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Trentadue.

TRIGGER WARNING: questo capitolo tratta temi sensibili come l'abuso, su più livelli. Se tu o qualcuno che conosci ha subito o sta subendo qualcosa di simile, chiedi aiuto. Pur essendo ispirata a fatti e persone realmente esistenti, MM è solo una storia di finzione e per questo ogni argomento trattato all'interno di questa storia e questo capitolo nello specifico è da ritenersi frutto di fantasia.

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Tamburello, Villeneuve, Tosa, Piratella, Acque Minerali, Variante Alta, Rivazza, Variante Bassa. E di nuovo. Sessantatré volte.

Almeno in teoria.

Quando il circuito di Imola è stato inserito nel calendario della stagione, Anita si è documentata al meglio per conoscerne ogni curva, ogni cordolo, ogni segreto. È fatta così, ce l'ha nel sangue. Non può conoscere le cose in modo superficiale: ne sa tutto, o niente affatto. Ha visto filmati d'epoca, simulazioni, ha perfino chiesto a Max di guidarla sul tracciato, in bicicletta, mentre scriveva il pezzo per il sito.

In più è il suo primo Gran Premio italiano, ed è davvero emozionata, anche se per via dell'ospite non può vederlo dalla sua solita postazione. Cerca di isolarsi nella sua bolla, le mani giunte, gli occhi sullo schermo.

Rebecca, dal canto suo, è come una bambina. È spaventata dai rumori forti e chiede le cuffie anche se non sono così vicine alla pista, ha un milione di domande e si annoia la metà del tempo quando qualcuno prova a darle delle risposte.

Anita si pente di averla fatta venire più o meno dieci minuti dopo l'inizio della gara.

Quando le luci si spengono, accade sempre tutto troppo in fretta. Bastano più o meno due decimi di secondo per schiacciare l'acceleratore con il piede, più o meno cinque secondi per andare da 0 a 200.

L'equilibrio è essenziale, per una partenza perfetta. Non bisogna avere fretta. Bisogna individuare l'istante migliore, aspettare un po', ma non troppo, affidarsi alla macchina, sentire la strada.

In tutti i suoi anni di esperienza nelle corse, Max ha avuto poche partenze perfette come quella ad Imola.

Anita lo guarda portarsi avanti a Lewis Hamilton con il fiato sospeso, mentre Rebecca le stritola ansiosa la mano, incidendole la pelle con le unghie smaltate. Nei giri successivi la vettura trentatré si avvicina progressivamente a Bottas, gli sta alle calcagna.

È solo questione di tempo, pensa. Anche se, probabilmente, lo dice solo perché questo sport la appassiona nel profondo, considerato che la sua amica si è già tediata delle auto che corrono in circolo e sta guardando il cellulare.

La voce di Max le arriva in cuffia spavalda, mentre ridacchia fra le interferenze quando lo richiamano ai box per tentare un undercut, anche se non funziona. È piacevole sentirlo così allegro e divertito.

Lei ha sempre avuto l'impressione che fosse un ragazzo troppo serio.

I paesaggi inconfondibili dell'Emilia Romagna si susseguono sullo sfondo di una gara emozionante e combattuta, in cui i sorpassi si tentano dietro ogni curva, perfino in quelle impossibili come la Tosa, e in cui Verstappen dà prova di una qualità che nessuno avrebbe mai pensato di attribuirgli.

La pazienza.

Dopo la sosta Hamilton è di nuovo al comando, troppo veloce per essere raggiunto, mentre Bottas resta più indietro, fa fatica, ha dei problemi. Max lo pressa, è letale come un predatore notturno, lo segue a caccia del più minimo errore, che immancabilmente arriva, alla Rivazza.

Forza. Forza. Forza. Vallo a prendere.

Gli bastano una manciata di secondi per superarlo, poco più avanti, alla variante del Tamburello, e portarsi in seconda posizione. Ci sono voluti cinquanta giri, ma ce l'ha fatta.

Dietro la mascherina, Anita ha dipinto un sorriso smagliante e vittorioso sul volto, un sorriso del tutto gemello a quello di Max, sotto la balaclava e al casco.

