98. Speranze di mezzanotte (Dylan VIII)
♫ The Chainsmokers, ILLENIUM - Takeaway ♫
La fissai e sperai.
Quella sera avevo passato tutto il mio tempo in attesa, al bancone del bar. Mi sentivo patetico.
Avevo promesso di starle lontano, che avrei sistemato tutto, eppure, non ci ero ancora riuscito. Lei avrebbe voluto che non la cercassi più e così avevo fatto... almeno all'inizio. L'ultima settimana era stata totalmente un'altra storia: nuovamente lì, perso mentre la sua figura si stagliava davanti ai miei occhi e mi ricordava quanto la desiderassi vicino. Era stupenda, come sempre.
Avevo rovinato tutto, lo sapevo. Avevo creduto di poter fare come più mi aggradava perché era naturale essere me, ma così l'avevo lentamente persa. Avevo scandito i tempi della nostra relazione senza consultarla, non avevo fatto altro che allontanarla e avvicinarla e respingerla così tante volte che non mi stupì per nulla di come lei si fosse stufata. Anzi, mi domandai come mai ci avesse messo così tanto per mandarmi al diavolo.
Ero stato un patetico codardo ancora una volta nella mia vita. Avevo lasciato che qualsiasi piccola interferenza potesse disturbare ciò che stavamo creando... ciò che lei era riuscita a creare dalle macerie che erano i miei sentimenti, senza mai veramente sfruttare la possibilità di parlarle con il cuore in mano. Perché?
Avevo paura. E quella paura, che era marchiata a fuoco nel mio animo, portava il suo nome.
Ordinai da bere. Se avessi potuto avrei desiderato assetarmi di autocommiserazione e rimpianto. Peccato che erano fuori menù.
Avevo provato a tornare alle vecchie abitudini: le mie care amiche solitudine e indifferenza all'apparenza non mi avevano mai abbandonato, ma all'interno del mio animo era tutta un'altra storia: si celava una tempesta inspiegabile. Non ero mai stato bravo a mettere insieme parole che creassero un discorso di senso compiuto, figurarsi il riuscire a esprimere quelle sensazioni. Preferivo ragionare, o meglio, non ragionare affatto e agire! Ero sempre stato molto più bravo con le azioni... e chissà forse sarebbe stato il momento di entrare in scena. Credevo di essere stato anche fin troppo esplicito, si vedeva, diamine, si vedeva tantissimo quanto fossi interessato! Eppure, avrei potuto fare di più, avrei dovuto fare di più... avrei dovuto capirlo prima.
Nei film accadeva sempre che il protagonista riuscisse a trovare le parole giuste al momento giusto e mi tormentavo sul perché non potesse essere così semplice anche nella vita reale. Doveva per forza essere presente la clausola di "mancato tempismo" una volta venuti al mondo?
Ed ero così maledettamente arrabbiato con me stesso per non essere riuscito a cambiare il mio destino solitario facendolo intrecciare con il suo. Amare era il verbo più usato in tutte le letterature internazionali fin dalla notte dei tempi, eppure, mi tremavano le gambe solo al pensiero di usarlo.
E se lei non avesse accettato il mio cuore? E se io non avessi avuto cura di trattare bene il suo?
Era quello a cui pensavo tutto il tempo da dentro la mia armatura di uomo ferito da un colpo autoinflitto.
E, mentre mi torturavo con pensieri a cui non ero riuscito a darmi risposta, mi accorsi di come anche lei mi stesse scrutando. Non riuscii a cogliere il momento esatto in cui aveva iniziato, poiché perso tra i pensieri. Rimasi attonito. La fissai senza fare un benché minimo movimento, come se avessi paura che un qualsiasi spostamento d'aria avesse potuto farle cambiare idea e volgere il suo sguardo altrove. Non volevo spaventarla. Neanche io sapevo cosa avrei dovuto fare. Nel più silenzioso degli istanti decisi che avrei raccolto il mio coraggio per provare l'ultimo drammatico gesto: invitarla al mio fianco.
Stringevo in una mano il bicchiere ripieno di alcool e spensieratezza che sembrava chiamarmi: dovevo bere, dovevo farlo per potermi permettere di fare la stronzata che avrei rimpianto nell'ora successiva.
Il suo sguardo sviò i miei occhi solo per qualche attimo, al contempo io non la persi mai di vista mentre parte della linfa alcolica scorreva nelle mie fauci.
Mi sembrò all'improvviso la scelta più ovvia, tra tutti i miei pensieri, assecondare l'unico che avrebbe potuto ferirmi. In quei pochi istanti ero giunto alla conclusione che in quel miserabile locale di periferia non mi interessava nient'altro che lei. Accanto a me, il prima possibile.
Posai il bicchiere ancora freddo sul legno del bancone e, indicando con lo sguardo lo sgabello al mio fianco, la invitai a unirsi a me. Sapevo quanto fosse audace la mia scelta, ma non avevo potuto farne a meno... non se mi guardava con gli occhi pieni di dolcezza e stupore.
Schiuse impercettibilmente le labbra interdetta, ma non si mosse.
Alea est. Il dado è tratto.
Non avrei potuto fare altro. Mi voltai dandole le spalle perché non volevo sapere cosa il destino mi avrebbe riservato, o almeno non ancora. Avevo sempre adorato le sorprese, anche se ero sicuro che non avrebbe accettato. In fondo, non ne aveva alcun obbligo.
Con quella mossa mi accaparrai il titolo di egoista del reame, ancora una volta. Quella sera non solo la fissai, ma sperai.
Osai sperare che tornasse da me.
