2. There's No Home For You Here [Non C'è Casa Per Te Qui]
"There's no home for you here girl, go away. There's no home for you here."
There's No Home for You Here - The White Stripes
[Aria Resort - 3730 S Las Vegas Blvd - Las Vegas, NV ]
(PST), UTC -8)
Inquietante, orribile, scorretto, devastante... - illimitata la lista di qualifiche negative - che, in tanti metri quadrati disponibili, lui fosse proprio lì, a pochi passi dall'ingresso, tra l'anticamera e il soggiorno, come un maggiordomo, un facchino in attesa della mancia, quasi un paparazzo affamato di indiscrezioni.
«Victor!» tuonai, senza mollare lo sguardo dall'ospite indesiderato. Il mio braccio destro si tese, la mano legata a quella di Tyler, e avevo come l'impressione di impugnare il manico di un trolley con la ruota incastrata in una grata. Mi voltai e scoprii il mio accompagnatore schifato: era confortante; anche il suo sguardo convergeva sul meteorite, e sembrava stesse già stimandone i danni provocati dalla caduta.
Il mio migliore amico si mise prontamente tra me e il mio prossimo - primo - reato penale. «A mia discolpa, chiarisco subito che non ne ero informato» vomitò in tutta fretta, aprendo le mani all'altezza delle spalle. «Se lo avessi saputo, ti avrei avvisata. Ed è quello che ho fatto quando questa seccatura si è palesata alla mia porta, vale a dire meno di un'ora fa.» Abbassò le mani e indurì l'espressione. «Il rapporto che hai ultimamente con il cellulare è a dir poco luttuoso.»
Lo guardai brevemente, cercando di far scemare l'incazzatura nei suoi confronti: non se la meritava. Quindi concentrai la rabbia esclusivamente sulla seccatura, come l'aveva definita lui, facendo appello a tutto il mio autocontrollo per evitare disastri o cazzate irreparabili. Spinsi Victor di lato.
«Che ci fai qui?» domandai, diretta. Non era facile reggere la stanchezza, un Tyler greve come una scultura di bronzo pieno, le preoccupazioni e... le colpe.
Steven, barba lunga, occhiaie in stile panda, maglietta bianca e jeans, mi fissava con teatrale malinconia, che mutò in odio puro quando realizzò che con me c'era anche Tyler e che non era uno stupido ologramma. «Mi ha mandato un messaggio Jamie» rispose, uniforme. «Più di uno, a dire il vero. Sono partito appena ho potuto.»
Involontariamente, lasciai andare un po' di tensione. Quella concretezza non mi piaceva, non mi piaceva per niente: era assurda, pericolosa e... sbagliata. Ma ormai era troppo tardi per evitarla, c'ero dentro fino al collo, perciò tanto valeva prenderne atto e affrontarla.
Feci una panoramica della Villa. La luce era insopportabile, accecante e cadeva ovunque sull'arredamento moderno, molto più fitto di quanto ricordassi.
«Anch'io ti ho chiamato per dirtelo, ma non hai risposto» insisté Steven.
«Potevi mandarmi un messaggio.»
«Così lo avresti ignorato come hai fatto con la e-mail che ti ho spedito ieri?»
Bastardo...
«Ho paura anche solo a immaginare il contenuto angoscioso della spinosa missiva» chiosò Victor.
«Victor!»
«Hai ragione, scusa: investigazione sconveniente» convenne, rammaricato. Si era lasciato prendere dall'impulso di infierire su Steven - come al solito - e neanche poteva immaginare quanto fosse stata sconveniente la sua battuta, ma io ne ebbi una precisa idea quando sentii la mano di Tyler allentarsi nella mia.
Avevo omesso l'esistenza di quella e-mail all'uomo che amavo. L'avevo fatto per non rovinare l'atmosfera della nostra vacanza, per far sì che nessun dubbio si insinuasse in lui.
«Lyla, ti prego» disse Steven con un tono nauseante, provando ad avvicinarsi.
«Rimani dove sei» lo freddai. «Togliti quell'espressione affettuosa, complice e falsa dalla faccia: non mi incanti. Prega di aver detto la verità o stavolta il sarcasmo di Victor sarà l'ultimo dei tuoi problemi.» Sapevo bene come parlargli. Era automatico, conosciuto e sicuro, un po' come guidare. Le sue labbra si serrarono in una linea dura e, fortunatamente, non azzardò un altro passo. «Dov'è Jamie? Voglio andare da lui!» pretesi, girando la testa a destra e a sinistra. Il resto poteva aspettare, dovevo vedere mio figlio e dovevo vederlo immediatamente.
