40. Fascicoli da archiviare
♫ Zayde Wolf - Built for This Time ♫
Era stato deciso dal fato che quel lunedì mattina sarebbe stato infernale. E cosa c'era di peggio che iniziare la settimana maledicendo il giorno in cui ero venuta al mondo?
Come mio solito ero di fretta e il disastro dietro l'angolo: la cioccolata calda che avevo ordinato al bar di fronte l'università era colata a picco su golfino di lana finissima. Come avessi fatto a inciampare sui miei stessi passi sarebbe rimasto un mistero per sempre, come il motivo per il quale la vittima sacrificale non mi aveva ancora inveito contro.
Quando levai gli occhi verso la figura maschile davanti a me, sbiancai di colpo. La bocca divenne arida e incapace di pronunciare parole di senso compiuto. Vomitai le mie scuse per paura di una ritorsione severa.
Doveva essere tutta colpa del jet lag. Sì... solo quello.
«Suvvia, signorina Peterson, è stato un incidente. Non ne faccia una tragedia» mi consolò l'anziano professore scostandosi di poco l'indumento dalla pelle, per fortuna la bevanda non era bollente.
«Sono mortificata. Vorrei sdebitarmi offrendomi di pagare la ricevuta della lavanderia» pregai il mio supervisore, mentre guadagnavo occhiatacce da parte di altri colleghi. Dovevo aggiungere "pessima figura" alla lista delle cose fatte nel nuovo anno. E pensare che erano passate appena due settimane.
«Non si preoccupi. Il mio unico cruccio sarà ritornare a casa e cambiarmi. Sa, avrei una partita di golf nel pomeriggio. Non so giocare, ma vorrei essere presentabile» scherzò l'anziano professore. Non seppi se ridere o meno, nel dubbio tirai in alto gli angoli della bocca, poteva interpretare quel segno come meglio credeva.
«Mi sovviene chiederle un favore, però. Avrei bisogno che mi sostituiate nello studio dopo le lezioni. Non penso di rientrare nei tempi dopo questo piccolo inconveniente» mi confessò indicando la grande chiazza scura che si stava espandendo a vista d'occhio.
«Nessun problema. Sarò operativa fin da subito!» imitai un saluto militare, ritraendo la mano subito dopo: non eravamo nell'esercito.
«La ringrazio e le auguro buona giornata, signorina.» Lynch raccolse la borsa che aveva precedentemente appoggiato al suolo e andò via.
Svoltato l'angolo intravidi Richard sulla lunga distanza. Era lì per me?
Le mie gote andarono a fuoco al solo pensiero. Magari qualcosa si poteva salvare in quella giornata. Gli andai incontro trattenendo il respiro.
«Ehi, bambolina. Bentornata a Los Angeles.» Il biondo, che fino a quel momento era poggiato contro il muro centenario, si diede lo slancio per circondarmi con le braccia. «Sei stata bene senza di me o ti sono mancato?» domandò quando aderì perfettamente al mio corpo. Potevo sentire il suo profumo: un misto di mandorle e dopobarba. Era possibile anche percepire il calore che emanava la sua pelle e chissà come sarebbe stato a un contatto più intimo. Mi discostai solo per poter osservare i suoi occhi chiari, sibillini e brillanti, che scrutavano una risposta sul mio volto.
Mi strinsi nelle spalle distogliendo lo sguardo. «Mi sei mancato più di quanto credessi, a dir la verità» gli confidai certa di aver scoperto le mie carte. Dovevo essere cauta.
«Allora siamo in due.»
***
Era un mese esatto che non mettevo piede nello studio. Per mia fortuna ero riuscita a fare una copia delle chiavi prima che il campus fosse chiuso per le festività. Non volevo dipendere da Dylan e quello era l'unico modo per poter effettuare i nostri turni senza interferire l'uno con la vita dell'altro. Faceva strano ritrovarmici da sola, però. Non ero abituata al silenzio.
A causa della morsa alla bocca dello stomaco che provavo da quella mattina, avevo evitato di pranzare, correndo in università in tempo record. Il mio unico obiettivo era svolgere il lavoro che mi attendeva per non pensare ai miei problemi.
Da quel che ricordavo sarebbero bastate un paio di ore. Prima di partire per Parigi ero riuscita a ripulire e a riordinare gli scatoloni malmessi che contenevano documenti e progetti degli alunni: indispensabile affinché il signor Lynch riuscisse a redigere i resoconti di fine trimestre dei suoi allievi.
