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1. Deal With God [Patto Con Dio]

"And if I only could, make a deal with God, get him to swap our places."

Running Up That Hill - Placebo

Noi tossici capitalisti siamo molto simili ai vampiri anziani: abbiamo una dipendenza discreta e stilosa, gusti raffinati e cerchiamo di tenere il più a lungo possibile la testa sulle spalle. Certo, gli stupidi prolificano anche nella nostra categoria, ma generalmente è facile inquadrarli e metterli in quarantena, in modo tale che non infanghino il resto del gruppo. Ciò che ci differenzia dai tossici comuni è la serenità di avere la materia prima, il prodotto; saltiamo tutta l'angosciosa trafila della "caccia" e di conseguenza la nostra resistenza è più alta, il nostro ruolo nel mondo accettato. In sintesi, non creiamo scompiglio, non rompiamo i coglioni a nessuno e se finiamo in qualche casino riusciamo a tirarcene fuori con le nostre sole forze.

C'è una cosa, però, che non tutti sanno: abbiamo bisogno di ordine. Sì, l'ordine è alla base della nostra buona condotta, è il segreto per sopravvivere. Abbiamo bisogno di ordine nei sentimenti, nella carriera, nel corpo; l'ordine è tutto, senza non riusciremmo ad affrontare i picchi di gaudio e gli abissi di depressione. Ci deve essere ordine: dentro di noi, intorno a noi. Il lavoro, le responsabilità, i beni materiali e le persone con cui abbiamo a che fare devono incasellarsi perfettamente in questo schema o tutto va a puttane. Per i più distratti, esiste uno spazio che funge da cuscinetto, una sorta di tempo neutrale che consente di risolvere i problemi se si pasticcia, ed è fondamentale non oltrepassare mai il limite, non sforare, rientrare in carreggiata il prima possibile.

Ecco, io avevo usato quello spazio come una pista da ballo, lo avevo sfruttato fino all'ultimo secondo e avevo travalicato il limite. Ero sull'altro versante, dagli alluci alle doppie punte, avevo buttato in piedi un casino di proporzioni cosmiche e non mi ero nemmeno accorta di aver esaurito il tempo a disposizione per mettere a posto le cose.

Era tutta colpa mia.

Cosa?

Tutto quanto.

Quando superiamo il limite, noi tossici abbiamo un'unica preoccupazione: il nostro malessere; ogni cosa, viva o inanimata, è il nemico, è ingombrante e insopportabile.

Perché?

Be', è molto semplice: perché tutto è uno specchio. Tutto riflette gli sbagli, la merda che ci ricopre, scagliandoci dinanzi, con sorprendente nitidezza, quello che siamo veramente, assegnando alla stupidità un peso e alla cattiveria un'altezza, alla bruttezza una dimensione. Siamo quadridimensionali e non troviamo angoli bui in cui imboscarci; non possiamo più non guardare, non ascoltare, gettare un telo sul disordine e nascondere la polvere sotto il tappeto persiano del padre di nostro padre. Quindi, anche se riconosciamo di essere colpevoli sotto ogni punto di vista, ci sta profondamente sul cazzo tutto ciò che ce lo ribadisce di continuo, anche se indirettamente.

In questi momenti, qualsiasi cosa - chiunque - è meglio di noi, e stiamo così male che ci restano poche scelte: uccidere tutto e tutti, uccidere noi stessi o... costituirci.

*

L'arredamento nero era troppo nero e, nonostante adorassi le sfumature scure, in quella situazione era fastidioso e basta. Anche il silenzio mi era nemico, e condividere l'aria con Fabrice Garret e Tyler Dixon era un po' come stare in una camera a gas.

Iniziai a guardarlo sempre più spesso, dapprima con occhiate fugaci e via via soffermandomi con insistenza crescente su tutto di lui. Ero combattuta tra il desiderio di usarlo come uno psichiatra - passeggiare in su e in giù per la fusoliera del jet esponendogli frustrazioni, dubbi, imprecando e lamentandomi allo spasimo perché mi consegnasse una soluzione - e quello di gettarmi tra le sue braccia, rannicchiarmi contro il suo petto e piangere. Lo guardavo e ancora non riuscivo a capire quale delle due alternative sarebbe stata più idonea con lui, quale l'avrebbe fatto sentire più a suo agio, caricato di meno responsabilità. Aveva un animo delicato e strano, l'uomo che mi aveva rubato il cuore, per quello che ne sapevo avrebbe potuto benissimo sentirsi minacciato dall'intera situazione e parlare non avrebbe scatenato altro che nuove paure o fastidi.