Strattonai Tyler perché mi seguisse nel corridoio in cui avevo notato più porte, ma lui non mi assecondò, era bloccato, e Victor ne approfittò per sbarrarmi di nuovo la strada.
«Jamie si è addormentato un paio d'ore fa» mi comunicò, posandomi le mani sulle spalle. «Era sfinito, ha dormito pochissimo negli ultimi giorni. Sono rimasto con lui tutto il tempo, battito e respiro sono regolari, non ha febbre e per il momento nessun altro sintomo. Ha provato ad aspettarti...», rifilò un'occhiataccia a Steven, «... aspettarvi, a quanto pare, ma non ce l'ha fatta.» Si mise di lato e mi indicò il corridoio. «La porta in fondo è la sua stanza. L'ho controllato pochi minuti prima che arrivaste e dorme tranquillo.»
Le sue parole furono una coperta calda, caldissima, eppure sentivo la necessità di verificare personalmente le condizioni del mio bambino. Sciolsi la presa dalla mano di Tyler e aggirai Victor. Lasciai cadere la borsetta su un pouf viola e, in punta di piedi, m'inoltrai nella penombra del corridoio cercando di fare il meno rumore possibile. Il tragitto era lungo e snervante, ogni passo era una stilettata al cuore vestita di specifiche certezze: ero una madre del cazzo - o di merda -, una tossicomane munita di depressione, euforia e confusione in egual misura; una stupida sognatrice, deliberatamente traditrice, un'inesperta. L'ultima deformazione era di arduo inquadramento. Inesperienza in cosa? Con chi? In che formato? Qualunque fosse la risposta, l'avevo pensato: doveva per forza essere vero.
Giunta alla porta, trattenni il respiro ma fu tutto inutile. Il mio cuore bastonava la cassa toracica ed era talmente rombante che avrebbe potuto svegliare un'intero isolato. Poggiai la mano sul legno grigio e spinsi con cautela il battente. Il buio era un grande intruso. Ciononostante, riuscii a scorgere Jamie, sotto le coperte, rannicchiato in posizione fetale al centro del letto. La sua posizione era ottima, dormiva meglio messo in quel modo, e per fortuna era girato verso la porta così potei constatare l'effettiva normalità del suo sonno. Desideravo tantissimo entrare e toccarlo, ma costrinsi me stessa a trovare la forza di farmi bastare quel che vedevo.
Jamie era vivo, era lì, ed io ero con lui. L'impotenza sgomitò di nuovo nel mio animo, combinandosi con l'odiosa convinzione che l'attesa del suo risveglio mi avrebbe dato il tempo d'imbastire una strategia. Pensare a un programma d'azione non era il più nobile degli intenti, ma ero pur sempre un essere umano, perseverante in un elenco infinito di colpe e mancanze che non si sarebbero attenuate nemmeno in mille anni.
***
Quando avevo pensato che fosse inconcepibile coprire quella distanza per scendere al casinò o fare un tuffo in piscina, non avevo valutato che un hotel di quel tipo, bar, piscina e giochi d'azzardo potesse averli direttamente in camera. Furono le mie prime considerazioni. Prima di realizzare di non essere solo, prima di chiedermi come stesse il Piccolo Lord, prima ancora di rimproverare a me stesso la scelta di aver seguito Lyla fino a lì. Non avevo mai visto niente del genere, nemmeno in tv, nemmeno per sbaglio su internet o in una di quelle riviste del cazzo che, di tanto in tanto, Melissa portava al Centro.
Lo spazio era infinito, rompeva le vetrate, confluiva nella piscina a sfioro che intravedevo sulla terrazza; l'arredamento multicolore si susseguiva tra divani, tavoli, schermi, angoli bar, biliardo, slot, tavoli per il Blackjack e stronzate analoghe... il tutto trafitto da una grossa scala elicoidale e dorata che portava su, chissà dove a un secondo piano di regalità. Quel caos mi intontiva e la situazione non mi aiutava a finanziare la spontaneità.
E così, era stata l'e-mail di quel bastardo a causare lo sconvolgimento di Lyla. E così, erano state le parole di Steven Hughes a fare da apripista alla notte più bella della mia vita.
