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Il ragazzo appoggiato al muro con la schiena e con moltissima rassegnazione in volto si illuminò in un sorriso quando vide Akira girare l'angolo tirando fuori un grande mazzo di chiavi sonanti dalla tasca del giubbotto grigio.
«Non. Una. Parola.» sibilò la ragazza tra i denti stretti, tentando con quanta più velocità possibile di aprire la porta che l'avrebbe portata nel retro del negozio.
«Credo che la mia espressione dica tutto, capo» la prese in giro lui, dandole una piccola botta in testa per poi sorpassarla ed entrare in negozio prima di lei.
Akira sbuffò per togliersi un ciuffo di capelli scuri dalla faccia, fissando la nuca del biondo come se avesse potuto incenerirlo all'istante.
Maximilian era, per la sfortuna di Akira, un'aitante ragazzo di vent'anni che aveva fatto della propria missione di vita quello di rendere quella della ragazza un inferno in terra. Abitava non lontano da casa sua, ed era figlio di amici di famiglia. Era ovvio a tutti che prima o poi il padre di Akira lo avrebbe assunto come commesso, così non si era preso neanche la briga di andare al College. Di questo però Akira non poteva fargliene una colpa, visto che del resto anche lei aveva fatto il suo stesso ragionamento. Di studiare non ne aveva più voglia, e il negozio era il posto che preferiva al mondo. Sarebbe stato un sogno poterci passare il resto della vita.
Il biondo era rispettoso col padre tanto quanto poco lo era con la figlia. Con i loro tre anni di differenza Max si divertiva a prenderla in giro e metterla in difficoltà, e nel tempo quella loro discordia era maturata in qualcosa che nessuno dei due sapeva definire bene. Forse qualcosa dei quali i genitori di entrambi sarebbero stati molto felici al riguardo. Per suo conto, Akira non vedeva Max che come un insopportabile collaboratore e un fratello maggiore, e tanto le bastava.
Il negozio era ancora buio, e Akira percorse alla cieca quasi cinque metri prima che Max raggiungesse gli interruttori della luce. Accesi quelli, tutta la magia si rivelò loro. Alla ragazza mancava tutte le volte il fiato, anche se conosceva il posto a memoria. Il retro del negozio non era che un magazzino come tanti altri, ma era il suo magazzino, il suo studio. L'angolo sulla destra era arredato con una scrivania, boccette e ampolle varie, tre bilance e tanti strumenti di ferro non meglio identificati. Negli scaffali tutto intorno erano disposte scatole piene di mercanzia o di fuochi d'artificio da Akira creati e mai testati. Ovviamente non erano vendibili al pubblico e mai lo sarebbero stati. Nonostante la maggior parte dei fuochi d'artificio veniva ormai costruita a livello industriale, Akira riusciva a uscirsene sempre con qualche chicca che attirava l'attenzione del pubblico, ed evitava che il piccolo negozio finisse al collasso.
Purtroppo, in quelle settimane di assenza del padre, Akira non aveva tempo di stare nel retrobottega, in quanto doveva occuparsi della cassa e di rispondere alle telefonate. Nel mentre, Maximilian aveva il compito di intrattenere i clienti indecisi e aiutare loro a scegliere i prodotti più costosi. Tra i due, era il ragazzo quello con più fascino, e, ad Akira costava molto ammetterlo, assolveva i suoi compiti alla perfezione.
«Allora, tuo padre quando torna?» chiese Max, togliendosi la giacca e indossando il grembiule a macchie colorate con il logo del negozio. Aveva i capelli arruffati, come se non se li fosse pettinati prima di uscire di casa, e si soffocò uno sbadiglio con una mano grande come l'intera faccia di Akira.
«Sei già stanco di avermi come capo?» lo rimbeccò lei, togliendosi la sciarpa. La tirò con un po' più di decisione, ma quasi rimase strozzata. Evidentemente le era rimasta incastrata nel cappuccio del cappotto. Soffocò un colpo di tosse, e prese a girare in tondo nel tentativo di trovare l'angolazione giusta per riuscire a scastrarsi, un po' come un cane che insegue la propria coda. Max si mise a ridere, la raggiunse con due falcate, si mise dietro di lei e con una dolcezza che Akira non pensava avesse le tolse la sciarpa.