Tyler incrociò il mio sguardo. Sembrava rilassato nel grande sedile nero, bello da star male ma comunque impossibile da interpretare. Disapprovava il mio comportamento? Voleva rimproverarmi? Solamente guardarmi? Detestavo e amavo il suo specchio incomprensibile. Se ne stava lì, con il gomito appoggiato al bracciolo, gli occhi bassi e taglienti puntati su di me.

Qualcosa mi diceva che non avrebbe aperto bocca per primo, quindi lo feci io: «Mi confondi» bisbigliai, scuotendo appena il capo e utilizzando le parole che lui spesso usava con me.

Tyler sollevò il mento, strofinandosi la guancia con le dita. «Non lo sto facendo.» Gli credevo, ma liberarsi di una manciata di colpe è il primo obiettivo di un tossico in fase autodistruttiva.

«Sei arrabbiato con me?»

Storse le labbra, come a sottolineare l'assurdità della domanda. «Sto solo aspettando.»

«Cosa?»

«Che tu mi parli. Che tu voglia... parlarne

Appunto, "parlare". Parlare di quello, rigurgitare i miei pensieri puri, tagliarmi il cuore e scrivere a voce i miei peccati col sangue. «Credimi, vorrei ma non ci riesco.»

«Provaci.» Non era da lui appoggiare il dialogo, non era da lui desiderare di uccidere un silenzio che lo proteggeva così egregiamente.

«Non è da te» azzardai con un tono neutro. «Voglio dire, tu sei Tyler Dixon: l'uomo di poche parole, il fan numero uno del silenzio, il Re delle risposte monosillabiche, il maestro dei grugniti e...»

«Dacci un taglio, Silver!» m'interruppe, tirando la coda dell'occhio per assicurarsi che Fabrice non fosse interessato ai nostri sproloqui (non lo era, ovviamente). «Sei tu che devi parlare, non io.»

All'improvviso, l'opzione della seduta psicanalitica diventò molto concreta. «Devo alzarmi in piedi e fare un monologo?»

«Puoi rimanere seduta» rispose, talmente compassato che avrei voluto rovesciargli il gin tonic in testa per testare l'effettiva elasticità del suo rigore.

Mi accesi una sigaretta, per domare il fastidio, rannicchiai le gambe al petto e presi a guardare il nulla rosato fuori dal finestrino. Non avevo ancora pienamente accettato l'idea di confessarmi, non sapevo da cosa partire, che espressione assumere. «Mi dispiace non far scalo a Chicago... prima» esordii, tentando di deviare la conversazione.

«Non importa.»

«Sicuro?»

«Sì.»

Non ci potevo fare niente, mi uscivano solo considerazioni del cazzo. «Mi dispiace che tu debba sopportare tutto questo, di averti coinvolto e...»

«Smettila di dire che ti dispiace» mi rimproverò a bassa voce «Smettila di girarci intorno, non sono un idiota. Di' quello che devi dire e stop. So distinguere cosa è più importante, ora.» Già, lui lo sapeva, la sua testa era ordinata, il suo animo pulito, il suo cuore forte.

E io? Cosa sapevo, io?

C'era stato un periodo, più o meno corrispondente a quando frequentavo Derek, in cui avevo creduto di poter avere tutto ciò che volevo. Una di quelle fasi in cui ti senti molto amico dell'onnipotenza, senza avere chissà quale progetto assolutista o cattivo. Semplicemente hai la sensazione di poter fare e ottenere qualsiasi cosa, per te stesso, per le persone che ami, per il tuo lavoro. Come una magia che sfrigola sotto pelle e ti restituisce molto più dell'adrenalina: una capacità costante e inesauribile. Ne hai per tutto e tutti.

Quel momento, poi, si era spento, era morto. Ma ricordavo ancora con precisione cosa avevo provato e non esagero se dico che, da quando Tyler Dixon era entrato nella mia vita, avevo ricominciato a sentirla quella magia, avevo di nuovo sfiorato l'onnipotenza, ero quasi riuscita a impugnare il timone dell'enorme transatlantico su cui viaggiavo, quasi riuscita a leggere le coordinate sul radar, quasi riuscita a manovrarlo e seguire la rotta.