Conscia di quale sarebbe stata la fatica a cui sarei stata sottoposta nel successivo pomeriggio mi diressi verso il magazzino agguantando con le nocche arrossate la maniglia della porta che separava i due ambienti.
Ci misi più tempo del dovuto, giocherellando con la serratura che da qualche mese a quella parte faceva bazzecole.
Messo piede in quello spazio rabbrividii: la stanza era priva dei caloriferi presenti nello studio. Ciò, però, non mi avrebbe impedito di portare a termine il mio lavoro. Mi fiondai verso la terza fila, acciuffando il secondo scatolone dall'alto per riprendere da dove avevo interrotto la riorganizzazione. Raccolsi il tutto sistemandomi in terra per comodità.
C'erano diversi file. Nello specifico, avevo trovato le domande di applicazione di tutti coloro che avevano fatto richiesta per il posto di assistente. Sfogliai i documenti andando a ritrosi e soffermandomi sul plico che conteneva i cognomi dalla lettera "P". A una seconda occhiata meno superficiale notai il mio nome inciso su uno dei tanti divisori: Peterson Lilian Amanda.
Accompagnata a una cartellina color pastello, c'era la mia tesi. Risi ricordando il giorno in cui buttai giù la mia presentazione. Tirai fuori il fascicoletto di una decina di pagine in cui avevo descritto le motivazioni secondo le quali ero perfetta per quell'incarico.
Ai bordi della carta notai le annotazioni del professore: elogiava le mie capacità critiche. E con il sorriso stampato in volto riposi il tutto nello scatolone al fine di ordinare in maniera alfabetica inversa.
Dapprima "Peterson Lilian Amanda". Poi acciuffai il portfolio di "Patterson Jack", seguì quello di "Paris Letham". Continuai con "O'Connel Danielle" fino a che le mie dita sfiorarono la cartella a fisarmonica di "O'Brien Dylan".
Rilessi nuovamente per non avere dubbi.
"O'Brien Dylan".
La curiosità fu più forte della mia integrità. Acciuffai il materiale altamente confidenziale con l'unica motivazione quella di capire di più della sua vita. Chi era davvero Dylan? Me lo domandavo da troppo.
Aprii il fascicolo sfiorando i bordi della carta leggermente ingiallita dal tempo. Deglutii nervosa ed eccitata allo stesso tempo.
Ciò che stavo facendo era immorale e altamente poco professionale... ma, nonostante le perplessità, non potei fare a meno di curiosare.
Sul primo foglio vi erano riportate le notizie di base. Una sua foto non molto recente era stata spillata accanto alle sue generalità. Indicai con il pollice i suoi lineamenti immaturi. Era ancora un ragazzino: aveva i capelli tagliati corti e un sorriso contagioso.
Voltai pagina, indagando poi sul suo curriculum: la carriera universitaria di Stanford era impeccabile. Cavolo se lo era. Aveva mantenuto una media altissima per ogni materia, persino in quelle non prettamente economiche.
Dovevo ricordarmelo: Dylan era molto diverso da quello che mostrava.
Scorsi velocemente le brevi informazioni sulla sua vita. Nato a Los Angeles, trasferitosi all'età di dieci anni a Stanford. Aveva frequentato il liceo pubblico fino a metà del secondo anno. Successivamente si trasferì in un istituto privato, completando gli studi superiori da privatista. Il resto, invece, lo conoscevo già.
Rilessi nuovamente la riga del trasferimento. Non ricordavo che fosse venuto a galla niente di simile nelle nostre conversazioni. Mi domandai quale fosse il motivo che lo avesse spinto a tale decisione. Per giunta nel bel mezzo dell'anno scolastico.
Che potesse centrare qualcosa Richard e il motivo del loro odio reciproco?
Rivangai le parole che il biondo avesse proferito nei confronti di Dylan. Un "vigliacco".
Che avesse combinato qualcosa di grosso e fosse scappato?
Superai anche quella pagina stupendomi come ne fosse rimasta solo una. Ancora non vedevo motivi concreti per i quali Lynch aveva potuto assegnarli il posto. Controllai ancora, ma niente. Tutto ciò che era rimasto era quel piccolo pezzo di carta strappato e sbiadito dal tempo. Era stato sicuramente scritto in un periodo antecedente rispetto agli altri.
La calligrafia curvilinea e tremante risaltava sullo sfondo ingiallito: ero certa appartenesse a una mano molto più insicura di quella di un adulto. Forse era il tema di un ragazzino o un semplice appunto. Non sapevo neanche io cosa pensare a riguardo.
