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Capitolo 7 - La partenza di Gavister

Alira era partita assieme allo spettro e l'unico che non andò a salutarla fu Gavister.

Il ragazzo ancora si vergognava di quella che riteneva essere stata codardia: aveva rinunciato a pugnalare lo spettro alla presenza di guardie e autorità e a vendicare l'assassinio del fratello maggiore. Ce l'aveva con il nonno e con sé stesso: lavare nel sangue quanto era accaduto quella triste notte era compito suo.

Lo spettro, però, se ne era andato e ormai era già lontano, chissà dove lungo la strada.

Gavister finì per isolarsi di nuovo. La voglia di stare in mezzo alla gente, conosciuta o meno, gli era venuta a mancare e trascorreva le giornate riparato dall'ombra del solito albero.

E adesso? Cosa faccio?

Gavister rifletteva mentre esaminava con attenzione la spada che era stata del fratello.

Lo spettro ormai sarà arrivato ad Amarax. L'unico modo di ritrovarlo è recarsi lì... ma neanche so dov'è! Mi sento così vuoto e inutile. Possibile che abbia perso la mia unica occasione?

Più ci rifletteva e più si sentiva un fallito. Aveva avuto un'occasione e l'aveva sprecata. Sapeva che sarebbe finito sulla forca se ci fosse riuscito o se ci avesse anche solo provato. Ne era consapevole, ma la sua parte più profonda si agitava senza tregua.

Gli spettri sono tutti uguali? Pare di sì... è quasi impossibile riconoscerne uno tra tanti, rimuginava, gli occhi puntati sulla lama e le dita che la carezzavano.

Eppure devo ritrovarlo! L'omicidio di Ungar non può restare impunito, non deve!

Il cielo, proprio come il suo cuore, si stava rannuvolando. Era il pensiero del fratello a tormentarlo: in fondo gli doveva qualcosa, lo sentiva.

Come trovo la città dei maghi? Come faccio a trovare quello spettro? E una volta trovato? Lo uccido ad Amarax? A un palmo di naso dai maghi più potenti di Agura? Ah, sono tutte scuse! Sei un codardo, e lo sai.

La sua mente si soffermò al momento in cui Baltigo aveva ucciso Ungar. Rivide tutto il loro combattimento, attimo dopo attimo, movimento dopo movimento; e più ci pensava e più le sue mani tremavano in maniera incontrollata.

Se Ungar è stato ucciso in forma di licantropo, come posso ammazzare lo spettro responsabile della sua morte?

Gavister rimase seduto lì, la schiena appoggiata al tronco dell'albero.

Devo mettermi in viaggio subito, altrimenti lo perderò. Eppure più penso di incontrarlo e averlo di fronte e più il mio corpo trema; e faccio fatica a fermarlo. No, no, no! Lo farò! Rintraccerò lo spettro e farò quello che avrei dovuto fare durante la cena.

Gavister aveva deciso ed era diventato risoluto al riguardo: avrebbe lasciato Mifa e si sarebbe diretto ad Amarax. Non aveva soldi, ma sapeva riconoscere frutti e funghi sani da quelli velenosi e sapeva come cacciare la piccola selvaggina, però ignorava la strada per la città dei maghi e come seguire le tracce altrui.

Mi serve una mappa. È l'unico modo che ho per arrivarci.

Gavister rinfoderò la spada del fratello e corse in città. Sapeva benissimo dove trovare quel che stava cercando e, una volta entrato nel negozio prescelto, chiese una mappa di Agura.

Il proprietario prese un rotolo di pergamena infilato in un vaso di terracotta e glielo porse.

«Una mezza corona di bronzo, prego.»

Gavister srotolò la pergamena e la vide: Amarax, la città dei maghi, la città in mezzo alla terra di nessun re o imperatore.

«Allora, ragazzo?» domandò il proprietario, tendendo il palmo aperto.

Gavister neppure alzò gli occhi per guardarlo e lanciò al proprietario la mezza corona. La mappa era di nuova realizzazione; infatti i regni che esistevano fino a qualche anno prima erano scomparsi dalle carte geografiche e quella che Gavister stava tenendo in mano non faceva eccezione: la geografia di Agura era in vena di cambiamenti continui, specialmente negli ultimi tempi.

