di ringraziarlo, mi rifiuto di mostrargli il mio riconoscimento. Non lo merita. Non l'ha mai meritato. Non lo meriterà mai. Apro la macchina e tiro la maniglia così che possa entrare nell'abitacolo. <<Addio, Valentine.>>
<<Addio, Anja.>>
Quando parto, mi rendo conto di non avere ancora idea del perché mi chiami in quel modo.
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