08. Nuovo inizio
♫ Ed Sheeran - Bad Habits ♫
«Perché stai correndo, Lilian?»
Mi ero catapultata in strada dopo aver accumulato un grosso ritardo, non accorgendomi di lui che era in prossimità del mio portone.
«Che ci fai qui? Non ho tempo da perdere, Dylan.» Allungai il passo scuotendo il capo. Mi bloccò con delle semplici parole.
«Ti stavo aspettando per-»
«Nessuno ti ha chiesto di farlo» sbottai interrompendolo bruscamente e voltandomi verso di lui.
«Lo so. Ma è ciò che dovevo fare. Il campus dista cinque miglia da questo quartiere. Ti sto offrendo una mano e sappi che non sono una persona troppo paziente. Inoltre, sbaglio o ti avevo già preannunciato che se fosse stato necessario ti avrei offerto dei passaggi? Mi sembra che tu ne abbia bisogno.» Il suo volto era estremamente serio e aveva ragione: non ce l'avrei mai fatta in tempo.
«Va bene, hai vinto.» Mi diressi spedita verso l'auto parcheggiata sul ciglio della strada mantenendo un'aria afflitta e sconcertata. Dylan non mosse più domande.
Giunti nel parcheggio dell'università ne approfittai per anticipare il bruno. Ottenni le chiavi dell'ufficio del professor Lynch senza alcuna obiezione ritrovandomi ad essere la prima a varcare quella soglia.
La sala era piuttosto grande e in completo disordine. Pensai che fossero passati lustri da quando il professore aveva preso in mano uno spazzolone e dato una sistemata. Forse lo considerava uno sgabuzzino.
Gettai un occhio verso le scrivanie nella stanza. Il legno di mogano risaltava con le sue venute più scure, venendo riflesso dalla luce artificiale della lampadina a filo incandescente. Ve ne erano tre in totale: la più grande era quella mediale, di sicura appartenenza al professore. Le altre due forse erano appartenute ai suoi precedenti stagisti. Sulle pareti, invece, erano esposte le pergamene che attestavano i grandi successi ottenuti da Lynch. Un divano a tre posti era posto al di sotto della grande finestra panoramica e del davanzale dal quale era possibile osservare l'immensità del dipartimento.
La libreria a muro di legno massiccio accoglieva almeno un centinaio di volumi e, a giudicare dalle copertine di cuoio, molte dovevano essere prime edizioni. Una porta più piccola dava accesso all'archivio, grande quanto la metà dell'ufficio, ma privo di finestre. Al suo interno vi erano scatoloni incastrati in grate di ferro su più piani. Non poteva esserci spazio più minimalista o più retrò.
«Ma che schifo» sentii pronunciare da Dylan all'ingresso. Passò un dito sui tomi impolverati per poi starnutire.
«Devi vedere di là. È anche peggio» commentai sarcasticamente sbucando nella sala principale.
«Il nostro primo compito sarà ripulire questo casino» decretò con aria solenne. Non potei che concordare.
«Vado a vedere se ci sono stracci o spazzoloni al piano inferiore. Non fare casini.» Mi liberai della borsa svuotando il contenuto delle mie tasche in essa.
Prima di dissolvermi diedi un'ultima occhiata alla grande finestra a ovest che illuminava la stanza e come i colori dell'autunno si riflettevano negli occhi di Dylan.
«Intesi?» chiesi rivolgendogli un sorriso.
«Intensi» rispose pieno di vita.
Tornai carica come un mulo: due di secchi, cinque panni, due spugne, uno spolverino e una mazza da scopa.
«Non stavi scherzando» mi accolse Dylan, il quale giocava con le sue stesse mani, sdraiato sulla poltrona in perfetto agio.
«Uno dei due doveva» aggiunsi con un pizzico di sarcasmo.
«Anche io ho fatto ciò che era giusto» rispose con un sorrisino sul viso. Si alzò venendomi incontro per poter prendere il primo dei due secchi.
«Cioè?» indagai curiosa.
«Lo saprai a tempo debito» concluse con non curanza.
Iniziammo dalle superfici d'appoggio e spazzammo per terra. In un'oretta eravamo a buon punto.
Le scrivanie avevano ripreso il loro colore ligneo, perso per colpa della polvere depositata sopra. Dell'ufficio rimaneva solo da spolverare la grande libreria a parete rimuovendo un libro alla volta per passarci il panno. Fino a quel momento non era stato male lavorare al suo fianco.
Lui era silenzioso, forse fin troppo.
«Posso chiederti una cosa?» iniziai posando a terra il primo della lunga serie di volumi che avremmo dovuto riordinare.
«Dipende, se si tratta di fare tutto il lavoro da solo te lo scordi, non so quanto ancora resisterò» rispose starnutendo, mentre prendeva un tomo fra le mani. «Sono leggermente allergico alla polvere» aggiunse con voce nasale.
«Perché lo stai facendo?» continuai a domandare.
«È davvero questa la tua domanda, Lilian?» inarcò un sopracciglio scrutandomi da capo a piedi. Deglutii imbarazzata.