Uscì dal negozio e tornò a casa. Passò dalla porticina del retrobottega sperando di svicolare in casa per raccogliere la sua roba per il viaggio. Maurice stava lavorando in bottega e i rapporti con il nipote erano ancora piuttosto tesi. Il vecchio calzolaio aveva tentato più volte di confrontarsi con il nipote con maggiore serenità, ma Gavister lo aveva sempre evitato.

Il ragazzo infilò i suoi poveri stracci in una sacca e si affrettò a nasconderla sotto il materasso di paglia. Aveva in programma di partire in piena notte, quando Maurice sarebbe stato preda del sonno più profondo.

Così fece. Muoversi con il buio non lo spaventava; non ne aveva mai avuto paura e conosceva la città e la zona appena fuori le mura come il palmo delle sue mani.

L'unico vero problema sarebbe stato imboccare la strada giusta per arrivare a destinazione. Perdersi nell'oscurità della terra senza controllo sarebbe stata una disgrazia, soprattutto in virtù del fatto che persino avventurarsi in quelle lande di giorno era considerata, quantomeno, un'imprudenza.

Gavister aspettò che la notte, ostacolata qua e là da qualche braciere, avvolgesse Mifa e dintorni, dopodiché sgattaiolò fuori di casa. Aprì il portone di legno della bottega: era pesante e scricchiolava. Fece attenzione a fare meno rumore possibile e strisciò all'esterno, il fagotto sulle spalle.

Si diresse alle porte della città; il passo felpato e l'atteggiamento guardingo, neanche fosse un prigioniero in fuga.

Durante la notte i cancelli venivano chiusi e presidiati, così dovette trovare una soluzione alternativa: si arrampicò sulle mura sfruttando qualche rientranza e qualche sporgenza che si era fatta vedere con l'usura del tempo.

La notte umida e fredda non lo intimoriva, ma l'ignoto gli fece venire un fremito quando in cima alla cinta muraria guardò di sotto. Fortuna che era sempre stato un gatto antropomorfo nell'arrampicarsi e, proprio grazie a questa abilità, riuscì a mettere piede a terra senza sfracellarsi.

Gavister si ritrovò fuori, immerso nel buio più avvolgente, e afferrò una torcia spenta che aveva preso e infilato nel fagotto. Così, non volendo attendere la luce del giorno, prese un acciarino e l'accese.

Era pronto. Riprese il sentiero e via, passo dopo passo verso la meta. Un paio di minuti più tardi si voltò, un'ultima occhiata a casa.

Tornerò presto! Tornerò? Basta avere paura! Lo spettro deve morire... in un modo o nell'altro io lo ucciderò.

Al sorgere del sole, trovò una tavola di pietra che spuntava dalla nuda terra: "Cobamir, cinquanta leghe".

Cobamir era una città del regno di Onar, confinante con il regno di Atla. I domini di re Battigar erano gli unici ad Agura a non confinare con le terre senza controllo. Gavister aveva studiato la mappa più e più volte prima di partire e sapeva bene che avrebbe dovuto camminare nelle terre di Onar per un po'.

Cobamir era sita più a est rispetto alla sua attuale posizione e recarvisi significava allontanarsi dalla destinazione. Tuttavia Gavister era troppo intelligente per ignorare che Cobamir rappresentava l'opportunità di comprare qualche provvista e dormire in un posto diverso dall'erba bagnata dalla rugiada. Si sentiva stanco dopo aver camminato tutta la notte e il dolore ai piedi non gli dava tregua.

Si riposò qualche minuto, tolse i calzari e si massaggiò i piedi. Sentiva l'erba umida infilarsi tra le dita, mentre gettava lo sguardo in avanti. Sulla mappa, il tratto di Onar da attraversare era solo una strisciolina di terra, ma la distanza che si interponeva tra Mifa e Onar era molto più sottile.

Mi toccherà camminare un bel po'. Cobamir mi attira, ma finirei troppo lontano da dove devo andare. Passerò per le montagne. Spero ci sia un passaggio attraverso cui tagliare.

Si rimise i calzari e riprese il cammino. Al di là di qualche nuvola, si prospettava una giornata ideale per la traversata. I pendii con cui ebbe a che fare erano clementi, il sentiero ben segnalato e pulito. Incontrò solo qualche animale al pascolo. Tagliò attraverso uno stretto sentiero e si ritrovò sull'altro versante della montagna. In fondo alla valle sorgeva un villaggio fatto di agricoltori. Gavister si avvicinò a una fattoria e lì scorse un vecchio impegnato a irrigare il proprio fazzoletto di terra.

