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76. Giri immensi

Grace - You Don't Own Me ft. G-Eazy ♫

Stavo riordinando i documenti di Lynch da un tempo infinito.

Quel pomeriggio mi era toccato svolgere la mia funzione di assistente, sostituendo e coprendo Dylan, il quale mi aveva alleggerito il lavoro di fin troppi turni.

Presto si sarebbe tenuto l'incontro con il rettore che avrebbe segnato il suo futuro prossimo. Erano passati un paio di giorni da quando era stato dimesso dall'ospedale. Lui diceva di stare bene, ma lo stesso non poteva essere detto della nostra relazione. Non avevo la benché minima idea verso che rotta puntasse: probabilmente la mia nave era salpata per dirigersi verso le colonne d'Ercole e mai più far ritorno.

Frizionai i fogli che si trovavano nella cartellina rossa contandoli uno a uno. Utilizzavo il pollice umidificato per avere maggiore presa sulla carta e, mentre la mia bocca pronunciava numeri in sequenza, ripensavo alla conversazione che avevo avuto con Emma.

L'avevo informata di come stessero procedendo le cose, di Dylan e dell'incontro che si sarebbe tenuto nel tardo pomeriggio nello studio del rettore.

Avevo reso Emma consapevole della festa che si sarebbe tenuta entro due giorni. Sembrava fiduciosa del fatto che avremmo avuto la nostra occasione quanto prima. Si stava impegnando per trovare almeno una seconda prova schiacciante. Ce la stava mettendo tutta ed io mi fidavo di lei, tant'è che mi aveva promesso che presto mi avrebbe contattata dandomi una buona notizia, ma che per il momento non avrebbe potuto aggiungere altro. Chissà in che guai si stava cacciando.

Mi resi conto di sfogliare più e più volte le pagine senza prestare particolare attenzione ai numeri che pronunciassi. Avrei dovuto iniziare tutto da capo e mantenere la lucidità per almeno cinque minuti di fila.

E così feci.

«Centocinquanta e due fogli!» Annunciai trionfante pronta per la revisione dei conti del primo trimestre di una azienda dal nome impronunciabile. Ma non prima di una pausa.

Sarebbe stato meglio sgranchirmi le gambe, continuando in un secondo momento. L'opera, d'altronde, era quasi conclusa.

Mi portai in corridoio, dopo aver chiuso a chiave lo studio, sporgendomi dal parapetto per intravedere la vita che scorreva tra le file di studenti che si stavano apprestando a tornare a casa. L'aria primaverile era pressante contro le mie narici. Un leggero venticello lambiva la mia pelle, spostandomi i capelli su una spalla, mentre dalle finestre filtrava la luce aranciata, sinonimo di un tramonto morente.

Mi abbandonai così a quella natura che stava facendo il suo corso. Socchiusi gli occhi, beandomi dei silenzi e degli schiamazzi alternati, fino a che una voce familiare non mi fece ritornare alla realtà. Il richiamo sembrava provenire da non molto lontano.

Iniziai convulsivamente a ricercare la direzione da cui proveniva quella voce che aveva urlato il mio nome, il mio secondo nome. E fu così che li scovai, i coniugi O'Brien con Dylan al seguito, salire le scale per giungere... verso di me?

«Oh, signora... Lyanna! Che bello vedervi qui! Signor O'Brien.» Andai incontro senza pensarci due volte. Il sorriso della madre di Dylan era così rassicurante.

«Tesoro, ora che ti abbiamo finalmente trovata siamo pronti per andare, l'avvocato ci starà aspettando!» Lyanna si avvicinò sorprendendomi con un abbraccio, per poi rivolgersi agli uomini della sua vita chiedendo quale fosse la via per raggiungere l'ufficio di Ferguson.

Mi fermai all'istante processando le informazioni appena fornitemi. Dylan non sembrava avere intenzione di sciogliere i miei dubbi e non aveva avuto neanche l'accortezza di avvisarmi del loro arrivo. Semplicemente si limitava a mirare avanti a sé, nascondendo i suoi occhi nocciola sotto la visiera di un cappellino logoro dei METs.