Un sorriso che dura poco, perché quando nessuno se lo aspetta, mentre sfila via sul rettilineo, il pilota riattiva il contatto radio con la voce affannosa, confusa, isterica quasi.

Cos'è? Cos'è?

Qualcosa non va. La vettura scivola nella ghiaia, si pianta.

La sua gara è finita, di nuovo troppo presto.

L'ultimo suono che arriva all'orecchio di Anita è un urlo straziato, seguito da un fischio. Poi i rumori la raggiungono come ovattati, scollati dalle immagini che le sfilano rapide davanti agli occhi.

Lo sconcerto le si abbatte contro come un'onda, spazza via tutte le sue certezze e la lascia in balìa del momento. Per quasi un minuto resta perfettamente immobile, mentre Rebecca la scuote, incapace di muovere un passo, di rispondere ad una semplice domanda.

Spielberg. Monza. Il Mugello. Questo.

Ogni volta ci va un po' più vicino, ogni ritiro è più doloroso del precedente.

Niente sembra girare dalla sua, nemmeno quando è paziente, nemmeno quando fa tutto giusto.

"Ani, mi ascolti?" ripete Rebecca, apprensiva, cercando di richiamare la sua attenzione. Anita sbatte le palpebre un paio di volte, girando appena il viso verso di lei, smarrita. "Cosa si fa ora?"

Lei si passa una mano sulla fronte, cercando di mettere in fila le idee.

"So che avevo promesso che non sarebbe successo di nuovo" mormora, dopo un po', aggrottando la fronte. "Ma devo davvero andare da Max, ora."

L'amica fa un cenno d'assenso, le sfiora il braccio con la mano, mima un "vai" con le labbra.

Lei attraversa il motorhome col cuore in gola, diretta all'esterno, dove spera di intercettarlo prima che combini qualcosa di irreparabile, di cui si pentirà.

La prima cosa che si trova davanti, quando l'aria fresca del pomeriggio la investe, è un muro di giornalisti. Sta andando talmente di corsa che ci finisce letteralmente nel mezzo. Quando leggono ufficio media sul suo tesserino, è la fine. Il meglio che riesce a fare è mettere su un falso sorriso, e rispondere alle loro domande.


Quando riesce a liberarsi degli addetti stampa, poco più tardi, Max non è nella sua stanzetta, non è al paddock, non è da nessuna parte, e Anita non sa dove cercarlo.

Entra nel panico quasi subito. Il petto le si alza e si abbassa a ritmo frenetico, sente la terra mancarle sotto i piedi, il cuore scoppiarle come un palloncino troppo teso.

A giudicare dalle facce che la circondano, sono tutti piuttosto preoccupati. Horner la guarda come se si fidasse ciecamente di lei e si aspettasse che tirasse fuori il ragazzo olandese dal cilindro, come in un numero di magia.

La verità è che non ci sono trucchi. Max ha mancato le interviste, si è liberato della sua assistente. Non è in bagno, non è in camerino, non è da Daniel. È sparito davvero.

"Andiamo Christian, non fare tante storie" sbotta Marko, incrociando le braccia al petto con un sorriso viscido stampato sul viso. "Sarà in albergo a smaltire l'incazzatura alla vecchia maniera. Lascialo sbollire. E se non si presenta al briefing gliela faccio passare io la voglia di fare lo stronzo."

I due uomini si scambiano un'occhiata d'intesa che le fa storcere il naso. Parlano di Max come si parlerebbe di un bambino, come se potessero disporne a loro piacimento.

"Io ci vado ora" si sente dire, prima che possa mordersi la lingua.

"Zuccherino, non è una buona idea" le dice Marko, indirizzandole un'occhiata melliflua.

La sua bocca si spalanca per la sorpresa, e deve ricorrere a tutte le sue forze per reprimere il desiderio di rispondergli a tono e rimetterlo al suo posto.

"Con permesso, so cosa fare" dichiara, secca, ma è una bugia.

Ha visto tanti lati di Max, tante piccole sfaccettature che sono riuscite a cambiare per molti aspetti il modo che ha di vederlo. Sa che Max è divertente, e molto intelligente, sa che quando si lascia andare sa essere spontaneo, passionale e divertente. Sa che è in grado di capire al volo le persone, che ha un forte senso di giustizia, che dice tutto quello che pensa. E, soprattutto e senza più dubbi, Anita sa che Max è una brava persona.

