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✯Capitolo ventisettesimo ✯

Daniel si svegliò tormentato dall'emicrania e dal forte dolore alla spalla. I raggi del sole gli pulsavano sugli occhi e non aveva ben chiaro dove si trovasse.
I ricordi si mescolavano con i sogni, fondendosi in un intricato abbraccio difficile da decifrare.
Aveva visto volti estranei scrutarlo, sopraffatti poi dalla morbidezza delle labbra di Tife che gli baciavano i palmi, unguenti che gli bruciavano la carne che venivano leniti da un tocco gentile di lei...

Forse aveva solo sognato, ma ricordava il suo abbraccio, e il calore di lacrime che gli bagnavano il viso...
Sì, forse era un solo un sogno, il più bel sogno che potesse fare. Tife che piangeva per lui, Tife che lo abbracciava implorandolo di sconfiggere l'infezione.
La ferita la ricordava bene, ma poi tutto era diventato troppo confuso...
Buio e luce si erano alternati per troppo tempo.

Si mise su a sedere con un rantolo sommesso e guardò quel luogo.
Era un tempio, il tempio di Ptah, maestoso e imponente. Lo ricordava bene: lo aveva visto il primo giorno che era approdato lì con la sua nave per poi affrontare nuovamente il lungo viaggio verso la Fenicia.
Sempre per lei, per il suo amato angelo.

Accasciata su una panca vide Tife che dormiva profondamente; era strano vederla così assopita, lei che solitamente non lo faceva mai troppo profondamente.
Con difficoltà scese da quel letto in pietra e la raggiunse.
"Sei così bella che non mi sembri vera..." Pensó senza neanche rendersene conto.

Non riusciva a spostare lo sguardo, così concentrato ad osservare ogni particolare di quel viso, dagli occhi verdi appena visibili oltre le palpebre socchiuse, alle labbra rosee dischiuse come petali.
Avrebbe passato la vita a contemplarla in silenzio, beandosi della sua sola esistenza.

Si sentì qualcuno schiarirsi la voce, un suono lievemente imbarazzato che si diffuse nello spazio.
Daniel si voltò e vide una donna greca, dai lunghi capelli castani raccolti in folte trecce arrotolate sul capo, un viso asciutto e un corpo esile.
«Praxilla... Sei venuta da sola?»
«Non avevamo tue notizie da mesi. Eravamo tutti preoccupati. Poi ho visto la tua nave, ho atteso... E sei stato portato qui...» gli fu spiegato brevemente, mentre la donna avanza silenziosamente verso di lui «Ha vegliato su di te per tre giorni. L'ho vista lasciarti di rado».

«Davvero?»
«Sì, è il tuo angelo custode...»
«L'ho desiderata per tutta la vita.»
Daniel accorció le distanze tra lui e la donna, raggiungendola con poche falcate.
«Vuoi salpare già domattina? Te la senti?» gli chiese lei sistemandogli con cura qualche ciuffo scuro.
«Ascoltami, qualcuno ha cercato di uccidermi»
«Lo avevo intuito. Ricorda che tra i mortali sei un personaggio abbastanza influente.»
«Ho bisogno di capire chi siano coloro che mi vogliono morto»
«A parte gli angeli?
«Praxilla sono serio» le disse lui stizzito, allontanando quelle dita che continuavano a sistemargli i capelli con troppa invadenza.

Praxilla era rinata fra gli umani come sua cugina, ma un tempo abitava i cieli, esattamente come lui. Creata per servire le schiere di Lucifero.
«Parliamone quando saremo nelle nostre terre, quando anche lei sarà con noi».
Daniel sospirò pesantemente, senza però dire altro.
La donna uscì in silenzio, sostituita presto da schiave egiziane che aiutarono Daniel a liberarsi degli abiti intrisi di sangue e pus per indossarne di più puliti. Con grande sollievo tornò ad indossare un chitone chiaro in lino e sopra un Himation in lana che gli nascondeva il braccio ferito.

Tife dormiva ancora, tutti quei fruscii non l'avevano svegliata; così lui attese, in silenzio, che lei riaprisse gli occhi.