«Sono stanco di farti da balia» le sussurrò, facendo un salto indietro per evitare un pugno che stava per partire. Le fece un occhiolino, poi sorpassò un arco che dava verso la parte più grande del negozio, per aprire la porta alla già nutrita clientela. Mentre la ragazza si stava legando i capelli in una coda lo sentì urlare: «Benvenuti gentili signori! Benvenuti nel posto dove troverete un senso alla vostra esistenza!». Calcò molto la parola "esistenza", e Akira lo sapeva che era una frecciatina nei suoi confronti. Infatti, nonostante fosse lei quella dalle origini giapponesi, era stato Max il primo a scoprire che "Ikigai" voleva dire "una ragione per cui vivere". Forse per i suoi avi era solo un termine di buon auspicio, ma Akira in quel posto aveva davvero trovato la ragione per cui vivere: i fuochi d'artificio.
Le ore passarono velocemente, il negozio che si riempiva e svuotava continuamente di persone. Molto divertente per Akira era sempre stato guardare i clienti varcare la soglia e indovinare cosa avrebbero comprato. C'era gente che aveva proprio la faccia da: "Costume scadente da Hulk" per far contento il figlio, o chi al contrario veniva direttamente al bancone per chiedere dei fuochi d'artificio. Era da qualche anno ormai che il padre di Akira lasciava questo campo interamente a lei, ed era lei che consigliava ai clienti quale tipo di fuoco comprare e perché. Il suo istinto le indicava quale era il tipo adatto per ciascuno, come un librario farebbe per consigliare il libro giusto alla persona giusta.
Erano circa le cinque quando una coppia entrò dalla porta d'ingresso, con un ragazzo al seguito che doveva essere il figlio, vista la spigliata somiglianza.
La donna era magra, bionda e col volto cavallino. Indossava una lunga pelliccia che le arrivava sotto le ginocchia, e al braccio le pendeva una piccola borsetta di pelle molto costosa. I capelli erano corti ma molto gonfi e boccolosi. Al contrario il marito era molto grasso e senza collo. I capelli erano di un biondo tendente al grigio. Si guardava in giro con un'espressione a metà tra lo spaurito e l'indignato, e ad Akira stette subito antipatico. Quello si stava permettendo di giudicare il suo negozio. Il figlio era tutto e per tutto uguale al padre. Così grasso che quasi non passava dalla porta, ma anche dalla corporatura possente. Era biondo come il padre e, per quel che Akira riusciva a scorgere, aveva gli stessi occhi acquitrinosi della madre. Indossava dei jeans a vita un po' troppo bassa, e un cappello con visiera di una squadra di Rugby. Tutto sommato, assomigliava un po' ad un maiale.
Il padre cercò con lo sguardo un commesso, ma, dopo aver constatato che l'unico esistente fosse occupato con un paio di ragazzini, si rassegnò ad avvicinarsi alla cassa, da quella ragazza giapponese che non doveva avere più di dieci anni di età.
«Salve!» li salutò cordialmente lei, che di anni ne aveva ben diciassette, con un sorriso finto che suo padre le aveva insegnato a fare. Non ci riuscì molto bene, non era mai stata brava a nascondere i propri sentimenti.
L'uomo fece un mezzo sorriso che valeva da saluto, e appoggiò i gomiti grassi e pesanti sul bancone. La sua presenza discutibile costrinse Akira ad un passo indietro.
«Senti, mio figlio-» indicò il ragazzo biondo che aspettava dietro di lui come una statuina e adocchiava la boccia di caramelle presente sul bancone- «voleva festeggiare Capodanno con dei fuochi d'artificio, e mi hanno detto che qui ne vendete di molto buoni.» Nonostante il fatto che le avesse dato del tu, cosa a cui Akira non dava peso se non quando era a lavoro, la ragazza si rallegrò della piega che stava prendendo la conversazione. Intanto si stava parlando di fuochi d'artificio, e poi erano stati etichettati come "molto buoni". Per lei era un grandissimo risultato.
«Sì, ne abbiamo diverse tipologie-» Akira tirò fuori una specie di lista da uno scaffale dietro il bancone, e la porse al signore in modo che la potesse leggere- «i livelli vanno dall'uno, che sono quelli più piccoli e adatti ai bambini, al quattro, ma...»
«A noi va bene un numero quattro.» Il signore annuì, spingendole indietro il foglio in malo modo. «Quanto me ne vengono a costare una decina circa?». Akira spalancò gli occhi, così tanti fuochi di livello quattro sarebbero costati una follia. Ma a quanto pare lui era uno che di soldi ne aveva, e probabilmente se ne intendeva anche.
«Per prima cosa mi serve la licenza di porto d'armi» comunicò lei, tranquillamente.