Nonostante questo, nonostante la stretta di mano a casa sua, a Milton Keynes, ha sempre paura di vederlo arrabbiato. Quel lato di lui, oscuro e tortuoso, non fallisce mai di preoccuparla. Il modo che ha di perdere il controllo e sfogare la sua furia non è sano, è preoccupante e difficile da gestire.

Anita passa il tragitto dal paddock all'albergo cercando di ripetersi, come un mantra, che andrà tutto bene. Davanti alla porta della sua stanza, però, non sa ancora come farà a parlargli. Quanto sarà incazzato? Quanto potrà avvicinarsi?

Si annuncia con due colpi alla porta, poi tira fuori il duplicato dalla tasca e lo fa scorrere vicino al sensore. Si rende conto solo troppo tardi che era assolutamente impreparata, quando la porta sottile si spalanca sullo scenario più doloroso che lei abbia mai visto.

La camera da letto è distrutta. I soprammobili sono per terra, insieme ai vestiti, al casco e ai guanti. Le lenzuola sono divelte dal letto. All'armadio manca un'anta, le tende sono stracciate e ci sono cocci rotti ovunque. Il sentore di alcol è così forte che deve aver impregnato il pavimento, quando ha distrutto il frigo bar.

Max è nell'occhio del ciclone, in mezzo ad un'ondata di distruzione clamorosa. La testa fra le mani, il corpo scosso dai singhiozzi, che piange disperato, come un animale ferito.

Anita resta congelata davanti alla porta, incapace di muovere un singolo passo. Non ci sono parole per spiegare quello a cui sta assistendo.

Mad Max, il Leone, il terribile Verstappen, è rannicchiato su sé stesso, irriconoscibile.

Nemmeno prova a nascondere il viso, lascia che lei lo guardi, distrutto e annichilito, con le lacrime a rigargli le guance e il naso che cola. Si tira i capelli con forza, ha le nocche abrase.

Lei vacilla. Era pronta a tutto, ma non a questo.

Ci mette pochi secondi a decidere cosa fare. Poi attraversa la stanza, nella penombra, evitando i vetri infranti e si avvicina a lui, mantenendo una distanza di sicurezza. Non osa toccarlo.

Le si spezza il cuore a vederlo così logorato, senza via d'uscita. Non è una cosa da Max. Max non piangerebbe mai così apertamente, non si farebbe mai travolgere così dall'angoscia. Eppure è davanti a lei, che trema.

Anita si china, flettendosi sulle gambe, per arrivare all'altezza dei suoi occhi, ma non riesce ad incrociare il suo sguardo. Si appoggia con le ginocchia sul pavimento, incurante del resto, e prova ad allungare una mano per toccarlo, anche se questo non fa altro che farlo piangere ancora di più.

Non si ritrae, però, non la spinge via. Semplicemente singhiozza, non riesce a guardarla. Così lei gli accarezza la gamba, ancora fasciata nella tuta, con movimenti circolari, prova a calmarlo in ogni modo, ma lui non sembra trovare alcun tipo di conforto in quel contatto.

Piange senza alcun ritegno, come se avesse trattenuto quelle lacrime per tutta la vita, come se fosse arrivato al capolinea e non avesse la minima idea di come tornare a casa. Lei gli circonda le ginocchia con le braccia, gli si avvicina più che può finché non riesce a poggiare la sua fronte contro il petto ansante di Max.

Non parla, Anita, non saprebbe cosa dire.

Sente le lacrime premere per uscire, ed il cuore pesantissimo, ma non cede.

Vuole solo che lui smetta di piangere, perché è un suono dilaniante. Si era mai accorta di quanto dolore portasse addosso? Svegliandosi accanto a lui, litigandoci al telefono, inseguendolo nei suoi giri notturni alla ricerca di pace?

"Shh" continua a sussurrare, girando il volto lievemente di lato, per farlo aderire il più possibile contro il suo torace, per sconfiggere il vuoto siderale con qualche tipo di vicinanza.