«Mi scusi» lo approcciò il ragazzo. «Ha qualcosa da vendermi? Mi basta anche un tozzo di pane.»

Il vecchio lo squadrò.

«Ma lo sai, ragazzo, quanto è difficile avere del pane? Siamo in tempo di guerra e il cibo costa fatica.»

«Vi do mezza corona di bronzo per una pagnotta.»

«Troppo poco.»

«Ma... è tantissimo invece!»

«Forse da dove vieni tu! A proposito, da dov'è che vieni?» chiese il vecchio, le mani strette al forcone.

«Vengo da Osling.»

«La guerra non è ancora arrivata da voi, ma lo farà presto.»

«La guerra?»

«Buon Dio, ragazzo! Non lo sai? I golgothiani si divertono con le loro scorribande qui intorno.»

«Ma... i golgothiani sono una tribù del sud... dell'estremo sud.»

«Sì? Fallo presente quando arriveranno!»

«Se sono così vicini, perché rimanete qui?»

«Ogni tanto cavalcano nella zona senza controllo, nelle vicinanze.»

«La zona senza sovrani dista molto da qui?»

«Un paio di giorni a piedi da quella parte» spiegò, indicando la via.

«Dico, non vorrai mica avventurarti laggiù!»

«Voglio raggiungere Amarax. Sapreste mettermi sulla strada giusta?»

«Sei un mago?»

«No.»

«Allora che ci vai a fare?»

«Questi sono fatti miei!» sbottò Gavister.

«Comunque il pane potrei anche dartelo per mezza corona di bronzo; in più ti do anche un consiglio gratuito: tornatene da dove sei venuto. Una spada non fa di te un guerriero. Se i golgothiani ti beccano nella terra senza controllo, nessuno verrà a salvarti.»

«Questi sono problemi miei! Questo pane?» chiese Gavister, la mezza corona già in mano.

Il vecchio entrò in casa e gli diede una mezza pagnotta che, dall'aspetto, doveva essere fresca di giornata.

Gavister si allontanò abbastanza da essere fuori dal campo visivo del vecchio impiccione prima di fermarsi e addentare il pane in santa pace.

Un paio di giorni a piedi. Non erano molti, ma non sapeva quanti giorni sarebbero stati necessari per arrivare a destinazione.

Alira e lo spettro sono partiti con due giorni di vantaggio rispetto a me, ma io sono andato veloce. Credo che potrei raggiungerli prima di Amarax, se trovassi la strada giusta. Tuttavia, forse lo spettro conosce una scorciatoia, una via segreta, o magari magica.

Gavister si avviò senza troppo curarsi degli avvertimenti del vecchio; in fondo era piccolo e attento e, qualora avesse visto i golgothiani, si sarebbe nascosto da qualche parte, magari su un albero.

Passo dopo passo, rifletteva.

Perché ai golgothiani dovrebbe interessare uno come me? Sono solo e non sono una minaccia per loro. Stando alla mappa, la città dei maghi dovrebbe trovarsi sul fiume Mirith, rifletté Gavister, srotolandola per l'ennesima volta. Mi basterà trovarlo e seguirne il corso a ritroso.

Quel che doveva fare era andare tutto a ovest, fino a imbattersi nella corrente d'acqua, e poi proseguire verso nord.

Dopo aver preso quella decisione, fu assalito dalla consapevolezza che per evitare di perdersi avrebbe allungato la strada. Fu così che abbandonò la speranza di raggiungere Baltigo prima che mettesse piede ad Amarax.

Quando il sole divenne alto, sentì la terra tremare. Vacche impazzite scendevano dai monti come fossero rincorse dal diavolo in persona con tanto di forcone. In cima ai monti c'erano dei rifugi fatti di sassi per i vaccari che portavano gli animali alla transumanza. Una fuga tanto frettolosa e tanto disordinata non era usuale. Dietro di loro correva un tizio corpulento agitando le braccia.

«I golgothiani! I golgothiani!» urlava senza sosta.

Questo è il modo migliore per farsi notare, pensò Gavister che, per tutta risposta, si fece piccolo piccolo dietro una roccia. Se vengono dall'alto e seguono quel tizio, non mi vedranno mai se resto nascosto qui.