Ero incazzato, deluso... confuso, eppure non potevo evitare di chiedermi cosa sarebbe successo se lei non avesse ricevuto quella lettera, se non avesse letto i sentimenti, le suppliche - e senz'altro le promesse - di quel pallone gonfiato. Sarebbe arrivata alle medesime conclusioni? Avrebbe vissuto così acutamente i momenti con me? Avrebbe mai capito di... amarmi, senza l'ausilio di quel duro confronto? Non l'avrei mai saputo. Quella e-mail era stata spedita, lei l'aveva letta, aveva avuto le sue strane reazioni e aveva tagliato il suo traguardo. Un traguardo a cui l'avevo attesa con la mia solita diffidenza, riscuotendo in cambio una gioia e un calore che nemmeno sospettavo esistessero.
«Si accomodi, Signor Dixon» disse Caster, aprendo il braccio sul grande salone. «Sarà affamato. Conoscendo Lyla, avrà sicuramente dimenticato di nutrirla in volo. Stavo per ordinare la colazione: e' giusto, è l'ora e... sarebbe un inizio» concluse, deciso.
Io non vedevo l'ora di vedere la fine, invece. La prospettiva di pasteggiare con quello stronzo di Hughes, come se fosse una cosa normale, era ridicola e allettante quanto calpestare a piedi nudi gli escrementi di un toro affetto da diarrea cronica.
«Sono a posto così» affermai, raddrizzando le spalle e infilandomi le mani in tasca. Mi sforzavo di guardare solo Caster ma la maledetta visione periferica inglobava sempre anche Hughes. Forse dipendeva dalla sua vicinanza, o forse era il demone dentro di me che scalpitava affinché mi decidessi a massacrarlo di botte una volta per tutte. «Grazie, comunque» allegai in imbarazzo.
Il padrone di casa non sostenne la mia presa di posizione. «Non c'è motivo di rifiutare almeno un caffè. Io lo prendo e le assicuro che c'è abbastanza spazio per tutti. Sono un esperto nel ventilare aree asfissianti» disse, ironico.
«Non parlare come se io non ci fossi, Caster. Sono qui» puntualizzò, Hughes.
«Impossibile non notarlo» rispose Caster, sbuffando sonoramente. «Posso padroneggiare la contingenza, mi creda.» I suoi grandi occhi indaco erano pieni di garanzia. «L'attesa potrebbe essere lunga, non ha senso che lei rimanga in piedi. Ormai è qui, quindi è meglio se ci occupiamo del vero problema e lasciamo perdere le divagazioni inutili.»
«Magari potresti suggerire al Signor Dixon di guadagnare uno dei tanti bar dell'Hotel - tuo ospite, naturalmente - così da consentirci di discutere del vero problema in privato. In famiglia.» Per tutta la durata della sua proposta, Hughes mi conficcò addosso un cipiglio malvagio, ed io sentivo sempre più l'esigenza di spaccargli la faccia, i denti, qualsiasi cosa riuscisse a tenerlo zitto e impegnato al cesso - o all'ospedale - per almeno ventiquattro ore.
Non avevo messo in preventivo che potesse esserci anche lui. Jamie detestava suo padre, non mi sarei mai aspettato che desiderasse averlo intorno in un momento come quello. Io non c'entravo un cazzo, ma non accettavo di prendere ordini da lui, nemmeno per interposta persona.
«Perché non suggerisci a te stesso di chiudere il forno, Hughes, gli hai dato anche troppa aria da quando sei qui, nella mia suite...»
«Ma se sono qui solamente da un'ora...» si difese lo stronzo.
«Sì, ma sembrano quattro!» controbatté Caster.
«Ti ricordo che in questa stanza c'è la mia famiglia, e fino a prova contraria sono stato invitato da mio figlio! Parla come e quanto ti pare, ho tutti i diritti di stare qui.»
«"Mio, mio, mio"... Dovrebbero multare l'uso sconsiderato del pronome possessivo. Sei stancante, noioso e ripetitivo, Hughes, e il tuo repertorio è obsoleto come la mia scheda video del 1996. Guarda caso, per vedere la tua famiglia sei sempre costretto a entrare in sedi di mia proprietà. Fossi in te, un paio di domande me le farei.»
«Jamie è mio figlio!»
«Solo perché due o tre dei tuoi geni migliori sono andati a segno, non significa che diciotto anni di comprovato menefreghismo totale possano essere cancellati.»
