Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Ventuno.


I primi momenti sono i più difficili.

Gli operatori sanitari che entrano nella sua stanza d'albergo bardati come se stessero andando a recuperare rifiuti radioattivi direttamente da Chernobyl. Pochi effetti personali infilati alla rinfusa in un sacchetto di plastica trasparente. La sensazione dei guanti di lattice sulla pelle, la sua schiena contro la barella, i capelli lunghissimi che restano incastrati nella mascherina che le premono sul viso.

Le sue mani cercano un appiglio, i suoi occhi cercano qualcuno.

Si sente chiamare, non riesce a rispondere.

Nessuno la tocca.

Un pezzo di tuta blu nel suo campo visivo, due occhi altrettanto blu, terrorizzati. Immagini confuse, pensieri spezzati.

"Max levati da lì"

Una voce conosciuta.

"Dobbiamo andare"

Un colpo di tosse, il rumore delle ruote che scivolano sul tappeto morbido del corridoio, l'ascensore che scende fino al piano terra. Le porte che si aprono e si chiudono dietro di lei.


Anita resta in ospedale solo per cinque giorni. Poi la dimettono, nonostante non stia bene, perché stanze e corridoi sono pieni di persone che stanno peggio e ce ne sono così tanti che non sanno più dove metterli. Il Belgio, a quanto pare, è uno dei paesi più colpiti dalla pandemia ed Anita è solo un numerino nelle statistiche.

Ha girato l'Europa in lungo e in largo per due mesi sentendosi invincibile, convinta che niente potesse accaderle. Perché sarebbe dovuto succedere proprio a lei?

E perché no?

Un taxi del trasporto sanitario la scorta fino all'appartamento a Liegi che la Red Bull le ha riservato per terminare la quarantena. Non è più di una stanzetta asettica con un angolo cottura, un letto a due piazze e un piccolo bagno, ma è molto luminoso e sembra perfino più accogliente di casa sua a Milton. Non che ci voglia molto.

La maggior parte delle sue cose, telefono a parte, sono ancora nel sacchetto di plastica in cui le hanno infilate i paramedici, mentre la sua valigia rossa è all'ingresso del monolocale, vicino all'attaccapanni.

Ha ancora due linee di febbre e si sente molto debole, ma almeno si regge in piedi e respira da sola. Le sembra già molto più di quanto le fosse dovuto.

La cosa che la spaventa di più, in realtà, anche se non ha il coraggio di ammetterlo nemmeno a sé stessa, è l'idea di rimanere da sola per un tempo indefinito, senza poter avere contatti con nessuno, e di annegare nella sua mente. E, forse ancora di più, il pensiero di sentire giornalmente sua madre e di informarla sul suo stato di salute, sul suo livello di produttività e sui suoi programmi per il futuro prossimo.

Il conforto che le ha dato sentire la voce dei suoi genitori al telefono in quei giorni difficili è stato presto spazzato via dalla consapevolezza di aver ceduto il fianco a tutti i comportamenti manipolatori che sua madre ha sempre avuto, le ha dato potere.

Quando ti negativizzerai, vorrei tornassi in Italia. Questa vita non fa per te, è pericolosa e ha portato solo rogne. Sapevo che sarebbe successo, ecco perché ero così contraria. Alla fine cosa ti hanno dato? Ti hanno lasciata a te stessa, senza tutele. Dovremmo parlare con un avvocato.

Le ha ripetuto queste frasi all'infinito, sono diventate la hit parade del loro rapporto problematico.

Suo padre è stato più diplomatico, come al solito, ma si è dimostrato d'accordo con la moglie. Volevano che tornasse a casa, e che lo facesse al più presto.

Anita non ha ancora capito cosa vuole.

Si stende sul letto di schiena, strofinando il dorso delle mani sul copriletto soffice, godendosi quel piccolo frammento di normalità. Ripensa a Montmelò, alla notte in cui hanno guardato le stelle dal tetto e lei lo ha visto fragile per la prima volta. Le sembra passata una vita, eppure sono passate solo un paio di settimane.

Il silenzio assoluto della stanza è interrotto dal suo cellulare che inizia a suonare, nella tasca.

È Lynn.

"Sei arrivata all'appartamento?" è la prima cosa che le chiede. L'inflessione nella voce è meno cordiale ed entusiasta del solito.

