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Parte 3

Alec afferrò il giubbotto di jeans lasciato sul letto, si diede un'ultima occhiata allo specchio e si accorse che aveva dimenticato l'orologio. Lo cercò subito per la stanza, poi riuscì a trovarlo in un cassetto. Non aveva idea di come fosse finito lì dentro, ma sapeva che dopo l'ultimo incontro ravvicinato con David era inutile farsi domande. Quando stavano insieme non capiva più nulla, il tocco delle sue mani, delle sue labbra, la stretta delle sue braccia gli annullavano la volontà. Il sangue gli affluì alle gote ricordandogli cosa avevano fatto l'ultima volta proprio su quel letto, che intravedeva alle sue spalle attraverso lo specchio. Sapeva, però, che l'orologio, regalo di suo padre per il diciottesimo compleanno, doveva indossarlo, altrimenti ci sarebbe rimasto male e gli avrebbe fatto una predica. Qualcosa sullo status symbol e la sua posizione sociale... Che noia.

Uscì dalla stanza. Dall'altro lato del corridoio c'era David, in piedi, pronto a iniziare la sua lezione. Gli rivolse un sorriso e, quando l'altro ricambiò, il battito del cuore accelerò come avrebbe fatto quello di un innamorato. No, si disse. Non doveva fare l'idiota. Per non vedere più gli occhi neri di David e la sua figura, si calò gli occhiali da sole sul viso. Suo padre lo attendeva nel centro di Madrid, su una delle terrazze più esclusive della città.

Alec attraversò le strade assolate del centro. Nonostante il tennis venisse giocato all'aria aperta, all'accademia si sentiva in parte rinchiuso, un animale in gabbia. Camminare per strada, mischiarsi alla gente, ai turisti, ai madrileni che si affaccendavano nelle incombenze quotidiane era diverso, era come tornare alla vita, e uscire dal mondo ovattato in cui suo padre e sua madre lo avevano rinchiuso.

La luce del sole, sul tetto dell'hotel che ospitava il bar, era addirittura abbacinante. Alec riconobbe subito suo padre, la sua figura rigida e allo stesso tempo carismatica, i capelli brizzolati e gli occhi verdi di cui lui aveva ripreso appena la sfumatura oliva. Il padre non si alzò nemmeno per salutarlo, aspettò che Alec si sedesse e solo allora gli poggiò una mano sul viso in un contatto fugace. Alec gli sentì addosso l'odore di aereo e affari che sempre emanava.

Doveva essere da poco arrivato da Londra, dove fino a poco tempo prima viveva anche lui.

«Allora, come va? Ho ordinato un drink analcolico per te» esordì suo padre.

Alec trattenne una protesta. «Al solito» si limitò a dire.

«Tutto qui? Io e tua madre spendiamo migliaia di euro all'anno, ti abbiamo mandato qui dall'altro lato della Manica – e non farti illusioni, tua madre ancora mi rimprovera come una chioccia di averla separata dal suo pulcino – e questo è tutto ciò che sai dirmi?»

Alec sorrise pensando a sua madre, al modo in cui lo capiva ancor prima che lui parlasse, al modo in cui, era certo, aveva anche capito che gli piacevano i ragazzi.

«Ci alleniamo alternando le mattine ai pomeriggi e, quando non ci alleniamo, studiamo, come abbiamo fatto negli ultimi due anni.»

Suo padre strinse le labbra sottili. «Questo già lo so.» Si interruppe quando il cameriere arrivò con le loro ordinazioni: un Martini per lui, un drink alla frutta per suo figlio. «Voglio sapere cosa pensi del coach e se c'è un ragazzo che ti darà problemi sul campo.»

Alec si bagnò le labbra con il drink. Il sapore fresco di ananas e di qualcos'altro che non sapeva definire gli arrecò sollievo. Un ragazzo che gli avrebbe dato problemi c'era, eccome se c'era, ma non nel senso che intendeva suo padre.

«Insomma!» Il padre perse la pazienza. «Avrò pure il diritto di sapere qualcosa di te e dell'accademia!»

«No, tu non vuoi sapere davvero qualcosa di me, tu vuoi solo realizzare i tuoi sogni attraverso di me» si lasciò scappare Alec. Se ne pentì quasi subito, appena suo padreserrò le mascelle. In fondo il tennis gli piaceva. Gli piaceva fronteggiare l'avversario, essere solo contro di lui e alla fine con se stesso, nonostante il pubblico sugli spalti.

Gli piaceva sentire sotto le piante dei piedi la diversa consistenza dei campi di erba, di cemento e di terra. Gli piaceva udire il tonfo della pallina, vedere la precisione con cui riusciva a scagliarla appena prima della linea che delimitava la fine del campo. Dritto, rovescio, ace. Amava tutti i colpi e tentava di perfezionarli, quando non era impegnato a guardare David che faceva lo stesso. Alec posò il bicchiere sul tavolino. Suo padre continuava a fissarlo e il silenzio tra loro era riempito solo dal vociare degli altri ospiti del bar. Alec avrebbe voluto dirgli ciò che gli agitava l'anima, avrebbe voluto essere sincero con lui.

«Non mi chiedi mai della mia vita sentimentale» disse.

Suo padre ingurgitò il Martini come per dimenticare qualcosa che lo aveva infastidito. «Rispetto la tua privacy. Non fanno così i genitori moderni?»

«Bugiardo» mormorò Alec, ma non a voce tanto bassa da non farsi udire. «Lo fai solo perché non ti piace ciò che potresti sentire.»

«Per favore...»

Alec incrociò il suo sguardo. Era così stanco di mentire.

Mentiva quando si diceva che David era solo una scopata, mentiva quando si diceva che non gli interessava quello che pensava suo padre, e ancora mentiva quando si convinceva che la sua vita privata fosse solo sua e che nessuno aveva il diritto di sapere che era gay. Nessuno ne aveva il diritto, ma lui voleva dirlo perché non c'era niente di cui vergognarsi.

«A me piacciono...» cominciò.

«Per favore» lo interruppe suo padre per l'ennesima volta.

«Perché non vuoi che sia me stesso?»

«Puoi essere te stesso quanto vuoi, ma non c'è bisogno di urlarlo ai quattro venti, e onestamente non ho neanche bisogno che tu me lo dica in faccia. Ho puntato tutto su di te, sul tennis, e non voglio che ti distragga con queste sciocchezze.»

Alec avvertì la rabbia affluirgli nelle vene, il sangue scorrere più veloce. Sciocchezze. Una parte fondamentale della sua vita era per suo padre una sciocchezza.

Si alzò.

«Bene, allora se è solo il tennis a interessarti, puoi consultare le classifiche e parlare con il mio coach. Non c'è bisogno che ci vediamo.»

Suo padre si alzò tra gli sguardi imbarazzati e curiosi di chi consumava il proprio aperitivo agli altri tavoli. Per un momento Alec credette che volesse domandargli scusa, ma ben presto capì che non lo avrebbe fatto: non era il tipo da ammettere i suoi sbagli.

«Ti chiedo solo di essere discreto e tenertelo per te» disse, infatti.

«Discretamente, papà, va' a quel paese.»

Non aspettò la sua reazione. Lasciò il bar esclusivo, costoso ma freddo esattamente come il rapporto con suo padre. E mentre camminava tra le strade di Madrid e si avvicinava all'accademia, percepì ancora la sensazione di essere rinchiuso in un mondo ovattato dove non poteva essere completamente se stesso.

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