«Sei un ipocrita, ho sempre contribuito!»
«Sette secondi di eiaculazione non li definirei un contributo. Direi piuttosto uno... scarico, non so se mi spiego.» Caster scagliò un diretto verbale degno di nota. Molto... a sud. Talmente a sud che il volto di Darth Vader si colorò di amaranto. «E per quanto riguarda il legittimo mantenimento, sono solo spiccioli se paragonati a ciò che sborsiamo Lyla ed io, annualmente, per tuo figlio.»
Gesù, ma dov'ero finito? Transitavo lo sguardo dall'uno all'altro ed era dannatamente critico tenere il passo delle singole battute. Gesticolavano e si lanciavano onde energetiche fatte di parole e versi striduli per enfatizzare le reciproche opinioni, e si vedeva lontano un miglio che avrebbero voluto darsele di santa ragione.
Caster è più bravo, però...
Cazzo, sì... la sua dialettica sarcastica era quasi nucleare.
Hughes si batté il pugno sul fianco. «Lui non dovrebbe essere qui, non ne ha alcun diritto.»
«Ma ti conviene davvero parlare di diritti e doveri con me? Proprio con me?» Caster si puntò l'indice al petto e arcuò un sopracciglio. «Vuoi che ti metta sotto il naso torri e torri di faldoni imbottiti dalle tue violazioni in entrambi gli ambiti?»
«Aaah... perché perdo ancora tempo a discuterci con te?»
«E' reciproco!»
Hughes imprecò, voltò le spalle e se ne andò in un angolo del salotto, buttandosi rozzamente su una poltrona verde e accendendosi una sigaretta. Evitava di guardare sia me che Caster, preferendo una neutrale contemplazione del paesaggio fuori la vetrata, la gamba accavallata al bracciolo e la fronte corrugata.
Ma che accidenti aveva trovato, Lyla, in quel pezzo di merda?
E' un bel ragazzo...
Solo quel particolare si salvava in lui: la bellezza. Per il resto, vedevo solo un moccioso ricco, pieno di individuali certezze e vuoto di qualsivoglia collettivo sentimentalismo.
Avrà doti... nascoste.
Invisibili, altro che nascoste.
Be', "qualcuno" le avrà trovate, viste, provate...
'Fanculo! Non volevo neanche pensarci a lei e lui che...
«Vede?» mi richiamò Caster. «È andato a cuccia. Ha la rabbia, ma io ho un Benelli Vinci che funziona a meraviglia.» Mi diede di gomito. «Rendo l'idea?»
La rendeva. Quel fucile da caccia era brutto come poche altre cose avevo visto nella mia vita, ma era una moderna, efficientissima e autentica "macchina da guerra": funzionalità eccellente, semplicità totale e rinculo ridotto della metà, ergonomia superlativa e canne dignitose con rendimento balistico mediamente elevato. Il padre di Melissa lo avrebbe adorato come un'icona religiosa!
«Guarda che ti ho sentito, Caster!»
«Guarda che era mia intenzione tu sentissi, Hughes!»
Sei in una tana di adolescenti...
Già, mi resi conto di non averli mai visti così giovani e, allo stesso tempo, provati come due sessantenni dopo quattro sedute consecutive di chemio. Hughes, poi, aveva proprio un aspetto di merda: barba lunga, occhiaie, capelli spettinati e gonfi. Sembravano due ragazzini reduci da un rave, più che due pilastri dell'economia americana abituati a far roteare in aria milioni come fossero le clave di un giocoliere.
«Okay» acconsentii a un Caster ancora in attesa di un mio riscontro.
Sorrise. «Perfetto! Faccia pure come a casa sua.»
«Perché, non lo fa già abbastanza da una parte all'altra del mondo?»
«Steven!» urlò Caster «Chiudi. Quel. Forno» scandì, inviperito. «La mia stanza. I miei soldi. La mia disponibilità. La mia decisione. E' più chiaro, ora?»
Darth Vader continuò a fumare, come se niente fosse. «Lapalissiano,Victor. E' sempre tutto tuo, non perdi mai occasione per marcarlo. D'altronde, appropriarti delle cose che non ti appartengono è la tua specialità: Lyla, Jamie, quel rifiuto di Austin e adesso Dixon... Dio non voglia che tu vada contro gli interessi della tua migliore amica, che tu non abbia tutto sotto controllo, ogni accolito sull'attenti.»