«La licenza di cosa?!» esclamò lui. La sua voce raggiunse i decibell di un tuono.
«Il porto d'armi. Non posso vendere un livello 3 o 4 senza un porto d'armi» spiegò lei, picchiettando contro il foglio per indicare che c'era scritto a chiare lettere. Il figlio si sporse da sopra la spalla del padre, e socchiuse gli occhi per leggere lentamente le parole. Akira soffocò un sorriso, quando si accorse che stava muovendo anche le labbra.
«Io non ho un porto d'armi» borbottò il signore, per poi tirare fuori dalla tasca il portafoglio e controllarci dentro come se si aspettasse di vederselo saltar fuori da un momento all'altro.
«Allora posso consigliarvi dei livelli due molto...»
«IO VOGLIO IL QUATTRO!» esclamò il ragazzo, dando una spinta al padre talmente violenta da farlo quasi finire sdraiato sul bancone. La signora lo circondò con un braccio, per poi accarezzargli piano piano i capelli.
«Non ti preoccupare Diddino,» sussurrò lei, «andiamo fuori, sono sicura che papà sistemerà tutto». Lo trascinò fuori tenendoselo stretto al corpo, ma "Diddino", fece in tempo a far rovesciare una scatola di bolle di sapone prima di uscire dalla porta. Maximilian, che dal momento dell'urlo aveva iniziato a seguire la conversazione che stava avvenendo al bancone, si affrettò ad avvicinarsi al bancone e chiedere quale fosse il problema, non prima di aver lanciato una lunga occhiataccia al ragazzo/maiale.
«E' tutto a posto,» rispose Akira, ripresasi dallo spavento, «il signore non è solamente al corrente delle regole per l'acquisizione dei fuochi d'artificio standard promulgate dalla Comunità Europea» continuò, cercando di essere il più professionale possibile. Sapeva che quello era l'unico tono da poter usare con gente che ascoltava solamente le autorità.
«Non è per niente tutto a posto» continuò il signore, col viso più rosso di un cocomero. «Voglio parlare con il vostro capo».
«Ce l'ha davanti» rispose Akira, con un tono di voce che avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene di un morto. Non sopportava la gente che minava la sua autorità. A stento permetteva a Max di prendersi gioco di lei. Di certo non si sarebbe lasciata calpestare da qualcuno che neanche la conosceva. Il signore strinse i denti.
«Incredibile! Lasciare la gestione del negozio ad una bambina! Questo è proprio un mondo di matti.» Scosse la testa, allontanandosi dal bancone. «Sono venuto fin dal Surrey per questi maledetti fuochi! Giuro che vi farò chiudere!». Uscì dalla porta d'ingresso come un uragano, non dopo aver rovesciato di nuovo quella scatola di bolle di sapone che Max era andato a sistemare pochi secondi prima.
«Arrivederci e grazie per essere venuti all'Ikai Shop!» gli andò dietro Max, per poi chiudere la porta d'ingresso e abbandonarvisi contro. Allo stesso modo, Akira si accasciò sul bancone, approfittando di un momento in cui non c'erano clienti. «Sei stata brava piccolina,» sussurrò Max avvicinandosi, «quasi quasi ti meriti una chiusura anticipata». Akira si concesse una lunga risata per alleviare la tensione.
Akira stava per togliersi il grembiule e dichiarare conclusa quella strana giornata, quando il campanellino all'angolo della porta avvertì l'entrata di un possibile cliente. La ragazza alzò gli occhi verso i nuovi arrivati, e aprì la bocca per spiegare loro che l'orario di apertura era terminato e sarebbe stato meglio tornare il giorno seguente. Poi però la bocca le rimase aperta senza lasciar fuoriuscire nessun suono.
Davanti a lei si erano palesati due ragazzi dalla corporatura allungata. Avevano i capelli del colore del sole al tramonto, e una spruzzata di lentiggini sul naso e sugli zigomi. Avevano lo stesso sorriso particolare, con un angolo della bocca più alzato dell'altro. Dovevano avere tra i diciotto e i vent'anni. Ad Akira non servì una seconda occhiata per rendersi conto che fossero gemelli.
«Ciao!» esclamò uno, con più energia di quanto sarebbe servita.
«Volevamo avere informazioni-» continuò l'altro.
«-sui fuochi d'artificio» finirono insieme.
Akira d'un tratto non si trovò molto in disaccordo col signore che poco tempo prima voleva comprare un livello 4 senza porto d'armi. Quello era proprio un mondo di matti.
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