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06. Sguardi nel vuoto

♫ Burn The City Down - Urbanstep (ElementD Remix)♫

Al termine della lezione ricevetti un messaggio da parte di Nathan, offrendomi un passaggio per il ritorno, con unica condizione quella di portare anche il cugino. Seppur non particolarmente entusiasta, non mossi obiezioni.

Scossi il moro dalla sua seduta. Non ne ero certa, ma pareva essersi addormentato. L'aula si stava svuotando e il mio stomaco brontolava.

Lui saltò dalla sedia, cadendo di lato e incastrandosi tra gli sgabelli. Per un attimo dimenticai tutta la sua compostezza e strafottenza ridendo scherzosamente. Che cosa stava combinando? Lo avevo solamente scosso un po'.

«Ma che modi sono!» urlò sdegnato. Roteai gli occhi al cielo non curante delle sue condizioni.

«Forza, tuo cugino ci starà aspettando, quindi muoviti!» gli ordinai facendo segno verso l'uscita. Mi lanciò un'occhiata di sfida, come se non avesse preso troppo bene la situazione. Si umidificò le labbra prima di parlare.

«Mamma, sei tu?» domandò coprendosi la fronte con una mano. Incrociai le braccia al petto nella speranza che la commedia sarebbe terminata il prima possibile. Mi squadrò da capo a piedi ritornando seduto, schioccò la lingua al palato proferendo "Non sei mia mamma, lei è meno arrabbiata e decisamente più sexy".

Lo avrei ucciso, ero abbastanza sicura di quello. Lo raggelai all'istante con lo sguardo.

«Ti aspetto fuori» decretai severa per evitare di aumentare ulteriormente il suo ego. Quando scrissi a Nathan per sapere dove fosse, mi comunicò che ci aspettava al parcheggio sul retro.

Furono i due minuti più lunghi della mia vita, al termine dei quali Dylan varcò l'uscita in compagnia di Cassidy. Povera ragazza, si vedeva lontano un miglio che le piaceva, non potei giurare la stessa cosa per lui.

«DYLAN!» sbraitai dall'altro capo del corridoio semi-deserto. Lui si girò facendomi segno di lasciare fare indisturbato. Usai tutto il mio autocontrollo per non urlare nuovamente.

Aspettai seduta al primo dei gradini delle scale esterne che portavano al piano inferiore gustandomi la scena dei due piccioncini che si scambiavano il numero. Avrei potuto vomitare.

Dopo poco Dylan mi raggiunse; senza proferir parola gli feci strada verso il parcheggio.

Salii in auto sbuffando sonoramente.

«Ma è sempre così fastidioso?» mi rivolsi a Nathan, almeno avrei saputo delle certezze.

«Ha anche i suoi giorni buoni» rispose lui scrutando la strada per poter fare retromarcia.

«Lo avevi descritto come una persona introversa, ma non hai parlato del fatto che fosse una...» mi trattenni mordendomi la lingua.

«Non so che dirti, Amy. Sono vent'anni che provo a comprenderlo. Non riuscirai mai a capire cosa pensa senza che sia lui a parlatene.» Forse, però, Nathan aveva ragione.

«Ma certo, ragazzi, continuate pure. Io non sono qui e non state ferendo i miei sentimenti» si intromise il diretto interessato asciugandosi una lacrima immaginaria da sopra lo zigomo.

«Quali sentimenti?» rilanciai.

«Ecco, appunto» concluse lui tornando a guardare avanti a sé.

Il resto del tragitto fu molto più silenzioso, non avevo voglia di continuare quel battibecco inutile.

Nathan si fermò davanti il mio portone. Mi sporsi in avanti tra i due sedili anteriori per lasciargli un bacio sulla guancia come era mio solito fare.

«Ehi» mi richiamò Dylan «grazie per avermi aspettato» annunciò con un sorriso sincero sul volto.

«Sai,» gli feci il verso avvicinandomi al suo orecchio «non tutti se ne vanno.»

***

Mi svegliai più tardi del solito quella mattina, le lezioni non erano state programmate così ne avevo approfittato per dormire un po' di più. Sarei andata in università nel pomeriggio.

In cucina trovai Eric: indossava solo un pantalone della tuta come era solito fare.

Aprii il frigo e ne trassi fuori dei cioccolatini evidentemente comprati da Emma. Mi sedetti a una delle sedie intorno al tavolo per poi incrociarvi i piedi sopra.