Il vaccaro corse giù fino al fondovalle, costeggiando il pendio scosceso della montagna che stava per lasciare. Gavister si aspettava da un momento all'altro di vedere dei selvaggi spronare i cavalli all'inseguimento. Aspettò parecchi minuti, ma non vide passare nessuno. Niente urla selvagge, niente spade roteanti nelle mani di uomini senza civiltà. Allora si rialzò e si rimise in cammino.

Chissà cosa ha visto quel pazzo.

Proseguì con circospezione. Il desiderio di vedere cosa lo attendeva era forte e non seppe resistere. Salì da dove era sceso il vaccaro, passando tra i cespugli e nascondendosi tra le rocce. Sembrava non dovesse arrivare nessuno e, infatti, nessuno stava per arrivare. I golgothiani, se veramente erano stati visti, avevano preso un'altra strada.

Gavister, dalla cima del monte, poté guardare verso l'orizzonte, ma vide solo quanto avrebbe dovuto camminare. Adocchiò un secondo villaggio che doveva essere vicino al confine e si disse che l'avrebbe raggiunto entro il tramonto, marciando forzatamente.

Quando si infilò in un pagliaio di nascosto per dormire al coperto, la notte aveva già dato il cambio alla sera. Si addormentò rannicchiato e nascosto nella paglia, qualche vacca a fargli compagnia. Alcune ore dopo, uno scampanellio infernale lo ridestò bruscamente.

«Aiuto! Aiuto!» sentì gridare.

Ebbe a malapena il tempo di rimettersi in piedi che sentì odore di bruciato: la stalla stava prendendo fuoco. Fu allora che Gavister ebbe paura per la seconda volta in vita sua: non la paura che hanno i bambini, quella insignificante dovuta a qualche piccola sciocchezza, ma quella vera che mette in pericolo te o le persone a cui vuoi bene.

Una freccia infuocata entrò da una feritoia e subito la paglia prese fuoco.

Si catapultò fuori da dove era entrato.

La gente urlava e scappava, inseguita da strani animali, troppo lenti per essere cavalli e troppo tarchiati per essere vacche, cavalcati da figure troppo imponenti per essere uomini normali. Gavister sgattaiolò per i viottoli del villaggio e si fece piccolo dietro a un carro vuoto vicino alla stalla. Il pagliaio bruciava, le vacche muggivano e Gavister avrebbe voluto aprire loro la porta e lasciarle fuggire, ma il rumore frenetico degli zoccoli, le urla degli uomini del villaggio e le grida di guerra degli assalitori lo avevano paralizzato.

Gavister, sta' zitto!, continuava a ripetersi. Non ti muovere... ché se ti beccano! Questi mi fanno a pezzi! Chi sono? I golgothiani?

Non li aveva mai visti prima e anche in quella circostanza vide solamente delle sagome passare di sfuggita, le loro ombre distorte al bagliore del fuoco che incendiava il villaggio. Cominciava a pentirsi di essersi avventurato così lontano da casa; tuttavia il pensiero di Ungar restava presente in prima fila nella sua mente. Teneva gli occhi chiusi, la testa china e le mani strette attorno ai raggi di una ruota del carro. Tremava e non riusciva a smettere. Frecce vaganti caddero alle sue spalle e sugli edifici accanto. Un urlo di terrore gli morì in gola quando notò una freccia infuocata infilzata nel terreno a un passo da lui. Strisciò sotto il carro sperando di cavarsela. Aprì gli occhi e pochi passi più in là si fermarono due animali a quattro zampe. Nel buio, Gavister ebbe difficoltà a vedere.

«Hugai, perché non prendi parte alla battaglia?»

Le parole suonavano aspre pronunciate da quella voce, ma Gavister non riconobbe né lo strano accento e né quella lingua indecifrabile. Le sue uniche preoccupazioni furono mantenere la calma e sperare di passare inosservato.

«Perché non è una battaglia. Hai dato ordine di razziare questo villaggio e cosa hai trovato? Vecchi, donne, bambini e qualche uomo incapace di difendersi.»

La seconda voce suonava calma, impassibile e fiera, ma non meno cruda.

«Cosa ti aspettavi? Gli uomini di queste terre sono deboli. Non troverai una forza in grado di opporsi a noi, qui.»

«E dove la troverò?»

«Anche i loro soldati tremano di fronte a noi. Quanti di quelli che queste insulse creature chiamano regni sono caduti grazie alle nostre lame?» ruggì, lasciando cadere a terra il cadavere di un uomo. Probabilmente, da come era precipitato a terra, lo aveva tenuto sollevato, penzolante, con una sola mano.

