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03. Santarellina

Halsey - Graveyard

Aspettai dinanzi il bagno chimico della spiaggia per una manciata di minuti. Emma non voleva saperne di uscire. Nonostante avessi bussato per sapere se stesse bene, la sua risposta era stata telegrafica, comunicandomi quanto tutto fosse sotto controllo. Credetti vivamente che il reale motivo della sua lunga permanenza dentro quella scatola di plastica fosse il precario equilibrio.

I bagni erano a circa duecento metri dal falò. Era possibile distinguere senza troppi problemi le varie figure che si intrecciavano passando dinanzi al fuoco, ma se non si fosse posta altrettanta attenzione nessuno sarebbe stato capace di notare me. Approfittai di quel lasso di tempo a disposizione per affondare i piedi liberi tra i fini granelli di sabbia, mentre la mia ombra si allungava per metri andando a confondersi con il bagnasciuga.

Fissai la lunga sagoma prodotta dal mio corpo, camminando senza distogliere l'attenzione da quella strana figura che si formava e trasformava a ogni passo. Era interessante notare come una semplice fonte di luce potesse creare innumerevoli disegni.

Quando l'alta marea entrò nel mio campo visivo, porsi il mio sguardo all'oceano. Il rumore delle onde che infrangevano la banchina mi riportava all'infanzia. Incurvai le labbra in una linea dura, perdendomi in ricordi poco piacevoli. Mi venne la pelle d'oca al sol rievocare immagini di un passato in cui il mio corpo annaspava sul pelo dell'acqua.

Scossi il capo seguendo l'istinto solo per qualche altro secondo, non volendomi distanziare troppo da Emma.

Un brivido percorse la mia schiena quando la mia pelle entrò in collisione con il liquido salmastro.

Era gelida.

Poco dopo la sensazione tramutò in piacevolezza. Abbassai le palpebre prendendo un bel respiro: potevo percepire distintamente l'odore di salsedine e un secondo più denso di alcol.

«Ehi, santarellina, fai attenzione» mi ragguardò una voce a me non troppo famigliare. Mi voltai colta alla sprovvista, facendo un passo indietro. Non riuscii a inquadrare da subito il mio interlocutore.

«Ehm, grazie... ma sarei io la santarellina?» risposi, mentre le mie gote andavano in fiamme per l'imbarazzo. Non credevo di essere in compagnia.

Più i secondi passavano, più i miei occhi si abituavano al buio, mettendo a fuoco attimo dopo attimo il volto del ragazzo. Sbarrai le palpebre quando riconobbi la folta chioma mora e i lineamenti serrati del volto, perdersi nel vuoto, ancora una volta.

Mi avvicinai cauta in attesa di una risposta, captando i suoi movimenti per capire cosa stesse facendo accovacciato in solitaria in riva al mare. Un luccichio venne riflesso nel buio facendomi pensare che probabilmente avesse un qualche oggetto di vetro in mano. Una bottiglia, magari.

Il mio intuito non venne deluso, quando il moretto bevve abbondantemente tracannandone il contenuto. In quel momento capii quale fosse la fonte dell'odore pungente che avevo avvertito.

«Sbaglio o a quello stupido gioco non hai bevuto quasi nulla, santarellina? Credo sia il nome appropriato per chi ha una vita così ligia e sobria» sputò acido mostrandomi uno dei suoi più declivi sorrisi. Trattenni una smorfia seccata.

«Avrei potuto dire lo stesso di te, ma a quanto vedo stai già rimediando!» Affondai le unghie nella mia mano. Uno sconosciuto mi stava osando fare la morale?

«Per caso vuoi unirti?» domandò porgendomi la bottiglia dal suo collo. Il suo tono di voce era suadente e malizioso, in contrasto con le iridi scure che sembravano aver perso ogni sprazzo di luce.

Levai un angolo della bocca disgustata dalla possibilità di stare male dopo una bevuta con uno sconosciuto. Il moro non perse tempo nel captare quella mia indecisione. «Santarellina» mi apostrofò nuovamente, mentre con un dito sfiorava il profilo della bottiglia.

Era forse un test? Se lo fosse stato, lo avevo appena fallito.

«È colpa tua» biascicò ritornando a fissarmi più intensamente di quanto non avesse fatto in precedenza. Il suo sguardo mi fulminò all'istante.

Un brivido di tensione mi fece sobbalzare. Non riuscivo a reggere il confronto. Chiusi le palpebre per evitare quel contatto visivo troppo impertinente.

«Cosa vuoi dire? Neanche ti conosco!» schioccai la lingua al palato. Il ragazzo singhiozzò prima di incurvare le labbra in maniera bieca.

«È proprio questo il problema! Come hai fatto, santarellina?» indagò con voce più tremante rispetto all'attimo precedente. Mi morsi la lingua. Non avevo la minima idea di come comportarmi. Feci appello al mio autocontrollo sistemandomi al suo fianco: volevo terminare quello stupido alterco al più presto. Magari lo avevo offeso senza rendermene conto.