Quasi.

«Okay» continuai, espirando una nuvola di fumo tremante. Piantai i miei occhi nei suoi e lo dissi: «E' tutta colpa mia, sono una madre di merda. Puoi aggiornare la mia lista di lacune genitoriali, di materiale ne hai a sufficienza.»

Contemporaneamente alla mia ammissione di colpevolezza, Fabrice si alzò e lasciò il corridoio, probabilmente diretto alla zona ufficio del jet.

Tyler seguì la sua sparizione con notevole sollievo, si passò una mano nei capelli e riportò su di me un'attenzione vagamente irritata. «Quella dannata lista non esiste, Silver!» m'informò, duro. «Non sei una madre di merda e proclamare questa stronzata ad alta voce non la renderà vera. Mi hai detto di aver avuto dei genitori pessimi: fai i tuoi confronti, allora.»

«Non mi servono confronti, Tyler, i fatti parlano chiaro: mio figlio è crollato, mio figlio aveva bisogno di me e io non c'ero.» Mi sentivo più libera dato che eravamo soli. «Per l'ennesima volta ho anteposto i miei bisogni ai suoi, un bravo genitore non lo fa. Ho iniziato un percorso con le migliori intenzioni, un percorso che doveva essere solo di Jamie e nel quale mi sono intromessa senza alcuna vergogna. Ho continuato a correre, da sola, e neanche mi sono accorta che mio figlio non era più al mio fianco. L'ho lasciato indietro e ho continuato a correre per soddisfare i miei appetiti. Questo non può avere una definizione diversa: a casa mia si chiama essere una madre di merda fatta e finita!»

Tyler si piegò in avanti, i gomiti sulle gambe. «Ma che cazzo stai dicendo? Tu non sai cosa vuol dire fottersene davvero di qualcuno, sbagliare e non poter recuperare, non poter più sistemare le cose. Ti dico quello che so e che vedo io: tu non l'hai fatto. Sul serio vuoi paragonarti a...» Chiuse la bocca di scatto e il suo sguardo si macchiò di bile.

La deduzione era logica. «A Steven?»

Annuì, ritraendosi contro lo schienale. «Ci hai provato, hai chiesto aiuto. Magari un paio di cose sono andate storte, ma chiunque può sbagliare.» Un paio? Non si trattava di aver comprato a mio figlio le scarpe del numero sbagliato: io gli avevo amputato i piedi. «Tutto si può ancora aggiustare, c'è rimedio, puoi farcela e può farcela anche Jamie.» C'era una rabbia particolare nelle sue parole, un fervore che non avevo mai visto. Quando occorreva evidenziare sbagli e mancanze, Tyler era sempre in prima linea. Sempre. Avevo capito che era così che si difendeva, era così che teneva le persone a distanza. Da quello che aveva detto, però, - da come lo aveva detto -, sembrava quasi che parlasse di se stesso.

"Ho perso tutto" aveva detto Jamie. Tutto. Non potevo fare a meno di chiedermi se quel tutto avrebbe potuto essere meno tutto se io non avessi contribuito allo sciacallaggio, se non gli avessi tolto anche lui.

«Mi ha detto che ha perso tutto. Avevo la soluzione a portata di mano e gliel'ho portata via.» Feci una pausa e lo fissai in un modo che non poteva lasciare adito a dubbi.

«Gesù, Lyla, io non sono mai stato la soluzione ai problemi di Jamie! Come puoi anche solo pensarlo?» sbraitò.

«Eri una possibilità...»

«No, ero solo un'alternativa» mi corresse.

«E' uguale.»

«Non lo è!» ribadì, energico. «La possibilità prevede anche un ipotetico successo, l'alternativa è unicamente un modo diverso di affrontare le situazioni... una strada secondaria che porta comuque alla stessa meta: sopravvivenza o distruzione.»

Quel discorso stava lentamente distruggendo me. «Perché mi stai difendendo?» gli chiesi, spegnendo la sigaretta nel gin tonic rimasto. Lo preferivo quando mi odiava: un mese prima mi avrebbe detto le cose esattamente come stavano e, forse, avrebbe addirittura applaudito la mia presa di coscienza.