Ne avevo abbastanza. «Ehi, ragazzino!» lo ammonii, avanzando verso l'angolo di soggiorno in cui si era rifugiato.
«Signor, Dixon!» provò a fermarmi Caster, tallonandomi come uno sbirro.
I miei stinchi cozzarono contro il bordo del tavolino da caffè, a meno di un metro dalla poltrona dove alloggiava il culo dello stronzetto.
«No. No e no!» proclamò Caster, balzando sul tavolino.
«Mio dio quanto sei caduto in basso, Victor» sciorinò Hughes anche se non riuscivo a vederlo.
Col cavolo che era basso! Appollaiato lì sopra, mi superava di almeno trenta centimetri e ciò mi costrinse a tirare indietro la testa per guardarlo negli occhi.
«Tu fatti i cazzi tuoi!» abbaiò l'equilibrista in risposta a Darth Vader. «Mi dispiace, ma temo di dover uccidere la sua esigenza - peraltro, pienamente condivisa - di dare a questo coglione ciò che si merita» disse, ansante, sporgendosi verso di me. Sporgendosi troppo. Posò una mano sulla mia spalla e avvicinò le labbra al mio orecchio. «Non faccia cazzate, Dixon, mi dia retta» sussurrò. «Non dico che non potrebbe stenderlo - ci riuscirebbe persino un gatto - ma... non può permetterselo.» Mi diede un colpetto sul braccio e scese dal tavolino, restituendomi la visuale su Hughes che ghignava soddisfatto.
Avevo inteso il suo monito, non mi ero offeso. In ogni caso, non riuscii a stare zitto. «Se ha qualcosa da dirmi, può dirla direttamente a me.»
Caster sospirò, portandosi le mani nei capelli.
«Le ho già detto quello che dovevo dirle, Dixon» sputò, incattivito «Al compleanno di mio figlio, quando l'ho sorpresa con Lyla. Le ho chiesto di stare lontano da lei, da Jamie, di sparire e affondare gli artigli in prede più alla sua portata. Pensavo che avesse afferrato il messaggio, dato che mi ha assicurato di non essere una minaccia... che non li voleva. Dunque, ha mentito?» Spense la sigaretta in un posacenere di cristallo a forma di cigno. «La facevo più furbo, soprattutto dopo che le ho chiarito che conosco la sua storia, il suo passato.» Con il mento, accennò a Caster. «Ho nemici storici, stabili, che mi danno raccapriccianti grattacapi, ma che ormai ho imparato a tollerare. Non me ne servono altri. Non si aggiunga al catalogo. Come le ha saggiamente consigliato il mio nemico, non se lo può permettere. E... ricordi: non c'è casa per lei, qui.»
«Sei spaventosamente coglione» diagnosticò Caster
Ancora faticavo a digerire la solidarietà di Victor Caster. In fondo, non dovevo essere una presenza gradita nemmeno per lui. La situazione non era alla mia portata, in effetti, non era di mia competenza. Hughes mi aveva chiesto tutte quelle cose, ed io che gli avevo dato rassicurazioni precise non vi avevo mantenuto fede. Non avevo paura di lui, delle sue minacce, della distruzione che mi aveva prospettato Caster; avevo paura per Lyla, per Jamie, per tutti i casini che avrebbe portato il mio coinvolgimento in quella tragedia non mia. Non sapevo più cosa fare e, mentre mi adoperavo per trovare una soluzione, un richiamo lontano squarciò il silenzio e ribaltò l'intera situazione.
«Papà!» strillò una voce che conoscevo fin troppo bene.
Hughes scattò in piedi e, senza indugio, schizzò verso il corridoio in cui era sparita Lyla pochi minuti prima.
«Di sopra ci sono un paio di bagni - forse tre, non ne ho idea - che non abbiamo mai usato. Se vuole può andare a rinfrescarsi» disse Caster con un sorriso tirato, estraendo il cellulare dalla tasca dei jeans. «Chiedo a Garret di trasferire i suoi bagagli sul mio aereo.» Lo fissai, allarmato, e lui comprese al volo il mio disorientamento. «Non serve scommettere se, o meno, quei tre torneranno a casa insieme: lo faranno. Le darò io un passaggio.» Premette il pollice sullo schermo del cellulare. «Mi scusi un momento» disse, prima di allontanarsi.