Sembra quasi funzionare, perché dopo qualche minuto il pianto si calma, ma lei non si arrischia a muovere neppure un muscolo, temendo di turbarlo.

È allora che Max le dice una cosa che lei non capisce.

"Mi vorrai anche se non sarò il migliore?"

Anita si allontana il tanto che basta per guardarlo in faccia, ma le braccia di lui corrono a circondarla, quasi temendo di sentirla andare via.

"Max, cosa stai dicendo?" bisbiglia, separando appena le labbra. Può sentire il cuore di lui battere veloce contro la sua guancia.

"Rispondimi, ti prego" le dice.

Ti prego.

Max non prega nessuno.

Max chiede, Max prende.

Ti prego.

"Non puoi dire sul serio, Max. Cosa vuoi che mi importi se sei o no il migliore?" dice, con le sopracciglia aggrottate. Vuole davvero capire cosa ci sia che non va, ma è confusa dal fatto che lui le chieda una cosa simile. Così ovvia.

"È un sì?"

"È un sì, certo, non devo pensarci" conferma, annuendo contro il suo petto. "Le persone che ti vogliono, ti vogliono a prescindere da come vada una gara, due, dieci."

Lui tira indietro la testa e resta fermo, nella luce fioca, a guardare il soffitto. Le braccia gli cadono lungo i fianchi, lasciandola scoperta, quasi nuda. Quando le risponde ha la voce che gli trema, si mangia le parole.

"Sapevo che non avresti capito."

Anita si costringe ad allontanarsi da lui quel tanto che basta ad allungare le mani e portarle sul suo viso arrossato. Con i pollici gli accarezza le guance, il velo di barba bionda ispida, la linea tagliente degli zigomi.

"E tu spiegami." Gli dice, con la voce meno ferma di quanto vorrebbe.

Sono mesi che prova a capire cosa ci sia che non va in lui, nel loro rapporto disastrato. Sono mesi che sottostà ai suoi ritmi, ai suoi silenzi, alle sue sbandate improvvise e ai suoi repentini cambi d'umore. Si prendono, si mollano, si avvicinano e si perdono. Sono in perenne disequilibrio, ma non smettono mai di provare a riprendersi.

Questo qualcosa vorrà pur dire.

Max finalmente trova la forza di guardarla. I loro occhi si cercano e si attirano, come magneti. Blu che guarda blu. Trasparenza contro tempesta. Bisogno viscerale di andare oltre i non detti. Di arrivare al cuore.

Max parla.

E dice tutto.

E fa maledettamente male.


You're in the wind, I'm in the water
Nobody's son, nobody's daughter
Watching the chemtrails over the country club


"Sono nato per fare questo. Tutto a casa mia ruotava attorno a questo. Tutti piloti, anche mia madre. Mi hanno calato in una monoposto per la prima volta quando non sapevo ancora camminare. Il figlio di Jos e Sophie? Cosa vuoi che faccia? Ho fatto l'unica cosa possibile. Se c'erano scelte, giuro che non le ho viste.

Giravo l'Europa con papà, non ero mai a casa. Facevo i compiti con il quaderno sulle ginocchia mentre lui mi sistemava il kart. C'era sempre qualcosa da fare, sempre qualche gara da vincere da qualche parte. Mi sentivo il bambino più fortunato sulla Terra, perché non studiavo mai. La scuola non era importante, io mi divertivo un sacco. Troppo, secondo papà. Mi è sempre piaciuto andare veloce." Fa una piccola pausa, sospirando pesantemente, e distoglie un attimo lo sguardo, prima di ricominciare. Anita trattiene il fiato, sente il cuore accelerarle nel petto, mentre Max parla e si libera dal male.

"Quando i miei si sono lasciati è stato naturale per me scegliere mio padre. Era il mio mito. Passavamo tanto tempo insieme, anche prima. Tutto il tempo, quasi." Sorride, tirando su col naso, mentre si asciuga le lacrime dal viso. "Ed era bello, la maggior parte delle volte. Soprattutto quando vincevo, era bellissimo. Mi guardava come se gli avessi portato il dannatissimo sole, come se fosse un privilegio immenso per lui avermi come figlio."