«Non ti sto difendendo, sto cercando di farti aprire gli occhi. Compiangerti non ti servirà a nulla, tutto è ancora recuperabile. E quel tutto di cui parla Jamie, per il momento, non puoi sapere che significa. Ha diciotto anni, dannazione, la sua testa è piena di casini!» Rivolse i palmi al soffitto. «Tu stai andando da lui. Tu ci sei, non gli hai voltato le spalle. Troverai una soluzione. La... troveremo» mormorò l'ultima parola, voltando la testa e impedendomi di vedere quanto gli fosse costato pronunciarla.

Provai un dolore atroce, per tanti, tantissimi motivi tra i quali anche la bellissima dimostrazione di aiuto di Tyler. Ritenevo alquanto assurdo, vista la mia mediocrità dilagante, meritarmi anche quello da lui.

«Io... non so che fare» balbettai in preda all'angoscia. Sentivo freddo dappertutto e mi strofinai istintivamente le braccia.

Tyler mulinò le mani verso di sé. «Vieni qui.»

***

Al di là di ogni ragionevole supposizione, Lyla Silver era una stronza. L'avevo capito fin dal nostro primo incontro e lei me ne aveva dato continue riprove nel corso della nostra conoscenza. Ma, non avevo ancora ben chiaro se purtroppo o per fortuna, apparteneva a quel genere di stronzi maledettamente veri e positivi, di quelli che della stronzaggine sapevano farne un pregio, sfruttarla onestamente nelle occasioni giuste e per buoni scopi. Era testarda, irriverente, sensuale, furba e aveva la capacità di esaurirti mentalmente e fisicamente come nessun altro al mondo. Perciò, non sapevo se fosse più un bene o un male - per me - che lei fosse una stronza così... perfetta.

Si assumeva tutte le colpe: il dolore del figlio, gli insuccessi della "terapia", il fallimento della famiglia "originale". Tuttavia, ignorava che non esiste crimine se si è tentato di tutto pur di non commetterlo, non ci si può colpevolizzare di una disfatta indipendente dalla propria volontà. Tempo addietro, nella sua stessa situazione, non potevo dire di aver fatto altrettanto. Io avevo agito per egoismo, rabbia, assecondando un orgoglio che mi era costato il più grande rimpianto della mia vita, il peccato da cui non sarei mai riuscito a liberarmi.

Lyla sosteneva di aver corso - incontro a chi, era evidente - e non aveva nemmeno capito che io le avevo messo in mano una mappa, indicato la strada, mi ero seduto dietro un vetro e l'avevo osservata correre, interrogandomi sulle sue intenzioni, godendo della sua tenacia e di ogni sua singola dimostrazione di desiderio. Quando poi era arrivata alla mia porta... cazzo, sì, le avevo aperto e l'avevo fatta accomodare.

Prima del nostro viaggio in Francia, mi ero illuso di aver mantenuto fede ai miei principi, al mio modo di essere e di fare; non avevo accettato l'dea di averla tenuta d'occhio durante la sua corsa, di aver sognato che arrivasse. Mi ero illuso di aver seminato una marea di ostacoli lungo il suo percorso, di aver innalzato barriere per bloccarla, preparato armi e scudi per difendermi dai suoi assalti; mi ero illuso di non volerla e di aver fatto l'impossibile per respingerla, ma era una cazzata. Mi sentivo molto come un cane, al canile, davanti a due amorevoli e potenziali padroni: cercavo di rimanere sovversivo, per testare l'onestà degli interessati, quando in realtà l'unica cosa che desideravo era mollare la gabbia maleodorante che mi teneva prigioniero e accoccolarmi ai piedi di un bel camino.

Pazzesco che proprio uno come me si fosse lasciato mettere al guinzaglio da una come lei! Ero ancora ben lontano dall'essere l'uomo che lei sosteneva io fossi, di strada da fare ne avevo anch'io - e parecchia -, solo che non vedevo più motivi per tornare indietro, persino le paure si erano lasciate sfidare dalla folle novità, dallo strano benessere.

Quando le avevo fatto cenno di avvicinarsi, pensavo che avrebbe cambiato postazione e scelto il sedile accanto al mio. Invece, era balzata in piedi e mi si era buttata addosso, abbracciandomi e affondando il viso nell'incavo del mio collo. Se mio fratello mi avesse visto non ci avrebbe creduto, Melissa non ci avrebbe creduto... cazzo, neppure io ci stavo davvero credendo! Con lei era impraticabile fuggire il contatto. Con lei era tutto o niente, e io il "niente" non avrei potuto più nemmeno prenderlo in considerazione.