«Sì... cioè, perché fai tutto questo? Non sei obbligato. Come non eri obbligato a partecipare al concorso del professor Lynch, a seguire i corsi in università, a passare i tuoi pomeriggi qui e ad aiutarmi nonostante tu abbia un'allergia. Perché lo stai facendo, Dylan?» Non volli girarmi, il suono delle sue parole mi sarebbe bastato per capire la serietà della sua risposta.
«Lo faccio perché lo voglio. È vero, è strano, il figlio delle "big Industries" che vuole darsi da fare. Patetico, vero? Cercare di conquistarsi un posto nella società con le proprie forze. Sono qui per lo stesso motivo per cui lo sei tu. Imparare per avere maggiori crediti agli occhi dei potenziali datori di lavoro. Inoltre, ti aiuto perché è il mio lavoro, ho preso un impegno e io mantengo sempre la parola data.»
Mi fermai dallo spolverare, mi sentivo di essere stata profondamente ingiusta nei suoi confronti.
«Allora perché ti comporti così? Sembra che non ti interessi mai nulla!» insistetti abbassando lo sguardo. Le sue parole mi avevano turbato. Fatti e parole non corrispondevano come avrei voluto.
«Perché non voglio vivere una vita troppo seriosa. Ci si può anche divertire. Non esiste solo il dovere, lo sai?» ribatté ridendo.
«Dormi durante le lezioni! Tutte le lezioni! Questo non è divertirsi, è essere irrispettosi degli altri!» Uno schizzo d'acqua raggiunse il mio maglioncino quando meno me l'aspettavo. «Ma-ma che fai?» protestai sbarrando gli occhi. Non mi ero accorta di quando si fosse avvicinato al secchio.
«Primo, durante le lezioni dormo perché sono il più bravo della classe. Ho ricevuto un'educazione eccellente grazie ai miei genitori e le lezioni di queste settimane stanno solo ripetendo ciò che io ho studiato per anni e che so alla perfezione. Secondo, mi sto divertendo. Si chiama scherzo, esiste nel tuo vocabolario?» Annuii facendo dei piccoli passi avanti.
«Lilian, perché mi guardi come se volessi uccidermi?» Indietreggiò. «Lilian, è un po' d'acqua, andiamo.» sbuffò gesticolando animatamente cercando un riparo. Ma era troppo tardi. Ero stata più veloce di lui, riuscendo a infradiciarlo completamente. Uno stridio era fuoriuscito dalle sue labbra appena l'acqua l'aveva toccato.
«Ma è gelida!» si lamentò.
«Ma come, Dylan? È uno scherzo. Ti conviene asciugarti prima che ti prenda un bel raffreddore. Abbiamo ancora del lavoro da fare.» Gli porsi uno degli stracci che avevamo usato precedentemente. Lo guardò torvo prima di posare le sue iridi castane sulla mia figura.
«Sei una persona malvagia, lo sai? Ti preferivo nella versione ficcanaso» concluse serrando la mascella. Non mi curai delle sue parole. Però forse dovetti ammetterlo, per la prima volta, ci stavamo divertendo sul serio.
«Hai iniziato una guerra che non puoi vincere» risposi incurante ritornando verso la libreria.
«Ne sei sicura?» la sua voce aveva un'intonazione un po' sinistra. Lo sentii tossire.
«Cosa c'è-» non riuscii a terminare la frase che una cascata d'acqua mi piovve sulla testa. Era davvero fredda, non scherzava poco prima. «Ma sei impazzito?» strillai voltandomi verso di lui. Scrollò le spalle impassibile.
All'improvviso l'unica cosa che mi venne da fare fu ridere. Iniziai a farlo a crepapelle non riuscendo a smettere. Mi accovacciai mantenendomi lo stomaco con una mano fino a stendermi completamente sul pavimento zuppo. Dylan seguì a ruota il mio gesto trovando posto tra i secchi e ratavelli.
«Sei davvero uno stupido. Dobbiamo iniziare da capo! È stata tutta fatica sprecata» sentenziai asciugandomi le lacrime che erano scese lentamente sulle mie guance.
«Se è servito a farti sciogliere non vedo dove sia il problema.» mi voltai di scatto, più confusa che imbarazzata. Non stava scherzando, non era la solita frase detta per irritarmi.
«Non ero io il problema, per te?» domandai sarcastica. I suoi occhi non smisero di osservarmi un attimo, piccoli e insistenti.
«Mai affermato che lo fossi.» Afferrò uno dei libri che avevamo poggiato al suolo iniziando a sfogliarlo avidamente. Per fortuna l'acqua non aveva fatto grossi danni.
«Che stai facendo?» provai.
«È Richard.»
«Cosa c'entra Richard?» domandai perplessa credendo di aver perso il filo del discorso.
«Richard è il nome dello scrittore, però, visto che tanto ne stiamo parlando, cosa c'è tra te e il biondino?» Richiuse il libro con un colpo secco, posandolo insieme agli altri. Che lo avesse fatto di proposito?
Mi ritrovai spiazzata. «Non ti devo alcuna spiegazione!» mi rimisi dritta con la schiena abbassando lo sguardo verso la punta delle mie scarpe. All'improvviso non era più così divertente.