***
Giuro che non avevo fatto niente per svegliarlo: ero rimasta silenziosa, attenta e in apnea fuori dalla porta della camera da letto. In qualche modo, però, Jamie aveva fiutato la mia presenza, come accadeva spesso anche a casa nostra. Mi beccava ogni volta, fin da quando era piccolissimo, apriva gli occhi nel dormiveglia e sorrideva, solo per farmi capire che sapeva che ero lì.
«Non posso crederci che sia qui» mormorò un attimo dopo aver urlato "papà". Non riusciva ad alzarsi ma l'energia per invocarlo non gli era mancata. Era molto pallido, le cornee arrossate e le labbra secche.
Mi sistemai sul lato sinistro del letto e gli circondai le spalle con il braccio. «Stento a crederlo anch'io» sibilai, scostando una ciocca di capelli biondi dalla sua fronte. Sì, aveva del surreale. Trovarmelo davanti era stato scioccante, tanto quanto apprendere che Jamie lo aveva chiamato. «Hai sete? Te la senti di bere un po' d'acqua?»
Scosse la testa. «Dopo» disse, flebile. Non era arduo intuire quali fossero le sue priorità in quel momento.
Nella stanza lugubre e sconosciuta, il mio olfatto allenato riconobbe scie diverse: erba, tabacco, il profumo biscottato della cocaina bruciata e... sesso. Quel miscuglio ballava nell'aria, instancabile, come se non se ne volesse più andare, come se avesse qualcosa di speciale e macabro da raccontare a me e a tutti coloro che avevano il talento per identificarlo; danzava nella mia testa, con uguale tenacia, forzando la mia avversione alle informazioni, spronandomi a dedurre quanto e come tale miscuglio avesse influito nella disfatta del mio bambino. Dubitavo che gli ultimi tre giorni - qualunque danno avessero provocato - fossero i soli responsabili del suo crollo. Sapevo che i mali di Jamie avevano origini più antiche e, come avevo detto a Tyler, sapevo di aver contribuito alla loro corruzione.
Steven arrivò correndo. Irruppe nella stanza con tanta furia che gli fu impossibile frenare in tempo la sua corsa, inciampò nella gamba di una poltrona e per poco non finì lungo disteso sul pavimento; riuscì ad aggrapparsi al bordo della scrivania e la sua entrata così genuina mi provocò uno strano groviglio nello stomaco, un intreccio di divertimento e... paura. Mi divertì quella scena di lui così goffo, del suo aspetto sottosopra, e mi spaventavano tutti i moventi della sua urgenza perché avrei voluto che fosse solo uno quando, al contrario, temevo potessero essere mille altri.
Perché sei qui, S.?
«James» esclamò, esagitato, recuperando l'equilibrio e raggiungendo il letto. Non mi degnò di uno sguardo - ringraziai dio per questo - e si sedette dall'altra parte del letto. Con la mano destra cinse il polso di Jamie, gli occhi che si muovevano freneticamente studiando il suo viso.
Jamie l'osservò in un modo stranissimo: sollevato, stupito, e con un fuocherello nelle iridi azzurre che conoscevo perfettamente perché lo avevo sentito scoppiettare anche nelle mie per molti anni: speranza. Io non ne avevo più, naturalmente, neanche impegnandomi al massimo delle forze avrei potuto recuperarne un po'. Steven aveva ucciso talmente tante volte quell'emozione che il mio animo era totalmente incapace di rigenerarla.
«Ero preoccupatissimo» continuò, apparentemente sincero.
Perché sei qui, S.?
Jamie si inumidì le labbra con la lingua e deglutì, le pupille fisse sul padre. «Non ne ero sicuro, sai?»
Oh, la mia piccola Pulce...
A Steven non occorse una parafrasi, afferrò il concetto e una patina di rimorso s'impossessò del suo viso. «Lo so» assentì sottovoce. «Ma sono qui, per te e... non c'è altro posto in cui potrei essere, ti prego di credermi.»
Perché sei qui, S.?
Jamie soppesò quelle parole per un lungo istante. «O-okay.» disse poi, regalando a Steven l'accettazione che tanto agognava.
«Cosa è successo? Che significavano quei messaggi?» La dolcezza con cui pose la domanda mi stordì. Lui era sempre scorbutico, autoritario e impersonale con Jamie. Sempre.