«Ma non ti sembra un po' antigienico?» domandò Eric guardandomi di sottecchi mentre si preparava il thè. Era di spalle al piano cottura con le braccia incrociate al petto, in quella posizione sia i pettorali che gli addominali risaltavano di più. Lo faceva di proposito, come ogni mattina.

«Noi non mangiamo mai qui. Inoltre, è casa mia e faccio quello che voglio. Tu, invece, ce l'hai una casa in cui vivere?» ero tanto retorica quanto sarcastica.

«Certo che ce l'ho. Solo per tua informazione,» iniziò voltandosi verso il pentolino con l'acqua che ribolliva. Alzai un sopracciglio in attesa del messaggio che volesse farmi recepire «il tavolo è decisamente molto più comodo.» Mi venne un disgusto allucinante, allontanai i piedi posandoli a terra.

«Ma non era antigienico?» scimmiottai sporgendomi verso il lavello per cercare un disinfettante.

«Tu ci metti i piedi quindi non vedo perché non posso usufruirne anche io per i miei benefici.»

«Stai zitto ti prego, non dire altro.» Trovai ciò che stavo cercando nel secondo ripiano in basso. Pulii la superficie del tavolo più volte alternando lo spray a passate con un panno umido. La cucina aveva preso uno strano odore, lo stesso che si avvertiva in ospedale. Ne ero compiaciuta.

«Ma cosa è questa puzza?» domandò Emma tappandosi il naso. Indossava un pigiama intero rosa, strano per i suoi standard, magari era un regalo di Eric.

«Ho dovuto scoprire che avete scopato sul mio bellissimo tavolo e non ho potuto fare a meno di pulirlo.» Emma scoppiò in una fragorosa risata. Mi girai verso di lei ponendo una mano su un fianco per rimproverarla. «Cosa c'è da ridere?» sbuffai.

«E hai dovuto usare tutto il disinfettante che avevamo in casa? Quando la passione ti prende, beh, ti prende ovunque, credi si possa arrestare all'improvviso?» chiese buttandosi letteralmente tra le braccia di Eric. Ero arrossita, lo avvertivo da come le gote mi bruciassero.

«Dovete fare più attenzione, le zone in comune sono sacre, in camera tua puoi fare quello che vuoi» asserii risoluta. Una ciocca di capelli della crocchia disordinata che avevo fatto appena sveglia si posò davanti ai miei occhi. Dovetti soffiarci più volte per farla spostare. Vista dall'esterno sarei potuta sembrare una bambina imbronciata. Forse non era così distante dalla realtà.

«Comunque tra un po' mi serve la macchina, Emma, devo tornare in università per fare da assistente al professor Lynch» comunicai rimettendomi seduta e lanciando la boccetta con il disinfettante verso Eric che la prese al volo e la mise al suo posto.

«Quindi è deciso, farai coppia con Dylan?» mi chiese maliziosa spegnendo il fuoco dal piano cottura per poter continuare la preparazione del thè.

«Purtroppo non ho altra scelta, ma non lo definirei fare coppia. L'unica coppia che sarei disposta a formare con lui sarebbe quella in un incontro di boxe e lo farei nero» annunciai scrollando le spalle e incrociando le braccia sotto il seno.

«Uh, qui c'è del piccante. Per caso era il moro che non parlava con nessuno al falò? Quel Dylan?» chiese Eric prendendo le tazze dal ripiano più in alto.

«Lo conosci?» domandai stranita.

«Me ne ha parlato Josh l'altro giorno. Lo aveva incontrato per caso che vagava da solo vicino l'aeroporto e dato che aveva una maglietta dell'UCLA l'ha invitato. Emma poi mi ha accennato qualcosa prima e ho fatto due più due.»

«È il cugino di Nathan» affermai.

«Ora capisco, beh, buona fortuna allora. Sembrava un tipo un po' strano. Mi ha raccontato Josh che lo ha dovuto prendere di peso per riaccompagnarlo a casa, perché troppo ubriaco. Meno male che aveva l'indirizzo scritto sul telefono, altrimenti non ci sarebbe ritornato.» Come avevo ipotizzato, quella sera, aveva deciso di farsi del male bevendo a più non posso. Le mie parole, quindi, non lo avevano aiutato minimamente, forse avevano addirittura peggiorato la situazione. Mi tornarono alla mente le parole di Nathan su quanto fosse veramente difficile capire cosa gli passasse per la testa.

