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✯𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 𝖘𝖊𝖎 ✯

Tife girovagò fra le rovine, la stanchezza del viaggio sembrava essere svanita. Vi era solo rabbia in lei, una rabbia che sembrava corroderle il corpo.

Aveva passato sette anni sul campo di battaglia calpestando con passività qualsiasi orrore. Erano brutalità normali, era la guerra. Negli scontri o si vinceva o si moriva con onore. Ma quello a cui stava assistendo non era giusto.

Non aveva senso scavare e sotterrare i corpi carbonizzati che trovava, erano troppi perché potesse dare degna sepoltura a tutti, eppure non riusciva a smettere di farlo. Cercava di inumare insieme i cadaveri che parevano appartenere alla stessa famiglia, dando loro riposo insieme a qualche oggetto che trovava ancora integro accanto a loro.

I ricordi di come era stato quel luogo le annebbiavano la vista, neanche nei sette lunghi anni di guerra la sua mente aveva rievocato così tante volte quel luogo che lei doveva chiamare "casa".
Trovò ciò che un tempo era stata la casa di suo fratello Jouphet: si era allontanato insieme a sua moglie gravida ed era morto improvvisamente alcuni giorni dopo. Suo figlio era nato e cresciuto senza un padre e lei non avrebbe mai conosciuto suo nipote.

Awerin continuava a seguirla in silenzio, tomba dopo tomba, finché, esausta, non iniziò a sbatterle il muso contro la schiena.
«Hai ragione, non posso continuare così... Se non riposo domani non avrò le forze per affrontare quei demoni...»

Si strofinò la radice del naso, tentando in ogni modo di bloccare le lacrime. Lei non era umana, lei non doveva piangere.
«Li sterminerò tutti, non ne lascerò vivo neanche uno...» continuava a ripetersi.

Non conosceva il destino delle creature come lei una volta uccise. Qualcosa le diceva che con il dissolversi del corpo fisico loro scomparivano, non esistevano più, come una fiamma appena spenta. E non provava rimorso per tutti quei demoni che aveva destinato alla fine.

Pensare che i responsabili di quell'orrore fossero coloro che un tempo abitavano la dimensione bianca le faceva stringere lo stomaco in una morsa fastidiosa e senza nome. Gli angeli erano nati per guidare gli uomini, non per ucciderli.

Guardò il cielo stellato sopra di lei come se fosse la prima volta, ispirò l'aria satura di fuliggine e chiuse gli occhi: il giorno dopo avrebbe ucciso tutti quei demoni reincarnati e dopo di loro ne avrebbe uccisi altri e altri ancora. Sarebbe riuscita a purificare la terra degli uomini e tornare in paradiso, con le sue ali.

Il cielo era ancora livido, il sole stava per mostrarsi oltre l'orizzonte. Tife era già arrivata dinanzi alla grande bocca della grotta, somigliante alle fauci di un enorme mostro con denti grigi screziati di terreno.

«Sono Tife, c'è qualcuno?», urlò davanti a sé. Sentì la sua voce sbattere contro le pareti rocciose.
Per alcuni minuti, interminabili minuti, non accadde nulla. Non potevano non esserci sopravvissuti, non era possibile che Michael le avesse mentito: gli angeli non mentono mai.
Solo chi ha sentimenti può manipolare la verità e gli angeli non provavano nulla.

Si addentrò oltre l'ingresso, la luce si faceva via via più tenue, esigue. L'echeggiare di alcuni passi avanzare da dietro una parete la bloccó. D'istinto la sua mano corse all'elsa della spada, un riflesso che aveva dovuto imprimere nei suoi muscoli per tenere ben salda la vita.

Vide il viso di una donna, tumefatto e ancora incrostato di fuliggine e sangue. Sua madre, l'avrebbe riconosciuta in ogni caso.
«Tife?», chiese la donna tremando, incredula, stringendo fra le dita gli angoli di uno scialle bruciacchiato che le copriva le spalle. Indossava ancora i vestiti di casa, quelli che le donne portavano sempre, mentre i mariti erano sulle rotte mercantili.