"Sì" le risponde lei, con un sospiro, fissando il soffitto bianco. "Come va?"

Ha saputo il giorno prima che anche la sua collega è positiva e che è stata messa in isolamento, nonostante non abbia avuto alcun sintomo.

"Bene, immagino" dice Lynn, quasi isterica. Dal tono che usa, sembra che sia sul punto lanciarsi in una lunga polemica, e Anita la immagina camminare avanti e indietro per l'appartamento, a pochi piani di distanza da dove si trova lei, consumando il parquet. "Sono solo mortalmente annoiata. Ci credi che sono talmente stufa che vorrei solo lavorare? E invece no! Ross mi ha detto che si occupa lui del comunicato stampa per Monza, e di sfruttare bene le mie ferie pagate. Hai capito, ma ti pare?!"

Anita fa una risata spontanea, e questo le causa una fitta al petto.

"Sono stata indelicata, vero?" piagnucola Lynn, interpretando in questo modo il suo silenzio. "Tu sei stata in ospedale e io ti ho parlato di quanto mi sono annoiata in questi giorni. Sono veramente una pessima pessima amica. Anzi, che dico, una pessima persona."

"È tutto okay, Lynn"

Una domanda le preme sulle labbra, e non ha modo di fermarla. Anche quando vorrebbe impedirsi di pensarci, la sua mente va lì automaticamente.

"Sono andati tutti, a Monza?"

Lynn esita un attimo prima di risponderle, e Anita sa benissimo che ha capito a cosa sta alludendo e che non sa che risposta darle. Non vuole metterla alle strette, è che deve saperlo.

"Anche il test di ieri è tornato indietro negativo." Dice la sua collega, prudente, e lei ha la netta impressione che non le stia dicendo tutta la verità. "Non lo ha preso."

L'ondata di sollievo che la avvolge in quell'istante le fa tremare le ginocchia, tanto che Anita è contenta di essere già distesa. La sola potenzialità di aver esposto Max ad un rischio del genere l'ha mandata completamente nel panico. Non ha letteralmente pensato ad altro in ogni istante di ogni ora di lucidità nei giorni del ricovero.

Ha un ricordo sfocato di quando l'hanno portata via, e non sa quanto di quello che crede di ricordare sia successo davvero. Max era davvero lì? Fuori dalla sua porta?

Max non ha più chiamato.

Nemmeno una volta.

C'è silenzio dall'altro lato del telefono.

"Ma?" la incalza allora Anita, impaziente. Qualcosa non le torna.

"Nessun ma"

"Andiamo Lynn, non dirmi cazzate"

Una piccola pausa.

"Non sta bene, Ani. Penso dovresti davvero chiamarlo."


*


Il Gran Premio di Monza ha per Anita il nome di suo padre. Lui ci è andato spesso negli anni, sin da quando era ragazzo, prima con suo fratello maggiore, poi da solo, quando è venuto a mancare. Non ha mai viaggiato molto, ma una volta l'anno preparava la borsa e attraversava l'Italia solo per vedere la gara dal vivo nel Tempio della velocità, sempre dalla solita curva. Quella da dove aveva visto Schumacher vincere nel 1996, in quel momento magico intrappolato per sempre nella foto sul suo comodino.

Suo padre non se lo è praticamente mai perso, ma in ventitré anni lei non è mai riuscita ad accompagnarlo all'autodromo. Non lo ha mai voluto.

Quello del 2020 sarebbe stato il suo primo Gran Premio di Monza, ma evidentemente era destino che non vi mettesse piede.

Lo guarda dallo schermo del computer, con Lynn in videochiamata sullo sfondo, seduta a gambe incrociate sul letto sfatto, mentre sorseggia una tazza di tè al limone. Sta cercando di ignorare il suo telefono perché, da quando è stata dimessa, Paul non fa altro che cercare di mettersi in contatto con lei. È estenuante, e parlare con lui è decisamente l'ultima cosa che vorrebbe in quel momento.

Mentre aspettano la partenza, la sua collega la informa sulle ultime novità del caso.

Il weekend di Max, e di conseguenza quello di tutta la Scuderia, non sta andando affatto bene. Si è qualificato solo quinto e ha riscontrato problemi di potenza sin dall'inizio. Problemi che gli ingegneri non sono riusciti a risolvere, incrementando ancora di più il nervosismo del pilota.