D'improvviso, il tono di voce che usa si abbassa, diventa quasi un sussurro.

"Altre volte era un inferno. Se qualcosa andava storto, anche se non avevo colpe, lui trovava il modo di darmele. Ero una delusione, una nullità. Le botte facevano male, ma il suo silenzio ne faceva di più. Era la sua punizione preferita: mi ignorava, fingeva che nemmeno fossi lì."

La seconda pausa che fa è più lunga. Così lunga che per un attimo Anita pensa che il racconto sia finito lì, ed invece è solo che Max sta cercando di ricordare.

"Una volta mi ha lasciato in una stazione di servizio. Quella volta fu colpa di Charles e vaffanculo, non lo perdonerò mai per questo. Eravamo in Italia, avevo quattordici anni e non sapevo spiegarmi nella vostra lingua. Ho chiesto un telefono e ho chiamato la mia mamma. Jos è tornato indietro solo per quello. Solo perché aveva paura che gli avvocati mi portassero via da lui." Sussurra, e la sua voce è impastata di risentimento, amarezza, nostalgia. Si fa sottile, impalpabile, mentre aggiunge, più a sé stesso che a lei:"Non andava sempre male, te l'ho detto. A volte andava bene. Davvero."

Anita sente le guance umide. Ha iniziato a piangere. Non sa nemmeno perché.

"La carriera è stata veloce, da lì in poi, pressioni da tutte le parti. Il mio primo anno in Formula uno è stato un inferno. Helmut ha chiesto a papà di fare un passo indietro, non ce la facevo più. Per un attimo credo di averlo odiato." Prosegue, prendendo fiato. Ha i pugni stretti sulle ginocchia, ma non sembra arrabbiato.

Triste, piuttosto.

"Quando mi insegnava la mentalità del vincente, papà mi spegneva le sigarette addosso ogni volta che sbagliavo e perdevo qualcosa. Quando ha smesso di accompagnarmi alle gare ho iniziato a farlo da solo. Ogni incidente, una bruciatura. Non importa dove, basta non si veda. Fa male, ma almeno ti dà uno scopo, un motivo per stare attento. Per non sbagliare. Per non perdere, mai. Non vuoi farti male, non vuoi sentire dolore. Ne hai abbastanza. Ne ho abbastanza. Sono stanco. Sono davvero stanco."

Una lacrima gli attraversa la guancia, cattura gli ultimi bagliori di luce prima che la stanza piombi completamente nell'oscurità.

"Sono il più giovane ad aver mai vinto un Gran Premio, non potrò più essere il più giovane campione del mondo. Ho ventitré anni e sono vecchio, sono finito, sono una delusione immensa. Tutto questo, tutti questi anni, tutte queste notti a cosa cazzo sono servite, eh? Io, a cosa servo? Questa è l'unica cosa che ho. Tutto quello che so fare. Se non sono il migliore non ho niente."

Anita gli prende la mano destra, stretta a pugno, e gliela apre con il pollice. Poi se la porta al petto, a sinistra, all'altezza del cuore, spingendola con il suo palmo.

Come aveva fatto lui, una sera di molte settimane prima.

Anche se adesso è diverso, è tutto diverso.

Anita pensa che le parole siano importanti. Le ha sempre usate come arma. Davanti ad una confessione del genere, però, non ci sono parole che tengano. Non c'è niente da dire.

Una persona istruita conosce in media fino a trentamila parole. A lei ne servono solo due per cambiare il mondo di Max.

"Hai me."


//Spazio autrice (eccomi)

Finalmente, eccoci. Il capitolo che stavo aspettando dall'inizio di questa storia, fra pochi istanti, sarà pubblicato.  Questa volta davvero sarò di poche parole. Le lascio tutte a voi.

Con questo capitolo, vi sto lasciando ufficialmente un pezzetto del mio cuore, per sempre. Non vedo l'ora di leggervi e sapere cosa ne pensate.

I temi trattati sono molto forti, spero di averlo fatto nel modo giusto rispetto al contesto. Ci abbiamo messo un po' ad arrivare fin qui, ma eccoci. Eccovi Mad Max.

Un abbraccio e a prestissimo,

Vostra sempre, T.


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