Da quando nostro figlio era entrato nell'adolescenza, i rimproveri e le bocciature che Steven gli riservava costantemente non si contavano, e avevo dimenticato tutte le occasioni - poche - in cui non era stato uno stronzo. Avevo scordato le sue visite settimanali, le sere in cui si era trattenuto fino all'ora di dormire, in cui gli aveva rimboccato le coperte e raccontato una favola; avevo sepolto le immagini di noi tre, in giro per il mondo, durante quelle vacanze accidentali nelle quali si trasformava in colui che avrebbe dovuto essere sempre: un padre.
Perché sei qui, S.?
«Ti prometto che...» Jamie fece una pausa, lanciando anche a me una piccola occhiata per includermi nel suo impegno. «Vi prometto che lo farò, vi dirò tutto. Non vi avrei chiamati, altrimenti. Mi dispiace avervi fatto preoccupare, ma non sapevo più cosa fare. Davvero, io...» Le sue labbra tremarono. «So solo che sto male, che sono arrivato al limite... credo, e che ho bisogno di voi. Ho bisogno di tutti e due. Insieme.»
Insieme... quel termine fu come una doccia gelata, improvvisa, potente e dolorosa.
Steven schiuse le labbra, sconcertato, e il suo sguardo guizzò verso di me. Ci scrutammo a lungo, intensamente, ed era come se qualcosa o qualcuno avesse aspirato ogni boccone d'ossigeno presente nella stanza. Era uno di quei momenti mostruosi, di quelli talmente incomprensibili e difficili che non riusciresti a trovare un solo gesto, una sola parola in grado di descrivere il tuo stato d'animo.
«Sì, siamo qui. Tutti e due» disse Steven, guardando lui, poi me, dopo lui e infine ancora me, come a voler calcare e ricalcare la riga rosso acceso sotto la parola "insieme" che si era astenuto dal ripetere.
Annuii a Jamie, sfoggiandogli uno dei miei sorrisi più onesti. Sorridevo e credevo fortemente nel mio gesto, in ciò che gli stavo promettendo, nelle mie intenzioni. Steven non aveva importanza; il fatto che fosse incluso nel pacchetto non alterava di una virgola i miei propositi di speranza che tutto, per mio figlio, potesse al più presto sistemarsi.
Morivo dalla voglia di conoscere il contenuto dei messaggi che Jamie aveva spedito all'uomo di fronte a me, se gli aveva destinato lo stesso malessere, la medesima disperazione, se anche a lui aveva confessato di aver perso tutto. Aveva optato per i messaggi, una sorta di filtro, ed era facile capire il perché: non aveva con Steven la sintonia e la confidenza che aveva con me. Probabilmente, si era sentito anche enormemente a disagio. Chissà quanto gli era costato... Quanto era costato a mio figlio mostrarsi così fragile con lui; quante delusioni, amarezze, rabbia e rancore aveva dovuto digerire per lanciare quell'opprimente S.O.S. Chissà in che modo era arrivato alla consapevolezza di una simile necessità... Chissà se Steven ed io eravamo davvero la soluzione.
***
Ciao Stranieri,
ancora non riesco a capire la frequenza degli aggiornamenti; il tempo come al solito è poco e sono ancora impegnata con il concorso "Le Farfalle" (sono in finale)... quindi penso di poter essere più presente non appena terminerà.
Poche palle, la Star di questo capitolo è indiscutibilmente Victor! Darò lui più spazio in questo secondo volume, primo perché è il mio migliore amico, secondo perché con lui tutto "funziona" meglio (difatti in Metcalfe non era presente e sappiamo tutti com'è andata a finire). Quindi amatelo, fantasticate su di lui, spalleggiatelo e... godetevi le sue azioni perché ci riserverò davvero parecchie sorprese.
Detto ciò, che ne pensate? Il prossimo sarà un cap. particolare, devo dar spazio ancora un attimo alle coppie Lyla-Steven e Tyler-Victor, poi finalmente ritorneremo a Chicago. Sto volutamente evitando la mia pesantissima e solita introspezione, e lo farò anche nei prossimi, ma spero comunque di aver toccato un po' tutti i punti chiave e che siate ben allineati al discorso.
A onor del vero, devo specificare che i dialoghi di Steven NON sono farina del mio sacco (li ho solo sistemati); sapete che sono contraria al plagio, e infatti sono inediti e possiedo tutti i diritti per poterli utilizzare (solo Mimi capirà, temo). Io ho scritto quelli di Victor e... qualcuno mi ha risposto, mettiamola così.
Paura per i #Tyla? Bene, DOVETE AVERNE!
bite ^,..,^
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