Una parte di lei si chiede in quale misura possa essere colpa sua. Non pensa di contare così tanto da influenzare davvero il suo umore, però non può fare a meno di ricordare le parole che le aveva rivolto poche settimane prima, nella notte che avevano passato in macchina.

Di nuovo, non lo ha chiamato.

Non saprebbe dire perché non lo ha fatto, se non per cercare di preservare un angolino di dignità ancora intatta, per non cadere vittima dei suoi silenzi, per farseli scivolare addosso come se non fossero davvero importanti.

Gli ha mandato un messaggio, quella mattina. Due righe, generiche ed impersonali, che sono rimaste ignorate. Anche solo rileggere gli ultimi messaggi che si erano scambiati le ha causato una sensazione fastidiosa di vuoto allo stomaco.

Qualche giorno di baci rubati non significa nulla. Max non è suo e non lo è mai stato.

Nella ripresa del cameraman, i semafori si accendono, uno alla volta, come occhi rossi, e poi si spengono tutti insieme. Già dai primi giri è facile percepire che ci sia qualcosa che non va.

Anita vorrebbe essere nei box per guardare direttamente i tempi e farsi spiegare da Matt i valori delle telemetrie. Per buttare giù di getto gli appunti per il solito trafiletto che le riservano sul sito dopo ogni GP. Per sentire in cuffia la voce ruvida dell'olandese lamentarsi con il suo ingegnere di pista e con Christian.

Dopo un brutto incidente di Leclerc alla Parabolica viene esposta la bandiera rossa. La Ferrari è al secondo doppio ritiro della stagione, lontana anni luce dall'essere un problema per loro, mentre Hamilton ha avuto una penalità di dieci secondi ed è fuori dai giochi. Se sono fortunati abbastanza hanno la possibilità di vincere ancora. Dopo il primo posto a Silverstone sarebbe decisamente un bel colpo.

Al trentesimo giro Max rientra ai box, ma non è per la solita sosta. Vederlo dall'esterno, senza alcuna avvisaglia, è ancora più angosciante. La ripresa si sposta sui meccanici che tirano via il carrellino e raffreddano le gomme. Lui si slaccia le cinture ed è fuori dalla macchina, fuori dalla pista, fuori dalla visuale.

Anita chiude il computer di scatto con la mano nonostante la gara sia ancora a metà, con il cuore che le pulsa in gola.

Ricorda bene la reazione di Max al suo primo ritiro della stagione, e dopo il fine settimana da dimenticare che ha avuto può solo immaginare le scenate a cui assisteranno i presenti.

Vetri rotti, pugni sul muro, spallate e spintoni.

Accessi di rabbia incontrollata, violenza gratuita, tumulto e delusione.

La ricerca di qualcuno a cui dare la colpa. Di qualcosa contro cui sfogarsi.

In tutta la sua vita, ad Anita non è mai capitato di sentirsi così spaccata in due, così incerta su come reagire. È combattuta, a metà strada fra il bisogno disperato di provare a calmarlo, anche a costo di essere investita dalla sua furia, e il desiderio di lasciarlo solo, di essere quasi felice del loro distacco, che in fondo significa solo che non è un suo problema, che lei non gli deve più niente.

Con Max non c'è modo di provare una cosa per volta. Le emozioni che suscita in lei sono vivide, impetuose, ingarbugliate: nell'eccitazione c'è la paura, nella serenità c'è il tormento.

La verità è che non lo conosce e non sa quale strada lo ha portato a diventare la persona che ha conosciuto. Vorrebbe poter dire di essere certa che ci sia qualcosa di buono in lui, qualcosa da salvare e preservare. Ha la sensazione di aver intravisto spiragli di un'anima, da qualche parte, anche se lui ha provato a nascondere in ogni modo la sua parte debole, molle, vulnerabile.

Pensa ancora che avere briciole di Max sia sufficiente, le basti?

Ma, soprattutto, ne vale la pena?

Anita si raggomitola sul letto, nascondendo il viso nella felpa, incapace di trovare risposte alle sue domande. È in lotta contro sé stessa, anche se poi fa l'unica cosa che può fare.

Prende in mano il cellulare, con le dita che le tremano.

E il cellulare fa una cosa che non si aspetta.

Inizia a suonare.

Osserva l'avviso di chiamata con gli occhi strabuzzati. È confusa, per dire poco.

