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✯𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 𝖙𝖗𝖊✯

Pianura di Thymbra,
inizi dell'anno 547 a.C.

«E questo era l'ultimo», gridò esausta una voce che si perdeva sull'altura di una collina.
«Mi ci vorranno giorni per togliere questa puzza di dosso» Atash si annusò le ascelle, tossendo disgustato.
«Quello e perche non ti lavi! » tutti risero alla battuta di Astiago, tutti eccetto un'unica persona, che si allontanò in silenzio dal gruppo.

Erano soldati persiani, dalle barbe ricce color dell'ebano, il capo coperto da teli intrecciati e le armature in stile egizio sopra abiti in tela sporchi di fango e sangue. Tutti uomini dalla pelle bruciata dal sole e logora dalla fatica, che ammassavano i corpi dei loro commilitoni morti in nome del loro nuovo "Re dei re", convinto di poter conquistare tutti i territori che circondavano il vecchio impero dei Medi.

I cadaveri erano lasciati lì, come offerte agli Dei, condannati a decomporsi e ad essere divorati da corvi e avvoltoi.

Astiago si giró e la vide scendere in silenzio dalla collina. «Comandante, oggi organizziamo una festa per onorare la vittoria che abbiamo avuto sui Lidi» concluse respirando pesantemente a causa della sua stazza.

A voltarsi fu una donna dal viso giovane, ma dallo sguardo anziano. L'unica donna che aveva avuto il diritto di brandire una spada e guidare un esercito.
Sempre vestita con abiti in cuoio che le fasciavano il corpo, gli occhi verdi che spuntavano come gemme nel suo viso e una lunga treccia ramata che le dondolava sulla schiena.

«Bisogna aspettare che l'assedio finisca» fece notare uno dei soldati, raschiando dalle braccia alcuni pezzi di interiora.

La battaglia di Thymbra non era ancora ufficialmente conclusa, ma le sorti a loro favorevoli erano evidenti. Il re Creso si era rifugiato a Sardi, la capitale della Lidia, e a Ciro, il grande Re dei re, non restava che sfinirlo con un assedio.

«Qualche giorno e il regno cade. Non occorre tutta l'armata per farlo» rispose la donna. «Chi non serve può tornare a casa».
«Il nostro re cosa ne pensa?» domandò Dara, incrociando le braccia.

Tife guardò il soldato duramente. «Ho parlato personalmente con il re. Lui è d'accordo» non attese altre domande e continuò a scendere dalla collina, diretta al suo cavallo.
«Non resti ancora con noi? » le domandò qualcun altro a cui lei neanche prestò attenzione.
L'uomo le trotterellava vicino, cercando di scendere dall'altura con la stessa agilità del suo comandante, in attesa di una risposta. L'aria fredda d'inizio inverno non sembrava mitigare il tanfo insopportabile di tutti quei cadaveri marcescenti.

«No, torno a casa. Sono via da quasi sette anni», rispose fredda e concisa, senza neanche voltarsi.
«Se mi permetti, vorrei ricordarti che sei un soldato come noi e ad ogni soldato rallegra il poter festeggiare di essere vivi dopo ogni battaglia vinta» continuò Astiago, a fiato corto, terminando la discesa appoggiandosi sulla sua spalla con fin troppa familiarità.

Tife girò appena il capo, osservò l'enorme mano sulla sua spalla per poi puntare con astio l'uomo che aveva osato toccarla. «Non sono cose che mi riguardano». La mano fu tolta immediatamente.
«Scusami» sussurrò lui mestamente.

I due furono raggiunti subito dopo da Dara, che a discapito della sua giovane età, si stava pulendo con fin troppa abitudine le mani insanguinate con una pezza logora.
«Non importunare il nostro comandante, Astiago» parlò con un sorriso scaltro «lui è un uomo che non si dedica ai piaceri della vita».
A Dara non era mai piaciuto dover prendere ordini da una donna e come lui erano in molti a pensarla; con riluttanza le concedevano essere un abilissimo stratega e un soldato imbattibile.

Tife ignorò quella provocazione pungente. Si avvicinò ad Awerin, la sua giumenta, a cui accarezzò distrattamente il muso prima di estrarre la borraccia dalla borsa che l'animale portava attaccata al corpo. Bevve senza badare ai suoi commilitoni, era perfettamente conscia che, nonostante si fosse guadagnata quel ruolo con sudore, per molti non bastava.

Astiago era uno dei pochi uomini che non temeva di elogiare il suo comandante e di apprezzarne le virtù senza invidia. Tife si era meritata ampiamente il suo ruolo e se lo era guadagnato da sola con sudore e fatica. Sul campo di battaglia era in grado di scatenare una forza straordinaria, ben superiore a qualsiasi uomo e aveva salvato la vita a quasi tutti coloro che ancora non l'accettavano.

Astiago era certo che sotto quella corazza dura, fredda e inespugnabile si nascondesse il suo animo umano e comprendeva bene che dimostrarsi debole dinanzi ai propri soldati, date quelle premesse, era molto pericoloso.

Tife salì sulla sua giumenta, afferrò le redini e la spronò alla corsa. Aveva un lungo viaggio da affrontare.
«Credi davvero che stia tornando in Fenicia? Secondo me sta andando dal nostro re» ipotizzò Dara, toccandosi il cavallo dei pantaloni. «Fossi in Ciro non rinuncerei mai a scoparmela».

«Io non credo. Tife non si fa toccare da nessuno, la conosco abbastanza bene. Se fosse successo qualcosa perfino il nostro Re non l'avrebbe passata liscia. Ha spezzato il braccio di Jalil come un ramo secco, ricordi?»
Dara sembrò pensarci, guardando l'orizzonte dove la donna stava scomparendo «Sì, solo perché le toccó il culo. Ma parliamo del nostro Re, lui.... »

«E io parlo di quella che i nostri nemici chiamano "dea della guerra". Quando le rivolgi la parola, ragazzo, ricordati sempre di questo. Sei con noi da poco, ma impara in fretta chi devi rispettare...»

Astiago salì sul suo cavallo e raggiunse il suo generale. «Noi siamo diretti a Tapsaco. Se vuoi puoi venire con noi».
«Non voglio una scorta» fu la risposta secca.
«Siamo noi che vogliamo essere scortati da te» sorrise. Tife lo guardò dubbiosa, ma accettò i suoi compagni senza troppo entusiasmo. Il viaggio sarebbe stato lungo, dopotutto della compagnia
poteva sopportarla.

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