A caratteri cubitali vi era inciso "cosa voglio diventare da grande" sul rigo più in alto.
Iniziai a leggere a bassa voce, scandendo parola per parola. Più volte mi era capitato di dovermi fermare per interpretare al meglio la scrittura misconosciuta.
«"Se c'è una cosa che odio, è dare delle etichette, escludere a priori la possibilità di una vita che deve essere ancora vissuta. Cosa voglio diventare da grande non è la domanda corretta da pormi. Quella più giusta a cui rispondere è "cosa non voglio essere?".
Di sicuro non sarò mai un astronauta o un cantante lirico. Non diventerò il presidente degli USA e neanche il vicino di casa con quattro figli che tosa il prato la domenica mentre organizza barbecue con gli amici.
La verità è che non sono niente di speciale e non lo sarò neanche divenuto adulto: non voglio un futuro perfetto, ma il futuro che mi spetta, senza sconti di pena.
Non voglio più fuggire dai miei problemi, ma affrontare la realtà dei miei peccati. Non voglio mai più voltare le spalle alle difficoltà, ma affrontarle di petto... solo così potrò essere migliore.
Non voglio essere "il" migliore, sia ben chiaro, voglio solo darmi da fare. Punirmi per ciò che è successo e ripagare giorno dopo giorno il debito che ho accumulato nei confronti della vita è l'unica via per la redenzione. Non voglio il perdono di nessuno e neanche l'affetto di tutti. Perciò se mi chiedete cosa voglio diventare in futuro, è molto semplice: voglio solo diventare Grande, con G maiuscola, perché..."
«"Perché il Dylan di oggi non meriterebbe neanche di esistere."» Levai gli occhi verso la fonte di quel suono tanto roco quanto profondo. La porta del magazzino venne richiusa con un rumore sordo facendomi sobbalzare.
Ero stata beccata in flagrante dal proprietario della lettera.
Provai a discolparmi, mentre tentavo di rialzarmi. Le emozioni che attraversarono il volto di Dylan erano diverse e nessuna positiva. Con gli occhi puntava il pezzo di carta stretto tra le mie mani, mentre le sue labbra erano serrate in una smorfia di disgusto.
«Che cazzo stai facendo con le mie cose?» sputò acido lapidandomi con la semplice forza della sua voce. Le sue iridi scure erano fisse come chiodi sulla mia figura immobile.
Mi si avvicinò strappandomi dalle mani il ricordo della sua gioventù, abbassandosi furente per acciuffare la cartellina impolverata con il suo nome inciso e nascondendo il tutto nella grande scatola poggiata sul pavimento. La ripose sul terzo scaffale in alto così che non potessi più metterci mani.
«Io... io... io non volevo, scusami» balbettai indietreggiando, la sua presenza mi opprimeva.
«Oggi non era il tuo giorno» mi comunicò trafilato senza degnarmi più di uno sguardo.
«Cosa?» sbattei le palpebre più volte per capire dove volesse andare a parare.
«Oggi non toccava a te, era il mio turno nello studio: l'ultima volta sei venuta tu. Avevamo un accordo, non avremmo più interferito nella vita dell'altro, ma a quanto pare continui a ficcare il naso nelle cose che non ti riguardano.» Aveva ragione e io non volevo rimanere un secondo di più in quella stanza con lui.
«Messaggio recepito, vado via.» Non mi considerò, anzi, passò in rassegna le etichette sugli altri scatoloni fino a scegliere il successivo da controllare.
Afferrai la maniglia bronzea. Girai una volta, ma nessun ingranaggio scattò. Incurvai le sopracciglia ritentando: ancora una volta nessuno scatto. La porta non voleva saperne di aprirsi. Quando fui tentata di ruotare una terza volta il pezzo di metallo, la mano di Dylan si impossessò della ferraglia costringendomi a indietreggiare. La strattonò con insistenza e veemenza, ma con scarsi risultati.
Resosi conto dell'impossibilità di dileguarci da quello stanzino, iniziò a battere il palmo della sua mano contro il legno dello stipite con estrema foga. Ma nessuno rispose ai suoi appelli.
Sconfitto e adirato, Dylan si aggrappò con i pugni al muro intonacato di bianco.
«Perfetto, siamo rimasti chiusi dentro» sentenziò prima di tirare un destro contro la parete e sospirare rumorosamente. Delle polvere discese fin sul pavimento per il contraccolpo.
Non fu difficile a quel punto capire quale fosse la verità: Dylan non mi voleva più al uso fianco e forse mai lo avrebbe più voluto.
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