«Mi scusi... cioè, Lyanna, scusami, ma penso che questa faccenda riguardi solo voi, la mia presenza non è necessaria.» La voce tremava per quella constatazione. Avevo paura che fossero arrabbiati nei miei confronti perché l'unico motivo per cui Dylan era nei casini era a causa mia. Aveva picchiato uno psicopatico per difendere il mio onore.

La signora O'Brien si voltò stordita sorridendomi come se stessi dicendo delle bazzecole. «Suvvia, cara, fai parte della famiglia dal momento in cui il nostro Dylan ti ha presentato a noi come la sua fidanzata, perciò non devi temere niente. Sono fermamente convinta che la tua presenza possa essere solo di giovamento e che Dylan apprezzerebbe il tuo supporto in ogni caso. Per caso ti senti... colpevole?» Spalancai le palpebre colta impreparata su più fronti. Dylan mi teneva ancora sotto scatto con quella sua bugia. Erano passate quasi due settimane e ancora non aveva rivelato la verità. I miei occhi si scontrarono con i suoi da dietro le spalle della donna. Abbassò lo sguardo prima che potessi anche solo fare un cenno.

«Nathan mi ha informato che ti senti responsabile solo perché Dylan ha preso le tue difese. Non giustifico la violenza in nessuna sua forma, eppure, penso che qualcuno che ci prova con ragazze impegnate sia deplorevole.» Mi morsi la lingua. Ancora bugie. «Nathan è un ragazzo d'oro, ci ha informati ogni ora delle condizioni di Dylan e, grazie a lui, siamo riusciti a combinare questo incontro. Il nostro volo è atterrato solo mezz'ora fa. In quei due giorni ci siamo barcamenati tra lo studio legale e l'azienda per impugnare un ricordo o fare appello nel caso Dylan dovesse subire delle conseguenze irreparabili. E credimi, signorino, te lo meriteresti. Possibile che non riesci a stare lontano dai guai neanche con accanto una così posata ragazza?» Lyanna rivolse a suo figlio uno sguardo pieno di rimprovero come se fosse ancora un bambino da sgridare, a cui era necessario far capire la differenza fra bene e male. Dylan era stato messo all'angolo.

«Quindi, cara, verrai con noi?» la signora O'Brien mi sorrise nuovamente e, notando in me una nota di stupore mista a indecisione, decise di percuotere con i gomiti entrambi gli O'Brien al suo fianco.

«Ci farebbe piacere la tua presenza» borbottò David, il padre di Dylan. Intuendo che fosse ciò che la moglie avrebbe voluto.

«Ma se ti ho portato io da lei! Certo che vorrei che venisse!» Il "bambino" si rivolse alla madre infastidito per l'essere stato chiamato in causa. «Mi hai fatto male con quella gomitata, sono ancora in convalescenza! Mi hanno detto assoluto riposo per una settimana.»

Lyanna girò sui tacchi sbuffando contenta di aver ottenuto la sua vittoria. Si incamminò verso il corridoio precedentemente indicatogli da Dylan. «Tesoro per quanto ti ami, non credere che ci andrò piano con te. Sei in punizione, lo sai. È il minimo dopo l'incidente.» David osservò il figlio con sguardo compassionevole. Alzò le spalle seguendo sua moglie a ruota.

«Punizione?!» Dylan urlò in tutte le direzioni, squadrandomi da capo a piedi e incitandomi a seguirli. Mi mossi nella loro direzione per non rimanere indietro. «Ma mamma, non puoi farmi questo! Non sono un bambino!» Dylan aveva recuperato terreno, stava insistendo davvero tanto affinché non ci fosse nessun castigo all'orizzonte.