Il faraone Amasis era anche lui un demone incarnato. Un tempo era stato un arcangelo fra le schiere di Michael, l'ultimo suo arcangelo ad essersi ribellato a lui.
Era rinato tra gli umani come guerriero, ribellandosi al faraone in carica e prendendo il suo posto come sovrano.
La tempra angelica non lo aveva abbandonato neanche come ribelle. Ma aveva creato solidi legami con la Grecia, luogo dove i demoni più miti avevano portato conoscenza e saggezza agli umani.

La galera di Daniele era stata perciò preservata con cura, restando nel porto di Menfi indenne per tutte quelle settimane.

Tife si alzò quando il sole era già a metà del suo viaggio nel cielo. Aveva dormito così profondamente da sentirsi stordita.
Tuttavia, sentendo una presenza accanto a sé, di riflesso la mano le corse al fianco in cerca del pugnale. Era la quarta volta che accadeva, che dimenticava di aver dovuto consegnare tutte le armi ai sacerdoti egizi.

«Ciao Tife, come vedi non sono morto neanche questa volta» scherzó il ragazzo, seduto accanto a lei.
«Ne sono contenta, non voglio che si dica che qualcuno muore sotto la mia protezione».
Entrambi risero.

Poi cadde il silenzio. Tife osservò Daniel con quei abiti greci che sembravano renderlo più stranamente delicato ed elegante. Molto simile a quelle statue greche che di sfuggita aveva osservato.
«Costano tanto questi abiti... chi te li ha dati? » e nel dirlo sfiorò il mantello di lana blu opaco, un colore che un semplice cittadino greco mai si sarebbe potuto permettere.

«Sono miei... Ci sono cose che non ti ho detto di me... O almeno, non ti ho mai detto chi sono qui, fra gli umani...»
«Penso che sia giunto il momento allora» rispose lei con improvviso distacco. «Sempre se non ti lascerai colpire di nuovo».

In quei tre giorni di attesa aveva dimenticato quel discorso in sospeso. Si era dimenticata delle domande, delle cose che non coincidevano... C'era stato spazio solo per il patema d'animo, per la preghiera e la speranza che Daniel non morisse per la febbre.

«Non sono un soldato, non sono solo un cittadino greco...» tentennava lui, come se raccontargli ciò che era fosse una colpa. «Io sono un sovrano... Il re di una splendida città della Grecia... Ho lasciato i miei sudditi da soli per venire a cercarti».

Fu così sconvolgente quella verità che Tife non si era neanche accorta che Daniel le avesse afferrato le mani; e gliele stingeva per paura che lei si allontanasse da lui.

«Sei un re?»
«Sì, ma non volevo che questo influenzasse il tuo giudizio su di me. Resto un demone, un tuo disertore...».

Tife restó in silenzio qualche altro istante, allontanando però le mani dalle sue.
«Allora per questo eri interessato al mio passato fra truppe persiane».
«No Tife, assolutamente... Guardami per favore...» e stranamente, lei sembró obbedirgli. Si stavano guardando, e Daniel era convinto che finché gli occhi di lei non lo avessero lasciato lui non l'avrebbe persa.
«Io governo su un' isola pacifica nel mar Ionio. Mantengo ben distante il mio popolo dalla guerra, preferisco preservarlo con l'uso della ragione».

«Allora vi servirà qualcuno che vi aiuti, la pace deriva dalla guerra, ricordalo».
«Vuol dire che resterai sulla mia isola?»
«Se il suo re mi assolda come mercenario, sì...»
«Per me va bene...» "Mi importa solo averti al mio fianco..." ma questo fu solo un pensiero che fece attenzione a non farsi sfuggire.

Tife osservò come la fronte di Daniel si stava imperlando di sudore. Il tempio era fresco, quel calore derivava sicuramente dal dolore che la ferita ancora gli procurava. Delicatamente gli spostò il mantello, poi gli spostó un po' il chitone per vedere come stesse la ferita.

Era bendata bene, ma il sangue e il pus si erano raggrumati sulla stoffa.
«Devi cambiarti le bende».
«Si, devo... Ma sto bene. Menfi è meravigliosa. Dovresti guardarla prima di partire con me. So che sei rimasta qui dentro...»

Quella rivelazione la imbarazzó, ma le scaldò anche il cuore. Forse sì, doveva uscire e prendere aria.
«Ci vediamo più tardi, cerca di non farti uccidere in mia assenza» lo salutó riacquistando un tono duro e sprezzante.
«Farò del mio meglio» le sorrise.

Daniel la guardò uscire, sorridendo incantato.

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