«Quindi per l'auto, Emma?» riproposi alla ragazza che nel frattempo aveva preso posto di fronte a me.

«Purtroppo mi serve, però può accompagnarti Eric, se vuoi.» Inarcò un sopracciglio bevendo un sorso della brodaglia zuccherata.

«Per me non c'è problema» confermò lui.

«Grazie mille! Mi preparo e ci sono!» mi alzai dal tavolo correndo in bagno per farmi una doccia.

L'orologio segnava le tre del pomeriggio: ero in perfetto orario.

«Pronta?» chiese Eric sfoggiando uno dei suoi sorrisi migliori.

«Pronta» confermai.

Il viaggio fu abbastanza silenzioso, a parte fare battute non parlavamo molto, lui era un tipo che agiva per lo più. Non era fatto per i fronzoli, ma per la sostanza, lo avevo capito tempo addietro. Non faceva domande, era discreto e lo apprezzavo per quello. Buona compagnia se ti piaceva avere qualcuno che ti capisse senza porti in imbarazzo. Giocherellone e mai troppo scontato. Parcheggiò davanti l'ingresso dell'università.

«Eccolo, Dylan» pronunciò indicando davanti a sé. Io ero occupata a slacciarmi la cintura. Quando lo misi a fuoco sbuffai. «Si, è lui.»

«Non ti va proprio a genio» tirò a indovinare sorridendo.

«Non è che non mi vada a genio, ma in due ore abbiamo passato più tempo a insultarci che a conoscerci, cioè, io non so niente di lui se non solo che è il cugino del mio migliore amico» pensai ad alta voce. Che lo avessi giudicato troppo presto?

«Magari è proprio questo il problema, prova a conoscerlo, forse non è così odioso come può sembrare. Poi anche tu non è che dia una bella prima impressione, miss Lilian.» Con quell'ultima parola si era guadagnato il mio sguardo offeso, eppure non persi neanche un attimo per riflettere su ciò che mi aveva detto. Poggiato un piede sull'asfalto mi rivolsi un'ultima volta a Eric.

«Grazie ancora per il passaggio.» Chiusi la portiera dietro di me ricevendo un occhiolino come segno di saluto.

Mi avvicinai al cancello, dove Dylan era appoggiato con le spalle. Aveva visionato tutta la scena non smettendo un attimo di osservare nella mia direzione. Non era molto discreto.

«Lilian, chi era quello? Mi pare di...» chiese con tono sprezzante mutandosi di colpo.

«Ciao anche a te» risposi superandolo con un finto sorriso ignorando le due domande.

«Da quando in qua vai in giro con degli sconosciuti?» rilanciò preoccupato.

«Non è uno sconosciuto, è un mio amico da anni, tutt'al più sei tu lo sconosciuto tra i due» puntualizzai alzando un dito verso la sua figura.

«Senti, credo sia il caso che d'ora in poi io ti offra dei passaggi quando verrai in università. È la scelta più logica per un lavoro da fare in due» decretò ignorando completamente ciò che avevo appena detto. Allungò il passo.

«Non sei obbligato a farlo, sono amica di Nathan, non tua» ribadii. Mi morsi un labbro per la grande cavolata che avevo appena detto. Era ovvio che non fossimo niente di più che conoscenti, ma forse farglielo notare bruscamente non era stata una grande idea. Aspettai una sua cattiva risposta da un momento all'atro. Il moro si fermò di colpo.

«È vero, non siamo amici, ma dalla prossima volta verrai con me, non mi fido di nessuno alla guida e proprio perché sei la migliore amica di mio cugino se mai dovesse capitarti qualcosa credo mi taglierebbe a pezzi» argomentò in tono abbastanza serio. Riprese a camminare velocemente: facevo fatica a stargli dietro soprattutto per le scale.

«E dovrei fidarmi di te?» rincarai in risposta a ciò che aveva appena rivelato. Lui mi scrutò con la coda dell'occhio prima di proferir parola. Retrassi quasi spaventata: c'era dell'oscurità in quello sguardo, l'avevo già visto in lui, ne ero certa.

«Non dovresti. Per niente, ma se ti succedesse qualcosa non scapperei, anzi, affronterei tutte le conseguenze necessarie senza battere ciglio. Lui non so se farebbe altrettanto.» Deglutii prima di seguirlo nuovamente senza dire più una parola. Voleva forse essere un tentativo per instaurare della fiducia tra di noi? A me aveva solo fatto venire i brividi.