«Posso aiutarti in qualche modo? Qual è il tuo nome? C'è qualcuno che posso chiamare per farti venire a prendere? Non mi sembri in buono stato per guidare o essere lasciato solo» annunciai afferrandolo per un braccio così da potergli permettere di alzarsi. Desideravo togliergli dalle mani quel bottiglione.

Mi bloccai sul posto quando notai come una lacrima discese sul suo viso dividendolo in due metà imperfette, ma altrettanto tristi.

Mi strattonò via allontanandomi per poi agitare le dita a mezz'aria. «Lo stai facendo ancora. Tu...»

Abbassò le palpebre per poi afferrare la maglia all'altezza del cuore. Inspirò profondamente, mentre passava la lingua sulle labbra come se nulla fosse successo.

«Voglio che tu vada via, santarellina, non puoi aiutarmi in nessun modo!» concluse allungando un ultimo e lungo sorso di qualsiasi si stesse affogando, per poi sdraiarsi sulla sabbia. Pose un braccio a coprire il volto, forse per non nascondere le lacrime che ero sicura stessero traboccando.

Indugiai qualche attimo. Per motivi sconosciuti il mio corpo voleva rimanere lì.

Ero abbastanza vicina da poter notare i lineamenti del suo viso, duri, ma abbastanza morbidi da indicarmi quanto fosse giovane. Mi domandai cosa potesse affliggerlo e cosa ci facessi ancora al suo fianco. Probabilmente stavo solo traslando i miei problemi su un'altra persona.

«Vattene» imperò acidamente ruotando gli occhi rossi al cielo in un momento di lucidità.

«Sei ubriaco. Io posso aiu-» risposi maledicendomi subito dopo aver udito la sua ira.

«Nessuno può aiutarmi! Nessuno, non più!» sbraitò slanciandosi verso di me con sfida. Osservai le sue pupille solo qualche attimo, eppure, mi parve un'eternità. Retrassi il busto per difesa, scuotendo il capo e mozzicandomi un labbro. Avevo fatto anche più del dovuto, non ne valeva la pena. Mi alzai di scatto e senza più voltarmi ritornai dove avevo lasciato Emma.

«Te ne saresti andata via lo stesso... come fanno tutti» mormorò. Ma quella rimase più una mia convinzione, poiché la distanza e il rumore del mare mi avevano allontanato più di quanto lui avesse fatto con le sue parole.

Non smisi presto di ripensare a quel piccolo siparietto, rovinandomi il resto della festa. In qualche modo mi sentivo colpevole e arrabbiata. Nessuno aveva il diritto di farmi sentire così, tantomeno uno sconosciuto.

«Sei in condizione di guidare?» domandai a Eric al termine della serata quando tutti sembravano troppi ubriachi per poter anche solo dichiarare il proprio nome.

«Certo, per chi mi hai preso?» rispose sicuro di sé, mentre sia Margot che Cassidy lo abbracciavano incoscienti. Pensai solo a quanto fossero non curanti dei loro gesti.

«Aiutami a portarle in auto, guiderai la macchina di Margot, mentre io prendo quella di Emma. Cassidy dovrebbe riuscire a indicarti dove abitano. Vero, tesoro, conosci la via?» chiesi andando vicino la coppia formata dalla moretta sorridente e la bruna formosa.

«Certo che la so: sessantaduesima strada e Margot in una parallela» biascicò afferrando il suo viso con le mani. Bene, almeno sarebbero potute rientrare. «Mi raccomando», mi rivolsi ad Eric. «Per qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi. Anche se di problemi ne ho già avuti abbastanza per una serata» asserii facendo un cenno con la mano. Quasi sicuramente lo avrei trovato l'indomani in cucina a darmi fastidio come suo solito.

«Qualche spasimante troppo focoso per i tuoi gusti? Hanno provato a infilarti la lingua in bocca e ti sei inacidita? Se qualcuno è stato troppo insistente, però, se la vedrà con me! Dimmi solo chi è stato!» si infervorì. Era un sollievo sapere di avere qualcuno che mi coprisse le spalle.

«Nessuno, anzi... vorrei chiederti una cosa: c'è qualcuno che si assicura che tutti siano capaci di ritornare a casa come stiamo facendo noi con le nostre amiche?» domandai ingenuamente.

Eric ci pensò qualche attimo prima di attirare a sé le due donzelle e afferrarle ancor più saldamente.

«Sei in una botte di ferro. Con Josh al timone nessuno è perduto, saranno tutti nei loro letti senza rendersene conto!»

Prima di andare mi lanciò un occhiolino e stranamente mi sentii molto più leggera.

***

La mattina seguente la sveglia tuonò più forte del solito a causa dei postumi della sbornia. Cercai di fare mente locale su cosa mi sarei dovuta aspettare da quella giornata ancora prima di aprire gli occhi.

Sbuffai mentre, molto lentamente, un piede toccava il suolo. Era una di quelle mattine obbligate, la prima di una lunga serie. Il ritorno in università segnava un ciclo di ore infinite di lezioni e altrettante di studio, con l'unico fine quello di conseguire la laurea.