«Eppure, ti sei comportato come tale. Per questo, dato che devo tenerti sotto controllo per un po' io e tuo padre avevamo pensato di ritirarti dall'università per qualche settimana così che tu possa tornare a casa. Capirai cosa voglia dire vivere da adulto e la prossima volta ci penserai due volte prima di compiere atti sconsiderati!» Dylan spalancò gli occhi completamente inebetito. Gesticolava maldestro provando a comprare l'affetto di sua madre. «Non mi puoi rispedire a casa, non ora! Farò tutto ciò che vuoi!». Strinse i pugni ai lati del suo corpo, mentre i tendini del collo mi davano una visuale chiara della sua frustrazione.

«Tutto?» rincarò la dose, Lyanna, sospirando rumorosamente. Dylan incurvò le labbra in un sorriso di consapevolezza. Forse sua madre lo aveva voluto incastrare fin dall'inizio. «Allora sarà bene che chiami il sarto per aggiustare l'orlo del tuo abito da cerimonia in tempo per il matrimonio.» La donna sorrise caparbia, consapevole di aver ottenuto ciò che desiderava.

«Ma avevi detto che potevo anche non esserci! Perché hai cambiato idea, mamma!?» protestò il moro. Non avevo la minima idea di cosa stessero discutendo.

«Perché sei mio figlio e ti ho quasi perso, di nuovo, perciò vorrei che passassi quanto più tempo possibile con noi. Hai ragione, non posso obbligarti a tornare a casa, ma almeno questo semplice favore potresti farmelo? Sono tua madre e non voglio morire di crepacuore prima del tempo.»

La sua argomentazione era inoppugnabile. Persino Dylan smise di combattere, arrendendosi alla veridicità delle sue parole. L'avrebbe accontentata per vederla felice. «Non ti preoccupare, Lilian, ovviamente tu non sei obbligata a essere dei nostri. Dylan mi aveva già anticipato che avresti passato il fine settimana ad Aspen con la tua famiglia, invece che raggiungerci al matrimonio di Hyna. Perciò non ti preoccupare.»

La guardai interrogativa «Hyna si sposa? Il suo matrimonio?» domandai stranita. «Aspetti un attimo... Aspen?» aggiunsi poco dopo rendendomi conto che fossero altre bugie. Dylan si portò una mano sul volto intimandomi con uno sguardo di reggergli il gioco.

«Il matrimonio del capo reparto per le comunicazioni interpersonali. La donna che ha fatto le nostre veci durante la visita. Dylan mi aveva comunicato che non saresti potuta essere presente a causa di quel viaggio, sbaglio forse? Il legame famigliare è qualcosa di indissolubile.» Lyanna scrutò il figlio accarezzandogli una guancia. Notai come le orbite divennero più lucenti: forse avrebbe presto pianto. Dylan, d'altro canto, si mostrò contrariato per tale presa di posizione. Era chiaro come il sole che aveva utilizzato alte menzogne pur di evitare il nostro coinvolgimento.

«No, sì, certo. In realtà, è stato tutto rimandato a data da destinarsi. Mi era passato di mente, ecco. Perciò sarei disponibile e mi farebbe piacere essere dei vostri se l'invito è ancora valido.» Sorrisi a tutta la famiglia. Non sapevo neanche io perché avessi riposto in quel modo.

«Davvero?» in contemporanea madre e figlio mi domandarono la stessa cosa. Chi con tono entusiasta e chi seriamente dubbioso. Dylan aveva gli occhi fuori dalle orbite per la frustrazione.

Probabilmente avevo accettato poiché adoravo i matrimoni o molto più semplicemente perché non avrei permesso a Dylan di decidere per me. Non mi sarei allontanata solo perché lo aveva deciso lui al mio posto ed io ero più che intenta a riconquistare la sua fiducia.

«Adoro i matrimoni!» mi giustificai.

«Perfetto, che bello sarà avervi tra una settimana a Stanford per tutto il weekend! Devo avvisare la colf, che preparasse tutto per tempo!» Lyanna sprizzava felicità da tutti i pori, mentre camminava per raggiungere l'ufficio del rettore. David aveva annuito non prestando particolarmente attenzione a ciò che era successo. I risultati finali sarebbero stati più che sufficienti a dargli il ricapitolo di cui aveva bisogno. Il campo relazionale non era decisamente il suo forte: era sua moglie che intratteneva le conversazioni.