Prima che smetta di squillare fa scorrere il pollice verso destra e si porta il telefono all'orecchio con un pronto?, anche se dall'altra parte c'è solo molto silenzio.

Anita è costretta ad allontanare il cellulare dalla faccia per essere sicura che lui l'abbia davvero chiamata.

Il contaminuti scorre, ma dall'altra parte non si sente quasi nulla, se non un respiro affannoso.

"Max?" si ritrova a chiamarlo, con un'urgenza che non si aspettava nella voce. Si porta le ginocchia al petto, strofinandosi la gamba con il palmo della mano, incapace di stare ferma.

Il silenzio dall'altro capo del telefono fa male. Perché chiamarla se non ha la minima intenzione di rivolgerle la parola?

"Max, sei lì?"

Silenzio.

"Max, ho visto la gara e..." prova allora, e questo deve far scattare qualcosa, perché lui risponde forte e chiaro.

"Non mi va di parlarne. Chiaro? Non ne voglio parlare." La sua voce è dura. Può immaginarlo chiuso nella sua stanzetta, la fronte contro la porta, i muscoli del collo tesi fino allo spasimo.

"Non dobbiamo parlarne Max, lo sai" mormora lei. "Mi hai chiamato tu..." poi si blocca. Non sa nemmeno lei perché lo ha fatto. L'ultima volta che si sono ritrovati faccia a faccia, sul circuito, lui l'ha cacciata in malo modo, l'ha tenuta fuori, le ha urlato contro: vedi di stare fuori dalla mia testa.

Avere a che fare con lui non è facile, è come camminare sul ghiaccio sottile. Anche in quel momento, con tutti quei chilometri a separarli, si sente intimorita, ha paura di dire la cosa sbagliata.

Perché se dice la cosa sbagliata è davvero finita. Lo sa. Lo perde.

Anita pensa che il silenzio non possa fare danni, ma è evidente che si sbaglia. Ultimamente non ne ingrana una.

"È stata una pessima idea" dice Max.

Non sembra arrabbiato.

"Possiamo chiudere."

"No" mormora lui in risposta, ed è praticamente una preghiera. Sembra un bambino.

"Non fare così. Dimmi di cosa hai bisogno..."

"Io non posso continuare così. Non voglio questo"

Le parole di Max spezzano il respiro quanto la malattia.

"Cosa stai dicendo?"

Le sue paure si concretizzano. Prendono la forma del suo viso ipnotico, delle sue labbra carnose e dolorosamente belle da guardare, da baciare, da far tendere alle estremità in un sorriso triste.

Anita porta la mano al colletto della felpa, lo allenta cercando di respirare meglio.

Balbetta delle scuse un po' inconsistenti, svia il discorso, s'imbroncia, sperando di distoglierlo dal suo intento.

Ma Max va avanti, e ogni parola è una stoccata nel centro del petto.

"Anita questa cosa, non va bene. Deve finire."

Lei apre le labbra, sbigottita.

È ferita e vuole ferire, fare male.

Il cervello le fa cortocircuito, il vomito di parole risale e si svuota incontrollabile, impregnando di veleno ogni sillaba.

"Quale cosa, Max? Non c'è nessuna cosa." Dice, senza dare spazio ad alcuna replica. "Direi che non era il caso nemmeno di tirarla così tanto per le lunghe. Ci si vede."


//Spazio autrice (si, sempre io)

Buonasera amiche e ben ritrovate con un nuovissimo capitolo con un giorno di anticipo. Devo dire che è andato MOLTO lontano dall'idea che avevo all'inzio, e soprattutto il finale non era minimamente preventivato. Come al solito hanno fatto quello che volevano, rovinandosi con le loro stesse mani, e vi assicuro che non siete pronti al Mugello. Fidatevi.

Il capitolo di oggi è sponsorizzato da un avvenimento infausto. Purtroppo ieri pomeriggio mi hanno comunicato che ho avuto un contatto con un positivo e sono in quarantena, in attesa che la ASL mi contatti. È un periodo molto molto difficile, e pensare a questa storia mi tira un attimo su, anche se ironia della sorte, mi sono ritrovata a scrivere proprio di questo.

Max e Anita, è il capolinea?

Leggete, commentate, votate, fatemi un pochino compagnia se vi va. Si può essere tanti soli in 3mq.

Vostra sempre, T.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro