64. Sensi di colpa (1/2)
♫ Ruelle - War of Hearts ♫
Nathan si era offerto volontario nel trasportare il borsone contenente il necessario per i giorni a venire. Non aveva lasciato la mia mano neanche un istante, dandomi la forza che mi mancava, mentre entravamo nel suo salone senza fiatare e con lo sguardo fisso verso il vuoto.
Ero in silenzio da così tanto tempo, che non sapevo neanche se fosse necessario parlare. Le luci erano basse e il posto vuoto, perciò non avevo bisogno di trattenere le lacrime che scorrevano sul mio volto secondo gravità. Nathan non mi avrebbe mai giudicata.
Ritornai a respirare quando i suoi polpastrelli sfiorarono il mio volto, costringendomi dolcemente ad alzare lo sguardo verso di lui. Da quelle iridi cristalline traspariva preoccupazione mista a sollievo: forse stavo solo constatando la mia reattività.
Tirai su un angolo della bocca, non volevo farlo impensierire più del dovuto. Avrei potuto condividere la verità che mi stava corrodendo dentro?
No, non potevo assolutamente. Il gioco perverso di Richard sarebbe terminato, proclamandolo vincitore. E io avevo troppa paura delle conseguenze disastrose.
Avevo due scelte: continuare come se nulla fosse o gettare la mia vita in pasto ai cani. Per non parlare del dolore che avrei portato nella sua vita e in quella di Dylan...
In nessuno modo ne saremmo usciti indenni.
«Lilian, cosa ci fai qui?» Era lui... era la sua voce ed era in casa. Volsi il mio sguardo nella sua direzione. Il tono era sempre lo stesso di quella mattina: freddo e calcolato. Misurato nel non emettere una nota d'emozione di troppo. Lo individuai in procinto di scendere le scale, interrogandomi su come i suoi pensieri si fossero evoluti in quelle poche ore.
Notando il mio viso scarno, segnato e l'assenza di emozioni, Dylan mutò drasticamente espressione. Sbarrò gli occhi serrando le labbra in una linea dura prima di bruciare la distanza tra di noi con pochi, ma veloci passi. Corrugò la fronte avvicinandosi cauto. Ogni passo che compiva era un battito del mio cuore che saltava.
«Dylan, no. Non è il momento. Amanda starà con noi per qualche giorno e...» Il moro non prestò attenzione a nessuna delle parole pronunciate dal cugino. Semplicemente agguantò il mio corpo fragile come se fosse la cosa più naturale del mondo, racchiudendo la mia figura tra le braccia. Nathan si spostò di qualche passo per darci il giusto tempo. Non c'era ostilità in quelle attenzioni.
Mi lasciai andare, cedendo alle pesanti palpebre e singhiozzando come stavo ormai facendo da tutto quel pomeriggio. Dylan mi strinse a sé ancor di più, serrando i pugni dietro la mia schiena, mentre mi concedeva come caldo appiglio il suo torace. Inspirava profondamente e in maniera irregolare. Potevo distinguerlo nitidamente: la sua bocca era a pochi millimetri dal mio orecchio.
Avevo bisogno di lui in quel momento e per quelli a venire; avrei voluto la sua presenza nella mia vita per quella notte e per tutte le successive.
Lui aveva sempre avuto ragione... ragione su tutto. Su Richard, su di me. Mi pentivo amaramente di non aver mai provato a credergli, quando tutto quel dolore era solo uno dei milioni incerti futuri.
Si distaccò per mirare dritto nei miei occhi. Aveva la mascella serrata e lo sguardo perso nei suoi stessi pensieri. Non c'era bisogno di parlare e lui non aveva intenzione di chiedermi cosa fosse successo. Qualsiasi fosse la causa del mio star male, lui avrebbe provato a proteggermi da esso in ogni caso.
Ma io potevo ancora fissare quelle iridi nocciola e non rivelargli la verità che avrebbe corroso le nostre vite?
Una fitta di dolore attraversò il mio petto, costringendomi a piegare in avanti e scostandomi da Dylan: mi stava bruciando l'anima.
Sapevo che il senso di colpa mi stava divorando. Non potevo essere talmente egoista da pensare di poter ricevere compassione da qualcuno che stavo silenziosamente pugnalando alle spalle.
Il moro mi tenne ben salda per evitare una rovinosa caduta.
«Dylan... saresti così gentile da preparare una stanza per Amanda? Ci penso io qui.» Il moro mosse i suoi occhi da Nathan per scrutarmi un'ultima volta, come se volesse assicurarsi che fossi capace di sorreggermi. Prima di allontanarsi aspettò un mio cenno. Probabilmente sembravo più fragile di quanto credessi. Come un albero che non riusciva a sostenere la forza del vento. Avevo passato le ultime ore in mezzo la bufera, chissà come ne sarei uscita.