Stavamo ormai aspettando il professor Lynch da una buona mezz'ora davanti la porta del suo ufficio. Era impegnato in una conferenza. Dylan si era seduto per terra dando le spalle al muro e tenendo un ginocchio stretto al petto. Io ero rimasta in piedi dall'altro capo del corridoio perché mi sentivo soffocare da una strana inquietudine nonostante ci fosse più spazio di quanto veramente necessario. Dylan si era spento, oscurato completamente e ciò nella mia mente mi riportava a qualche sera prima: lui sulla spiaggia che fissava il vuoto, come se lo stesse piano piano divorando.

E se fosse stato quello il vero Dylan? Un intricato insieme di personalità che portavano come risultato alla completa eclissi di sé stesso. Mi interrogai su quali potessero essere le ragioni per vivere in quel modo. Paura? Tormento? O del semplice odio? Probabilmente c'era stato un tasto della sua anima che avevo premuto che doveva essere più dolente di tutti gli altri.

«Smettila di fissarmi» sentenziò storcendo il naso, ma non distogliendo lo sguardo dal pavimento in granito.

«Non ti stavo fissando» balbettai in mia difesa.

«Se lo dici tu, allora anch'io d'ora in poi non ti fisserò in quel modo» rispose sornione volgendo lo sguardo verso di me con aria dura prima di ritornare a osservare il punto fisso sul pavimento.

«Se anche fosse, siamo solo noi due qui, stavo provando a capire...» Grugnì innervosito dalla mia misera spiegazione trapassandomi con i suoi occhi scuri.

«Capire cosa, Lilian? Perché un secondo mi faccio scivolare il mondo a dosso e quello dopo sembro un fantasma? C'è così tanto di me che non si può spiegare e la tua continua insistenza mi infastidisce. Non vorresti saperlo, non dovresti scoprirlo e non te lo dirò!» per un momento avvertii una strana presa al livello della bocca dello stomaco, come se mi stessero bruciando le viscere dall'interno. Deglutii a fatica.

«Forse è meglio che vada, si è fatto tardi.» si levò dal pavimento con un movimento fluido, spostandosi verso l'uscita del piano e trascinando dietro di sé un'ombra sempre più grande. Io feci un passo in avanti, ma notando come i suoi occhi continuavano a bruciare, retrassi la mano annullando qualsiasi pensiero.

Bene, non voleva essere capito. "Non saprai mai che gli passa nella mente".

Forse le sue parole mi avevano fatto più male di quanto diedi a vedere. Ero sempre stata una persona aperta e solare che quando poteva cercava di portare il sereno. Tra i puzzle complicati, in quel periodo della mia vita, lui era sicuramente il più intricato di tutti. Immerso in una tempesta da quale non sembrava esserci via di fuga.

Si fermò a pochi metri. «Allora vuoi venire? Ero serio sul fatto che non ti avrei lasciato andare da sola.»

«E con il professor Lynch come facciamo?» indagai abbassando il tono della voce quasi con timore. Forse avevo sbagliato a parlare troppo: non riuscivo a tenere a freno la lingua.

«Sono le quattro e un quarto, tra un quarto d'ora scade il nostro turno e lui non si è presentato, siamo assistenti, non zerbini. È un vero peccato...» rispose atono senza più darmi spiegazioni.

Gli afferrai il polso mentre camminava, era caldo e teso. Potevo avvertire i muscoli tendersi al mio tocco e irrigidirsi. Non mi piaceva litigare, anche se era quello che continuavo a fare con lui. Detestavo essere considerata una ficcanaso o una cattiva persona e probabilmente in quel momento era quella l'immagine di me che si era formata nella sua testa. Non potevo e non volevo lasciare che le cose rimanessero così. «Dylan, mi dispiace se qualcosa che ho detto ti abbia ferito, qualsiasi cosa da quando ci siamo conosciuti, non volevo, credimi.» mi sporsi dinanzi a lui frenando la sua corsa. Ero sincera e gli stavo parlando con il cuore in mano.

«Non ti offendere, ma tu non c'entri un cazzo con il mio stato d'animo» sputò acido.

In quel momento capii che tra di noi c'era solamente del vuoto: un buco più grande di quanto potessi immaginare e a riempire quell'empietà erano rimasti solo i miei pensieri, che girovagavano vorticosi senza darmi pace.

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