In quel momento i capelli neri erano fermati da una fascia che le scopriva l'ampia fronte, mettendo in mostra le poche rughe e le sopracciglia folte, il naso fino e le labbra sottili.

Sua madre era sempre stata una donna che nella semplicità amava curarsi e vederla in quel momento con il viso ricoperto di sporcizia sembrava un'eresia.

Gli angoli della bocca di Tife si piegarono in un sorriso che si sarebbe voluto trasformare in un urlo di gioia. Erano passati sette anni da quando aveva lasciato sua madre e suo padre. Sperò che da quella parete in pietra uscisse anche lui, ma non avvenne. Suo padre non c'era.

Ricordò in un attimo il momento in cui era partita da casa per arruolarsi: «Sei una pazza se credi di farlo» le aveva detto l'uomo, senza la forza per fermarla, senza il coraggio di toglierle dalle mani le armi del fratello che stava radunando.
«Non mi importa di quello che pensi» aveva risposto.
«Disonorerai la sua spada».
Sentendo quelle parole Tife aveva stretto con forza l'elsa e con una veloce torsione del busto aveva portato la lama scintillante alla gola del padre. «La so usare meglio io, e porteró uno scopo a queste armi dimenticate».
Nessuno avrebbe potuto mai dire il contrario: lei le aveva onorate sporcandole del sangue di centinaia di demoni.
«Torna viva» le aveva detto sua madre sulla porta, dandole un abbraccio ricambiato a stento.

«Sì madre, sono tornata».
La donna si gettò con le braccia al collo della figlia, piangendo di gioia alla vista dell'unica sopravvissuta della loro famiglia. La sua pelle odorava di fumo, di sangue e di disperazione. La sentì tiepida e tremante, stremata da tutto ciò che era accaduto.

«Madre smettete di piangere», le disse con dolcezza. «Dove si trova mio padre? » la risposta già la conosceva, ma voleva sentirla con le sue orecchie.
La donna deglutì amaramente, scosse il capo senza dar voce ai suoi ricordi.
«Raccontatemi cosa è successo».
La donna si asciugò le lacrime spandendo maggiormente la fuliggine sul viso.
«Hanno distrutto il villaggio, parlavano in elleno, non capivo... » raccontò con voce tremante.

Tife ricominciò a fremere di rabbia. Attaccare la sua gente era stato un vero errore, avrebbe vendicato ogni singolo uomo del villaggio. Tuttavia, in quel momento, l'unica cosa che il suo corpo riusciva a fare era stringere sua madre.

«Sei tornata solo tu?» si sentì dire poco distante. Tife guardò oltre le spalle di sua madre e vide un ragazzo. Il suo nome le sfuggiva, ma si ricordava di lui. Era solo un bambino quando lasció il villaggio. Con lei era partito anche il giovane fratello di lui per entrare nelle truppe di Ciro; purtroppo aveva pers la vita negli scontri già durante la prima battaglia.
Lei era l'unica ad essere tornata a casa e ci pensò solo in quel momento.

Dal suo villaggio era partita con una ventina di ragazzi, giovani e pronti al massacro. Si erano battuti al meglio delle loro forze ed erano caduti con onore. Ma a loro, Tife, non aveva mai badato.

Sostenne lo sguardo del ragazzino e scosse il capo. «Sono tornata solo io».

Molti uomini erano morti nella battaglia di Pteria, in Cappadocia, una terra bassa ricca di grandi chiodi di roccia che puntavano al cielo. Creso, il re dei Lidi, aveva invaso e saccheggiato la regione senza alcun riguardo e Ciro era accorso per scacciarlo. I morti furono a migliaia da entrambe le parti. Un massacro che però aveva spinto Creso nella capitale lida, Sardi, e che aveva permesso all'esercito di Ciro, in netta minoranza, di sconfiggerli a Thymbra.

La battaglia di Thymbra le aveva permesso di tornare a casa solo per ritrovare altra distruzione.
I pochi sopravvissuti rintanati nella grotta spuntarono come animali spaventati, domandandole cosa fosse successo in quegli anni di guerra, gli esiti delle battaglie, le tattiche usate.
E Tife fu felice di raccontare ogni dettaglio.

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