Misi il secondo piede a terra controvoglia dando avvio al mio ultimo anno.

Mi diressi in cucina credendo che da un momento all'altro una testolina bionda sarebbe sbucata da qualche parte solo per infastidirmi, ma ciò non avvenne.

Preparai una tazza di latte bollente bevendolo lentamente: cercai di rilassarmi e di pensare positivo per quanto possibile. Avevo un po' di mal di testa e mi interrogai su come sarebbero state le altre.

Durante quella misera colazione ricevetti un messaggio da parte di Nathan che mi informava che ci saremmo visti direttamente a lezione e che appena possibile mi avrebbe presentato il cugino, Caden.

Ci misi circa dieci minuti per arrivare in facoltà guidando il maggiolino di Emma. Ero in perfetto orario, quasi in anticipo. Potevo asserire di essere tra gli studenti più diligenti. Mai un esame in ritardo e una media universitaria sopra la media. Ci tenevo particolarmente a fare tutto per bene, anche perché era l'unica cosa in cui ero brava.

Il campus dell'UCLA era immenso: vi erano diversi accessi, ma il mio preferito permetteva di bearsi di un viale alberato adornato con cespugli di rovi. Le rose che nascevano in primavera erano splendide, bisognava avere solo un po' di pazienza.

I cortili costeggiavano il perimetro della struttura, mentre le panchine installate permettevano a chiunque avesse tempo di ammirare la natura all'interno di quel recinto di ferro battuto.

Passando dal cancello secondario, mi diressi verso il palazzo della facoltà di economia e giurisprudenza. Ogni dipartimento aveva la propria ala, ognuna con le rispettive aule dove i docenti tenevano lezioni a gruppi di circa cento studenti.

Parcheggiai nel posto riservatomi, afferrando subito dopo la tracolla che sarebbe stata la mia fida compagnia in quell'avventura. A passo svelto mi incamminai verso le gradinate che davano l'accesso ai piani dove si sarebbero tenute le lezioni. Avrei seguito in totale tre materie per quel semestre. La più importante sarebbe stata quel del professor Lynch in "economia aziendale" e si sarebbe tenuta l'indomani. Per quel giorno la professoressa Roberts avrebbe tenuto la classe di "finanza", mentre il professor Wilde quella di "statistica III". Erano tutti insegnati che conoscevo e che mi avevano seguito durante il triennio. Erano dei pilastri del corso di Management aziendale e ogni nozione appresa sarebbe stata più che utile per entrare nella mentalità della gestione d'impresa. Nel momento in cui mi incamminai per i corridoi esterni ricevetti una chiamata da parte di Nathan sul cellulare.

«Ehi, Amy, buongiorno» squillò con la sua voce.

«Buongiorno anche a te. Allora dove posso incontrarvi, siete già arrivati in facoltà?» chiesi sperando di poter conoscere al più presto il cugino del mio migliore amico.

«In realtà no, Dylan ha fatto le ore piccole questa notte e penso ci vedremo durante la pausa dalle lezioni, volevo avvisarti di questo.» In sottofondo udii una voce maschile un po' bassa e calda. Sicuramente non quella roca di Nathan, che urlava "scusa, colpa mia". Risi imbarazzata.

«Non c'è problema.» Varcai la soglia di ingresso dello stabile salendo verso il secondo piano.

«Ti devo offrire un pranzo!» Era il nostro modo per sdebitarci l'un l'altro. Ma non ne vedevo il motivo, non mi aveva dato buca.

«Se è carina gliene offro uno anche io» sentii in sottofondo.

«Dylan, smettila! Amy, non farci caso, lo costringerò a comportarsi bene» tentò Nathan.

«Tranquillo, Nate. Ci vediamo dopo. Baci.»

«Certo, a dopo.» Ma prima che mettesse giù il telefono, sentii pronunciare "ma come ti viene in mente? È molto carina, ma tu non de-".

Rimasi lusingata, tanto da arrossire.

Scossi il capo percorrendo l'infinito corridoio grigio che mi avrebbe condotto dinanzi l'aula 139, cui la professoressa Roberts era la docente assegnata.

Aprii la porta dal maniglione antipanico notando, con mio sommo piacere, di essere fra i primi arrivati. Mi sedetti all'estrema sinistra della terza fila, traendo fuori dallo zaino gli appunti e tutto ciò che mi sarebbe potuto servire per assistere al meglio a quella lezione.

In una mezz'ora l'aula si riempì, facendo il pieno di volti nuovi e di altri appena conosciuti. Purtroppo, non avrei frequentato quel corso né in compagnia di Nathan, né di Cassidy.

La lezione era ormai iniziata da circa una decina di minuti quando la porta dell'aula venne aperta di colpo provocando un rumore sordo e stridente che catturò immediatamente l'attenzione dei presenti.

Trattenni il respiro alla vista dell'artefice di quel casino, incredula.

Il moro del falò frequentava l'UCLA?

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