Quando capì che non ci fosse alcun rischio di caduta, Dylan arretrò consapevole verso il piano superiore, in cerca di lenzuola pulite e cuscini. Ero sicura avrebbe reso la stanza degli ospiti il più confortevole possibile. Mi venne da sorridere constatando che nessuno avrebbe immaginato che sarei nuovamente ripiombata qui, scombussolando la sua esistenza con estrema velocità... e sarebbe stata la cosa più naturale del mondo.
Come api attratte dal miele non facevamo che ronzarci attorno.
Non c'era alcuna legge assoluta a testarlo, eppure, l'imprevedibilità ci legava l'uno all'altro come due calamite che sfidavano il proprio campo di gravità: delle volte così uniti e altre mai così lontani.
«Ti preparo qualcosa da mangiare e poi ti porto in camera.» Nathan mi sorrise molto dolcemente. Mossi a malapena le labbra per poterlo ringraziare e quello che ne ricavai fu il viso del mio migliore amico illuminarsi di gioia.
***
Ero sotto le coperte da più di una decina di minuti. Nathan si era personalmente assicurato che fosse tutto in ordine. Ancora una volta Dylan mi aveva lasciato il suo letto, perché pensava fosse molto meglio dormire in una stanza a me familiare rispetto al freddo locale dove aveva passato la sua ultima notte. Lo avevo ringraziato evitando il suo sguardo, nuovamente.
Mi rivoltai e rigirai più volte cambiando altrettante posizioni con l'unico obiettivo di trovare quella che più mi conciliasse il sonno. Ciò che la mia mente faceva, però, era boicottarmi facendo riemergere immagini e ricordi. Eventi passati e altri immaginari.
Avevo la figura di Richard impressa a fuoco sulla retina. Lui che pareva il principe azzurro mi aveva distrutto... insieme a lei. Emma. Mi faceva male solo ripensare al suo nome e a come lo pronunciavo prima di quel momento. Rivedevo i suoi occhi azzurri e la figura perfetta, mentre le affidavo le mie fragilità e i miei segreti più profondi. Probabilmente non ero stata capace di conoscerla veramente, non capendo fino a che punto il suo volermi bene fosse reale. E ne stavo pagando le conseguenze.
Era una sconosciuta. E potevo solo incolpare me stessa per non averlo voluto vedere.
Ogni nuova posizione tra le coperte, era segnato da un pensiero intrusivo e tormento su Richard: le sue parole o i suoi gesti. Era una persona spregevole e spietata... ed io ci ero cascata con tutte le scarpe. Avevo creduto alla sua sceneggiata quando fin da sempre era lui il carnefice. Ed era solo colpa sua se Dylan...
Mi voltai dall'altro lato acchiappando il cuscino le mani. Le mie unghie infilzavano l'imbottitura, ma non era abbastanza per costringermi a smettere di torturarmi.
Io volevo solo dimenticare. Resettare il mio cervello a quella mattina quando il mio problema più grande era come trovare le parole per spiegare a Richard che avessi iniziato a provare qualcosa per qualcuno che non fosse lui. E anche in quell'occasione mi ero dimostrata essere una sciocca ragazzina che avrebbe provato a sistemare la situazione nel modo più pacifico possibile. Chissà fin dove sarei arrivata per mantenere immacolata la mia stupida integrità sentimentale e morale.
Forse era meglio così. Scoprire la verità mi aveva aiutato a sbarazzarmi della zavorra che mi portavo inconsapevole. Avevo capito su chi avessi potuto contare e chi abbandonare poiché non degno della mia fiducia. Non sarei incorsa più in alcun pericolo senza di loro. Sarei stata bene senza alcun dubbio. Lo sapevo, eppure...
Perché faceva così male?
Alla fine decisi di aprire gli occhi bloccando quel mio patetico tentativo di psicanalizzare la mia stessa situazione. Non ne potevo più del rimuginare del mio cuore afflitto.
Segno del destino, ma cosa scorsi non fece altro che aumentare il peso sul mio petto e attanagliare il mio respiro. Niente di più di un trancio di parete azzurra, niente di meno del momento in cui avevo toccato il cielo con un dito.
Lasciai che i ricordi prendessero il sopravvento ancora una volta ritornando a ventiquattro ore prima, quando Dylan era lì. Mi sentivo inevitabilmente compromessa a causa delle sue parole, del suo tocco e delle sue labbra. Mi morsi l'interno della guancia per evitare di continuare a fissare quella parete, abbassando fin da subito le palpebre. La mia saliva aveva un sapore ferroso.
Non ero riuscita a cogliere il momento quando avrei potuto ed era decisamente troppo tardi per quello.
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