«Se solo non mi fossi in-»

«Tu ancora non puoi saperlo!» sbottai. «Soprattutto adesso, dopo quello che è successo, dopo la telefonata che hai ricevuto. Dovresti mettere in pausa tutto ciò che non riguarda lui.»

«L'ho fatto.»

«Non mi pare» dissi con troppa inclemenza. La strinsi più forte, per compensare la mia severità. Potevo prendermi in giro fino alla fine dei miei giorni, potevo fare finta di essere infastidito dalla sua presenza... di fatto, adoravo sentirla così vicina.

Strusciò la guancia sulla mia spalla, l'espressione di una gattina spaventata. «Le vicissitudini non cambiano il risultato, Tyler. Tu puoi non volerlo ascoltare, puoi non accettarlo e io posso non dirlo e rispettare il fatto che tu non voglia sentirlo, ma conosci perfettamente la verità. Vorrei avere anche solo un motivo per odiarmi, per odiare te che mi hai portata a questo, ma non ce la faccio. Riesci a immaginare quanto sia frustrante?»

Non lo so, riesco a immaginarlo? Accettavo che lei fosse innamorata di me e che io non sapessi nemmeno cosa significasse una cosa del genere? Sì, mi ci avvicinavo alla grande a quel tipo di frustrazione, la provavo anch'io, anche se per motivi diversi. «Mmh.»

«Rimane sempre la risposta migliore del tuo repertorio.» Accennò un debole sorriso e io aggrottai la fronte.

«Cosa ti ha raccontato Victor?» chiesi per tornare all'argomento principale.

Il suo volto si incupì. «Non molto. Tenendo conto che comunichiamo su una linea sicura e a prova di qualsiasi spionaggio, troppo poco. Mi ha detto che non sta bene, che è sconvolto e che chiede in continuazione di me. Ho provato a indagare sugli ultimi giorni ma mi ha liquidato con un "Ne parliamo di persona.", che alle orecchie di una madre suona molto come "Era ubriaco e strafatto, ha avuto un incidente in auto, si è rotto entrambe le gambe ed è finito in ospedale, poi lo hanno arrestato e ho pagato migliaia di dollari in cauzione."»

«Forse alle tue di orecchie, Silver. Dubito che ogni madre pensi questo quando riceve una telefonata dal suo...» lasciai la frase in sospeso perché non trovavo un termine per qualificare Victor Caster.

«Tranquillo, è chiaro» mi aiutò. «Jamie lo chiama "zio". Negli anni, a scuola, è stato il patrigno, il tutore, il padre... Non era nessuna di queste cariche e nel contempo era più di tutte loro messe insieme.» Facilissimo da credere con un padre come Steven Hughes. A confronto, anche Norman Dixon avrebbe vinto il premio di padre dell'anno.

«Se la situazione fosse stata grave, ti avrebbe avvisata.»

«Mmh, sì» disse, poco convinta. «Tu non conosci Victor. Ha un modo tutto suo di gestire le cose.»

«Non è detto che sia sbagliato.»

«Infatti, non lo è praticamente mai. Ha questa specie di dote nel prevedere e capire le situazioni... tutto quello che dice, che fa.... Insomma, è un odiosissimo oracolo.»

«Dunque, qual'è il problema? Jamie è stato male, ma era in buone mani... è in buone mani.»

«Victor è fantastico, Tyler, ma è... mio, capisci che intendo?» Francamente no, e il mio sguardo perplesso rispose per me. «Nel senso che è il mio Parabatai, siamo sulla stessa frequenza, siamo l'una la metà dell'altro, è così da sempre.» Okay, forse ricordavo qualcosa, me ne aveva parlato durante la nostra schizofrenica prima telefonata; rapporto che avevo avuto modo di spiare molto da vicino la prima volta che ero stato a casa loro. «Non ricordo un solo periodo di crisi in cui Victor non fosse presente... crisi che non sarei mai riuscita a superare senza di lui. Il mondo può finire, la vita può ferirmi, ma ho comunque la certezza di averlo sempre accanto.»

Essendo l'ultimo uomo arrivato nella sua vita, era un po' terrificante come prospettiva, come se dovessi sostenere un esame d'ammissione davanti a un unico giudice: Victor Caster. «Non riesco a ricollegarmi al discorso.»

