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✯Capitolo ventinovesimo✯

La notte avvolgeva Menfi come un manto di velluto scuro, punteggiato da stelle che brillavano come scintille celesti. Dopo il banchetto nella residenza del faraone, Tife e Daniel si allontanarono dal palazzo. L'aria era fresca, portando con sé il profumo dolce delle palme e l'eco lontano del Nilo.

Si ritrovarono in un cortile silenzioso, illuminato solo dalla luce della luna che disegnava ombre argentate sui muri di pietra. Daniel portava con sé un oggetto avvolto in un panno di lino scuro.

Tife continuava a guardarlo incuriosita portarsi dietro del fardello. «Che cos'è questa cosa che continui a portarti dietro?»

Daniel srotolò il panno, rivelando una splendida spada. Tife rimase senza fiato. «Quella...» iniziò, ma la sua voce si incrinò. «È una riproduzione di Impirium.»

Daniel annuì, osservandola attentamente. «Non è perfetta, ma ho cercato di replicare ciò che ricordavo. L'ho fatta forgiare da un fabbro che ha usato il miglior acciaio della Grecia e gemme raccolte dai commercianti del Levante.»
Lei rimase senza parole per un momento, poi sollevò lo sguardo su Daniel. «Perché...?»

«Ancor prima che Arael mi chiedesse di cercati avevo la sensazione che ti avrei rivista. Nell'attesa ho creato qualcosa per te... E ho atteso il momento giusto per donartela» rispose lui, porgendole la spada.

Tife la prese con mani ferme, ma dentro di sé si sentiva scossa. I ricordi di Camael iniziarono ad agitarsi come acqua bollente nella sua mente, mostrandole i momenti in cui usava la vera Impirium. Fece scorrere le dita sulla lama, testandone l'equilibrio e il peso. «È perfetta» mormorò.

Daniel la guardò con un'intensità che la fece quasi vacillare. «Non è solo un'arma, Tife. È un simbolo. Voglio che tu sappia sempre chi sei.»

Lei alzò lo sguardo, gli occhi verdi che incontravano i suoi azzurri. «Non avresti dovuto» disse a bassa voce.

«Forse no», rispose lui, sorridendo. «Ma l'ho fatto. Ora voglio vedere come la usi.»

Daniel si tolse il mantello, rivelando un fisico tonico, e afferrò una spada più semplice e corta che aveva portato con sé. «Combatti con me. Mostrami come quella lama splendente si anima nelle tue mani.»

Tife lo guardò con un sorriso sfuggente. Le bende che gli fasciavano la spalla sporgevano dal chitone, ricordandole che Daniel era ancora infortunato. «Non è uno scontro equo».

«Mi sottovaluti però» replicò lui con un sorriso provocatorio.

Si posizionarono al centro del giardino, dove un'area sabbiosa offriva spazio sufficiente per muoversi liberamente. Tife fu la prima a muoversi, avanzando con un affondo deciso che mirava al fianco di Daniel. Lui bloccò il colpo con un movimento rapido che la lasciò stupita.

«Non male» commentò Daniel, contrattaccando con un fendente laterale.

Tife schivò agilmente, girandogli attorno come un felino in caccia. La spada si muoveva con fluidità tra le sue mani, come se fosse stata un'estensione del suo corpo. Daniel cercò di sorprenderla con un affondo improvviso, ma lei deviò il colpo con precisione, approfittando dell'apertura per colpirlo leggermente sul braccio con il piatto della lama.

«Primo punto per me» gli disse lei soddisfatta.

«Ti ho solo lasciato del vantaggio» ribatté lui, stringendo la spada con più decisione.
«Lo dirai anche quando avrò vinto?»
Tife era radiosa, quello scontro l'aveva riportata indietro nel tempo, agli scontri con suo fratello Jouphet. A quei momenti di pura serenità della sua infanzia..

Il ritmo aumentò. I colpi si susseguirono rapidi, con il metallo che scintillava sotto la luce della luna. Entrambi si muovevano come danzatori, i loro passi perfettamente sincronizzati. Ogni attacco di Daniel era parato con maestria, ogni difesa di Tife era seguita da un contrattacco elegante.

Finché lei, per non colpire la ferita di Daniel, sbagliò movimento scivolando.

Lui la afferrò per un polso e, con un movimento rapido, la fece girare su se stessa, bloccandola contro il suo petto. Quel momento gli era costato molto dolore al braccio, ma aveva sopportato stoicamente.

«Attenta a non cadere» le disse a bassa voce, il fiato caldo che sfiorava l'orecchio di lei.

Tife cercò di liberarsi, ma lui era più vicino di quanto avesse previsto. Sentì il battito del cuore di Daniel contro la sua schiena, forte e costante. Il contatto era elettrico, e per un istante, il tempo sembrò fermarsi.

«Non confondere la misericordia con incompetenza» gli rispose lei.
Tife sfruttò l'attimo per spingerlo indietro con un colpo deciso, facendolo inciampare e cadere a terra. Gli puntò la spada alla gola, il sorriso trionfante sulle labbra. «Mai abbassare la guardia, Daniel.»

Lui rise, sdraiato a terra, e aprì le mani in segno di resa. «Hai vinto. Ammetto che se mi fossi scontrato con te quel primo giorno mi avresti ucciso».

«Sei così ottimista da credere che non lo potrei comunque fare?»

«Cercherò di non farti arrabbiare allora» rispose lui, rialzandosi con un sorriso. Ma nel suo sguardo, mentre la osservava allontanarsi con la spada, brillava una consapevolezza nuova: la lotta più difficile non era quella con le lame, ma quella per raggiungere il cuore di Tife

La mattina era giunta presto, ma Tife non era ancora uscita dalla sua stanza.
Daniel era fermo su un terrazzo, lo sguardo sognante azzurro come il cielo rifletteva le sfumature della luce.
Praxilla gli si avvicinò, aggiustandosi la lunga treccia nera con disinvoltura. I suoi passi sul marmo erano appena percettibili.
«Vi ho visti ieri sera»
«Quando?»
«Quando vi siete scontrati, nonostante il braccio le hai tenuto testa» si complimentò poggiandosi alla ringhiera in pietra.
«Sì è trattenuta, fidati. L'ho vista combattere... È in grado di uccidere quattro uomini con una semplicità assoluta».

«Allora sei riuscito nel tuo intento di rubarle il cuore...» gli rivolse sguardo scuro e affilato carico di segreti. C'era qualcos'altro che lui le aveva nascosto, ma non aveva ancora avuto il coraggio di raccontarle. Era un segreto che sicuramente l'avrebbe allontanata da lui.

«Non voglio parlare di quella cosa...» la liquidó presto lui «Piuttosto, il pugnale... Lo hai trovato?»
Praxilla si sfilò il pugnale dall'incavo dei seni prominenti, facendolo frusciare sul tessuto del chitone azzurro.
«Tieni... Fanne buon uso» concluse con un occhiolino.
«Tranquilla» concluse lui allontanandosi.

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