«La scenetta di questa mattina l'hanno vista tutti. Dovresti stare attenta a quel tipo. Non dovrebbe piacerti.» Riportai la mia attenzione su di lui. Cosa diavolo blaterava?
«Potrei dire lo stesso di Cassidy. Tutti hanno gli occhi puntati su di voi da giorni. Non dovresti piacerle, la farai soffrire» asserii decisa. Non avrei preso lezioni da lui. Il ragazzo scrollò le spalle come se avessi pronunciato solo ovvietà.
«Hai ragione, accadrà. Cassidy è una brava ragazza. Mi ha chiesto di uscire e io le ho dato la mia parola. Perché nel caso tu non l'abbia notato sono pessimo nell'istaurare relazioni amichevoli, perciò quando qualcuno ti chiede di prendere una cosa fuori una sera tu accetti per paura di rimanere solo. Ma a te cosa interessa, infondo? Mi avrai già sabotato per allora» chiese in contropiede puntando i suoi occhi nocciola nei miei.
«Lei è mia amica.»
«E tu sei una mia» combatté avvicinandosi e sostenendo il suo peso su un braccio. Eravamo stremati, per terra in una pozza d'acqua, in mezzo alla confusione e con solo l'eco dei nostri battiti a farci compagnia.
«Io vorrei aiutarti, vorrei-» iniziai scrutando la sua espressione. In quei giorni, si sarebbe potuto dire che non avevamo fatto altro che litigare e ignorarci. La sue risposta aveva avuto un impatto così forte nella mia mente, che mi bloccai di colpo.
Forse era vero, forse anche a me importava di lui nonostante i fatti dimostrassero che non ci sopportavamo.
Dylan sottrasse il suo sguardo distendendosi e portandosi una mano sul viso a coprirsi il volto.
Come in un flashback mi ricordai che era ciò che era avvenuto sulla spiaggia la settimana precedente, prima che decidesse che le mie domande fossero troppe e la mia presenza superflua. Non volevo essere di nuovo scacciata in malo modo, così raccolsi le ginocchia al petto ricercando un appiglio per potermi alzare dal pavimento.
«Che stai facendo?» domandò scostando il braccio.
«Me ne sto andando prima che tu me lo chieda.» Lui fu più veloce di quanto credetti afferrando una mia mano a mezz'aria.
«Resta, per favore.» In quelle parole lessi tra le righe un bisogno di non rimanere solo. "Tutti vanno via". Ma io non ci credevo. Potevo dimostrarlo, potevo aiutarlo se me lo avesse permesso e quel gesto me ne diede la conferma.
Deglutii cauta, ritrovandomi nuovamente sdraiata al suo fianco, non però senza imbarazzo.
«Non mi era mai successo di relazionarmi in questo modo con qualcuno. Credo tu abbia visto molte più sfaccettature di me in questi giorni, che i miei vecchi amici. Come definiresti qualcuno con cui hai condiviso il peggio e il meglio senza apparente motivo?» Sbuffò divertito.
«Un effetto collaterale.» Il moro spalancò gli occhi perplesso, addolcendoli poco dopo.
«E di cosa saresti un effetto collaterale?» mi voltai quel tanto per inquadrare il suo volto calmo che fissava il solaio.
«Del dolore che ti porti dentro, ma che vuole disperatamente trovare una via d'uscita.» Dylan scattò ritto sulla schiena schioccando la lingua al palato. La magia sembrava essere svanita e il vecchio burbero ritornato.
«Sei impertinente e sfrontata. Te lo hanno mai detto, Lilian?» annunciò scrutandomi dall'alto. Mi alzai a mia volta.
«E che tu sia antipatico e insopportabile?» risposi a tono.
«Più volte di quanto credi, in realtà.» Sorrise bieco.
«Non esserlo più, allora. Con le persone che potrebbero far parte della tua vita, intendo. Hai una strana luce negli occhi in alcuni momenti, come se venissi intrappolato in un lontano passato e il dolore ti inghiottisse. Potrai voler passare tutta la vita da solo, ma in realtà credo sia la cosa che più ti spaventi. Io non so cosa mi riserba il futuro, ma credo fermamente che se un mio amico avrà bisogno di me, io ci sarò. Sempre.»
I nostri occhi si scontrarono creando inaspettate scintille. Forse era un discorso troppo più grande di noi, o forse era perfetto così. E se non fosse stato per il signor Lynch, che in quell'istante fece il suo ingresso nella stanza, chissà fin dove saremmo arrivati.
***
Ero nel letto quando i rumori della serratura d'ingresso mi destarono: Emma era tornata dopo un'altra serata di festa. Tastai il materasso per afferrare il cellulare che avevo lanciato sul letto prima di addormentarmi.
Lessi l'orario. 4.17.
Non mi stupii, Emma era solita fare tardi. La retroilluminazione del telefonino era tanto fastidiosa da costringermi a tenere solo un occhio semi aperto. Nello scorrere del display notai una notifica. Un messaggio per la precisione. Premetti senza pensarci due volte.
Da: Sconosciuto
Hai la mia parola.
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