«Quello che voglio dire è che mi spaventa a morte il fatto che Jamie non abbia ancora trovato il suo compagno d'armi, che non abbia avuto la straordinaria fortuna che ho avuto io.» Sembrava stesse parlando di un talismano più che di una persona.

La scossi leggermente. «Ehi, ci è cresciuto con lui: Victor gli ha fatto da padre...»

«Non mi stai seguendo: parlo di un Parabatai, Tyler, non di un famigliare qualsiasi.» E cosa diamine è un parabatai? «Parlo di un legame che trascenda i blocchi emotivi che si possono avere con genitori, fratelli, zii... Qualcuno a cui puoi confidare tutto, senza eccezioni, che conosca anche il tuo segreto più perverso e brutale, qualcuno che ti ami e ti rimanga vicino senza altri fini se non quello di ricevere la stessa cosa in cambio. Qualcuno che sia disposto a morire pur di proteggerti e che sappia sempre quello che pensi. Sempre. Qualcuno che sia... te

Va bene, il ritratto era più definito, comprensibile, ma non avevo alcun termine di paragone in tasca. Essere un disastro in qualsiasi tipo di relazione umana mi causava difficoltà a comprendere il valore di un rapporto così.

Trascorsero alcuni minuti in cui non ci scambiammo nemmeno una parola. Nel silenzio, il rumore attutito dei motori assomigliava tanto al russare regolare di un gatto e, a proposito di gatti, mi venne in mente il mio. Quelle avrebbero dovuto essere le mie preoccupazioni: il gatto, il Centro, la scuola il lunedì mattina... Non ce l'avevo con Lyla per il cambio di programma, era capitato, era importante; non mi era nemmeno passata per la testa l'idea di infischiarmene, prendere un volo di linea e rientrare a Chicago lasciando che lei si occupasse della sua famiglia con... la sua famiglia. Il problema era che non sapevo cosa esattamente si aspettasse da me, ed ero quasi certo che, qualunque cosa fosse, ero troppo coinvolto. Jamie non era solo un ragazzo che frequentava il mio Centro: era suo figlio, il figlio della donna con cui andavo a letto, un ragazzo pieno di problemi per il quale io ero... un nessuno. Ero diventato un fottuto ibrido. Forse lei aveva ragione: se ci fossimo attenuti ai ruoli iniziali, avrei dribblato il coinvolgimento, avrei gestito la contingenza con più lucidità, avrei potuto offrire il mio aiuto in modo esclusivamente professionale. 

Le hai detto che troverete una soluzione... insieme.

Merda, mi era scappato.

«Va tutto bene?» le chiesi, dato il suo insolito mutismo che, trattandosi di Lyla Silver, aveva quasi del miracoloso.

Sussultò e, quando aprì la bocca per rispondere, le sue labbra vibrarono. «Sai, se solo potessi fare un patto con Dio, giuro che lo farei. Come in quella canzone dei Placebo, hai presente?»

«Mmh-mmh.» Sì, la conoscevo, era una gran bella canzone, malinconica eppure uno dei più bei pezzi del loro repertorio.

«Be', gli chiederei davvero di fare uno scambio, di mettere me al posto di Jamie. Io saprei affrontare quello che sta passando, potrei superarlo e riconsegnargli una vita più... ordinata.» Con le dita seguiva i contorni bianchi della scritta "Minor Threat" sulla mia maglia. Quel gesto mi provocava brividi decisamente inopportuni, per il discorso, la situazione...

Sei un gran porco, Dixon, rassegnati!

'Fanculo!

«Lascia perdere Dio: contratti di questo tipo non portano mai a nulla di buono.»

«Sì, invece. Potrei patire io tutte le sue sofferenze» proseguì sommessamente. «Risalirei quella strada, risalirei quella collina, risalirei quel palazzo e lui non sarebbe così infelice.»

Provai ad applicare la stesso proposito alla mia situazione. Ripensai a Andy, al periodo in cui avrei dovuto aiutarlo, e per un attimo cercai di calarmi nei panni del famigliare che avrebbe potuto salvarlo. Malgrado il peso schiacciante dei miei torti, però, era dura ritenere mio fratello meritevole di un simile sacrificio, di un atto d'amore così grande.

Per tale motivo pensavo che per Lyla fosse diverso, che per Jamie lo fosse: le basi erano migliori, i soggetti erano migliori e la drammaticità non rasentava neanche per sbaglio l'inferno che avevo passato io.