E, come ogni egoista che si rispetti, me la diedi a gambe levate quando mi resi conto che il posto accanto al mio sarebbe rimasto vuoto per il resto della serata. Sapevo di aver agito fin troppo impunemente. Raccolsi il mio povero ego ferito e serrai i pugni, lasciando il locale con una scia di risentimento e frustrazione: mi ero buttato tra le fiamme e ne ero uscito più bruciato di quanto avessi calcolato.
***
Appena messo piede fuori dal locale mi imbattei in Nathan ed Emma intenti a pomiciare. Fui abbastanza combattuto sull'interromperli o meno.
Alzai il dito indice spalancando la bocca come solo un pesce lesso poteva fare. Affilai lo sguardo quando mi resi conto che non erano proprio intenzionati a guardare intorno a loro. Abbassai la mano filatamente, magari nessuno aveva visto quella scena, iniziando a tossire. La mia voce doveva sembrare più profonda e non simile a quella di un bambino a cui erano state negate le caramelle dopo cena.
«Ehm... Dylan?» Nathan aveva le pupille dilatate. Strabuzzò gli occhi fermando Emma dal continuare ad accanirsi su di lui. La ragazza si guardò attorno sbigottita per poi sorridermi felicemente e posizionarsi tra le braccia del suo amato facendosi scudo con il suo giubbetto.
«Scusate dell'interruzione ragazzi, volevo solamente avvisarvi che vado via. Non aspettatemi! Cioè ovviamente chi dovrebbe aspettarmi... devo andare, ecco. Ho sonno, sì, tanto sonno. Domani sarà una giornata produttiva. Devo alzarmi presto, lo sapete. Il lavoro anche, come no. Certo anche voi lavorate. Quindi...» Lo sapevo, stavo rovinando tutto. Erano storditi e probabilmente era proprio quello che la mia voce stava facendo. Forse avrei dovuto solamente darmela a gambe levate, tanto sia Margot che Matt erano a conoscenza della mia fuga repentina.
«Tutto bene, Dylan?» domandò Emma grattandosi il naso sulla punta. Probabilmente stava iniziando a sentire freddo. Non volevo mentirle. Perciò scrollai le spalle. Quel gesto avrebbe potuto significare tutto o niente, volevo giocarmi il beneficio del dubbio.
«Oookay. Credo che sarebbe meglio parlarne a casa, dai ti accompagno.» Nathan si promulgò di aiutarmi, ma non era necessario.
«Vado a piedi, non preoccuparti, avrei bisogno di camminare. Parleremo domani.» Mi avvicinai per dargli un buffetto sulla spalla, mentre il mio viso si adornava con un sorriso sincero. Lui c'era sempre per me.
«Mi dispiace di avervi disturbato, continuate a fare quello che stavate facendo come se io non avessi interrotto nulla, mi raccomando! Prometto che tornerò a casa sano e salvo!»
«Sarà meglio per te! Altrimenti verrai fatto a pezzi dalla sottoscritta!» Una cosa era certa: Emma metteva più paura di qualsiasi possibile malvivente.
E fu così che passarono chissà quanti giri di orologio prima di poter visualizzare davanti ai miei occhi il giardino di casa. Il prato inglese lucente era il manto perfetto che rispecchiava il flebile bagliore della luna fino a crearne un disegno magico sul pelo liscio dell'acqua di piscina. Non mi ero mai fermato a osservare quel posto di sera, troppo sovrappensiero o troppo stanco. Eppure, non mi sembrava ci fosse niente di più calzante in quel momento.
Forse era solo l'effetto del poco alcool che avevo in circolo, ma iniziai ad avvicinarmi al bordo di quel parallelepipedo d'acqua. Slacciai via le sneakers per poter immergere i piedi al suo interno, sedendomi a bordo a vasca.
Buttai la testa all'indietro con lo scopo di intravedere la luna e le stelle. Non era paragonabile alla vista dai monti di Hollywood, ma non aveva molto da invidiare.
Mentre nella mia testa riaffiorarono ulteriori ricordi, avvertii distintamente il rombo di un'auto entrare nel viale per poi fermarsi proprio dinanzi la proprietà di mio cugino. Afferrai calze e scarpe con una sola mossa, uscendo il più velocemente da quella piscina lasciando ai miei piedi il formarsi di una piccola pozzanghera.
Quella che si palesava ai miei occhi non era un'auto qualunque: era il maggiolino rosso di Emma.
«Dylan! Dylan sei tu?» Un'affannata Lilian ne uscì dall'abitacolo, riuscendo a malapena a chiudere la portiera con l'obiettivo di precipitarsi tra le mie braccia. Stavo forse sognando? Avevo per caso espresso un desiderio mentre qualche stella cadente passava sopra il mio capo?
Alzai gli occhi al cielo per capire se la Via Lattea avesse un qualche merito, ma la verità era che non lo avrei mai saputo. Ingoiai la poca saliva rimasta: il nodo alla gola stava divenendo sempre più tangibile.
Non ero più nel locale, circondato da luci psichedeliche e fiumi di alcol; in quel momento ero completamente spoglio di qualsiasi tipo di protezione, nella mia stessa casa. E lei era lì. Per me.
«Lilian? Perché?» domandai di getto. Misi due passi in avanti, ma mi bloccai quando notai ella retrocedere. Sembrava scossa e preoccupata. Cosa avrebbe potuto turbarla tanto? La mia assenza? Assolutamente no, anche se il pensiero di ciò mi diede speranza.
Si bagnò le labbra ponendo una mano innanzi come a volersi dare del tempo. Indagai con lo sguardo per carpire qualche altra informazione, ma non ne ricavai nulla di più di quanto non avessi già appreso al locale. «Riguarda Kobe, sono qui per parlarti di Kobe!»
E con lo stesso suono con cui pronunciò quelle parole, anche parte delle mie speranze andarono in frantumi.
Continuai a fissarla... ma senza più speranza alcuna.
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