Giunti davanti la porta con la targhetta metallica laccata in oro, facemmo la conoscenza dell'avvocato Bayles. Era un uomo sulla quarantina, di quelli che si vedevano nei film anni quaranta con i capelli portati leccati all'indietro e lo sguardo profondo. Sicuramente sembrava essere un professionista del settore: intorno la sua figura aleggiava un'aria di superiorità arricchita dalla fila di denti più bianca che avessi mai visto. E, mentre gli adulti si intrattennero davanti l'atrio d'ingresso, io decisi che mi sarei seduta su una delle numerose sedie in legno disposte attorno al perimetro dell'anticamera.

Posai la nuca contro il muro alle mie spalle, socchiudendo gli occhi. Avrei aspettato. Ancora.

Avvertii del movimento attorno a me, cosa che mi costrinse a prestare attenzione a ciò che stava accadendo. Qualcuno ne aveva approfittato per accomodarsi al mio fianco e mi stupii scorgere Dylan intento a fissarmi da sotto la visiera. Aveva scelto di starmi vicino nonostante ci fossero un'alta decina di sedie libere.

Rimasi imbambolata e ammutolita. Lui fece altrettanto, distogliendo lo sguardo e levando il berretto mantenuto stretto fra le dita.

Aveva appena abbassato anche l'ultima difesa che aveva nei confronti del mondo esterno.

Spalancai le palpebre notando il vero motivo per il quale aveva deciso di indossare il capello da baseball. Un'enorme cicatrice percorreva e squarciava la cute della sua fronte, spostandosi del basso verso l'alto e sfiorando il sopracciglio. Altre escoriazioni erano ben visibili sulla carne. Rosse erano le ferite che si sarebbero rimarginate solo con il tempo. Dylan mi studiò con la coda dell'occhio cercando di decifrare i miei pensieri. Abbozzando un sorriso decise che fosse l'ora di nascondere quei segni sulla pelle scombinandosi i capelli e facendoli cadere selvaggi sulla fronte.

«Non è niente di che, non fa neanche male.»

Scossi il capo. Mi ero forse immaginata la sua voce?

Non feci in tempo a proferir parola che la pesante porta in mogano, dell'ufficio di Ferguson, venne aperta mostrandoci varie figure uscirne: Richard, i suoi genitori, il suo avvocato e... Stephan. Avevo l'amaro in bocca. Non solo era tornato da lui, ma lo stava anche aiutando?

Stephan non ebbe il coraggio neanche di fissarci negli occhi, cosa che invece fece Richard con tanto di orgoglio. Era lontano qualche metro, eppure, la distanza non era abbastanza: il suo ghigno soddisfatto era fin troppo visibile. Nasceva su un volto tumefatto che presentava un grande alone viola tutt'attorno l'orbita sinistra.

Dylan si alzò di scatto dalla sua seduta come fosse un animale e avesse avvertito il pericolo. Mi parai improvvisamente davanti a lui per paura. Non sapevo se sarebbe stato in grado di sopprimere la rabbia.

Fermai la sua, altrimenti inarrestabile, corsa ponendogli i palmi sul petto e sospingendo delicatamente affinché facesse un passo indietro. L'aria era carica di elettricità e tensione, rimanendo tale fino a che il biondo non fuoriuscì dal nostro campo visivo.

Solo allora mi rilassai tornando a concentrare tutta la mia attenzione verso Dylan.

Lo trovai a scrutarmi da capo a piedi con un cipiglio sul volto. Era disgustato dalla visione fornita dai suoi occhi. Scosse il capo avvicinandosi ai suoi genitori e lasciandomi indietro.

Mi convinsi che a quel punto Dylan non gradisse più la mia presenza. La sola vista di Richard lo aveva riportato alla cruda realtà. Avremmo potuto fare immensi giri di parole e gesti, ma la verità era che non fosse pronto a perdonarmi.

E, ad essere onesta, non mi sarei perdonata neanche io.

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