«Ce la faremo» sussurrai tra i suoi capelli.

*

[Aria Resort - 3730 S Las Vegas Blvd - Las Vegas, NV ]

(PST), UTC -8)

Eravamo attesi. Entrambi. Controllarono il mio passaporto, ma non quello di Lyla e la deferenza che le riservò il personale dell'albergo fu a dir poco impressionante.

Lei era troppo tesa, nervosa e stanca per ricambiare l'esagerata gentilezza; continuava a ribadire la nostra fretta e, nonostante il traffico intenso di ospiti, le procurarono immediatamente un uomo di colore, alto e ben vestito, perché ci scortasse all'alloggio del Signor Caster.

Prendemmo tre ascensori, attraversammo quattro porte automatizzate con apertura a codice alfanumerico e percorremmo a piedi quelle che mi parvero almeno un paio di miglia tra marmo, moquette e parquet. Al mio insopprimibile stupore, Lyla rispondeva con rassicurazioni fisiche - mi teneva per mano - e con descrizioni dettagliate su come i residenti avevano un accesso molto più veloce alle Villas ed evitavano la maratona a cui invece stavamo partecipando noi. Avrebbe dovuto essere in qualche modo rincuorante, ma a me sembrava solo il peggior modo per un essere umano di perdere tempo: figuariamoci se per infilare un paio di gettoni in una slot machine o fare un tuffo in piscina si doveva aggiungere mezz'ora d'anticipo alla tabella di marcia.... Ma perché cazzo la gente si rintana in questo genere di nidi olimpici?

Impiegammo quasi venti minuti per raggiungere l'ala delle Sky Villas, gli appartamenti più lussuosi dell'Aria Resort che, stando a quanto mi aveva detto Lyla durante il tragitto in quel dedalo multicolore, superavano addirittura i seicentocinquanta metri quadrati di spazio: una cosa inconcepibile.

Ci fermammo davanti a una gigantesca porta di legno laccato, il dipendente dell'albergo si congedò e provai pena per lui, per il tempo che avrebbe impiegato per tornare di sotto.

Lyla schiacciò un bottone trasparente che si illuminò di rosso.

«Sarebbe il campanello?»

«Sì» rispose con gli occhi fissi sul battente, la mano instabile nella mia. Se non altro, era discreto: non avevo udito alcun suono.

Pochi istati dopo, Victor Caster aprì la porta. «Alla buon ora!» esclamò, visibilmente incazzato. Passò, rapido, lo sguardo da me a Lyla e poi lanciò un'occhiata minacciosa alle nostre spalle. «Dove diavolo è Gerard? Sto per aprire uno di quei reclami che passeranno alla storia: inaccettabile che si permettano tutte queste formalità con noi!» Mosse un passo avanti, cinse la vita di Lyla con un braccio e le baciò la guancia. «Ciao.» Si staccò da lei e mi tese la mano. «Buongiorno, Signor Dixon.»

«Buongiorno» risposi stringendogliela. Incrociai i suoi occhi chiari in cui scorsi sfiancamento e un profondo malumore. Mi augurai che la mia presenza non c'entrasse nulla con il secondo.

«Entrate» disse facendosi da parte. Indossava un paio di jeans chiari e una maglietta nera, e mi sembrò molto più giovane di quanto ricordassi. «Hai letto il messaggio?» chiese a Lyla mentre varcavamo la soglia.

«Quale mess...?» inziò lei, prima che qualcosa fucilasse la sua domanda e immobilizzasse il suo corpo ancora collegato al mio.

Seguii la sua espressione paralizzata e quello che vidi mi obbligò riconsiderare la questione del patto che lei avrebbe tanto desiderato stringere con Dio. Forse, l'accordo, avremmo dovuto farlo sul serio. Ma con Satana.

***

Ciao Stranieri,

eccoci qui, finalmente siamo arrivati a Las Vegas. Perdonate la pappardella in aereo ma ci tenevo a fare il punto della situazione in vista di quello che accadrà d'ora in avanti.

Volevo che fosse ben chiaro lo stato emotivo di Lyla, e che si capissero i passi avanti di Tyler; questo viaggio insieme indubbiamente li ha segnati, li ha uniti, ma tutti questi progressi saranno sufficienti?

Ero indecisa se inserire il pezzo finale, poi ho valutato che il cliffhanger ci stava tutto: cosa/chi c'è a Las vegas?

bite ^,..,^

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