«Non c'è onore nell'uccidere chi non sa combattere.»

«L'onore è quello che cerca un guerriero. Cerca! Non trova!»

«Me ne vado. Tanto non ti serve la mia lama.»

Fece per dare seguito alle sue parole, quando l'altro lo fermò.

«Hugai, non tollererò questo comportamento un'altra volta.»

«Non minacciarmi. In un duello d'onore potresti non vincere tu!»

Gavister ascoltò tutta la conversazione, stando bene attento a non respirare con troppo vigore.

Vattene! Ti prego, vattene!, implorò, stringendo la terra nei pugni.

Il guerriero restò fermo a guardare Hugai allontanarsi.

«Testardo arrogante» disse, prima di sputare a terra, il tono più aspro possibile ma non troppo alto: non voleva far sentire quelle parole al destinatario.

Il golgothiano spronò la bestia che cavalcava e galoppò nella direzione opposta.

Gavister restò lì ancora parecchi minuti, incurante delle frecce o delle urla, il cuore che batteva all'impazzata e gli occhi sbarrati sul corpo martoriato che giaceva di fronte a lui. Avrebbe potuto allungare la mano e toccarlo se lo avesse voluto.

Il carro venne colpito da qualche freccia infuocata vagante e cominciò a bruciare. Gavister era paralizzato dal terrore, ma se fosse rimasto rintanato lì sarebbe stato arso vivo.

Dai, muoviti!, ripeteva a sé stesso e alle sue gambe; alla fine trovò, neanche lui seppe dove, la forza di spostarsi.

Strisciò nel fango e sperò che il suo fisico striminzito e il buio lo rendessero difficile da notare in mezzo a quel trambusto.

Per sua fortuna, il pagliaio in cui era nascosto era vicino ai pascoli e alle colline poco più in là. Se fosse riuscito a raggiungerle, forse l'avrebbe scampata.

Sono vicine. Posso farcela!, si ripeteva mentre strisciava, i vestiti sporchi di fango.

Una sagoma fuori misura, in groppa a una cavalcatura altrettanto fuori misura, avanzò. Gavister rotolò in un cumulo di paglia che si era miracolosamente salvato dalle fiamme.

La sagoma smontò a qualche passo dal ragazzo.

Non venire qui, ti prego! Vattene! Fai quel che vuoi, ma non trovarmi.

Attraverso le pagliuzze, Gavister vide un bagliore di luce avvicinarsi e capì che proveniva da una torcia.

Ti prego, no, non bruciarlo! Non dare fuoco alla paglia! Per pietà... per pietà... per pietà...

Il ragazzo aveva una gran voglia di chiudere gli occhi e attendere il passaggio della tempesta, ma i suoi occhi rimasero sbarrati e vide solo due piedi scalzi e due lunghissime gambe cianotiche. Muoversi avrebbe significato muovere la paglia e attirare l'attenzione su di sé, perciò non osò alzare oltre lo sguardo.

Il golgothiano sferrò un calcio alla porta di legno e la buttò giù come fosse di carta velina.

«Venite, l'ho trovata!» urlò, facendo cenno con la mano.

Il cuore di Gavister si fermò per un lungo e interminabile momento.

Ne arriveranno altri? Ne arriveranno altri... mi scopriranno e mi ammazzeranno.

Non aveva mai sentito tanto freddo, pur sudando tanto in vita sua. Avvertì la terra fremere sotto il peso del galoppo di quegli animali che ancora stentava a focalizzare. Altri golgothiani entrarono in quell'edificio attraverso la porticina.

Non muovere un muscolo! Non respirare nemmeno!, seguitava a ripetersi Gavister.

A quei golgothiani interessava soltanto la dispensa che avevano scoperto e razziare quel che c'era dentro. Erano talmente presi dal portarsi via tutto che si sarebbero interessati a lui soltanto se il ragazzo fosse sbucato dalla paglia cantando a squarciagola. Uno di loro restò davanti alla porta facendo luce e quando ebbero finito – non ci impiegarono più di qualche minuto – rimontarono sui loro mezzi di trasporto e filarono via.

Gavister rimase rintanato nella paglia fino all'alba e oltre. Protese le orecchie alla ricerca di qualsiasi rumore sospetto, ma non udì nulla. Prese coraggio e si guardò intorno con circospezione. Il suo corpo si rifiutava di uscire da quel nascondiglio sicuro: tremava da capo a piedi e mai si era fermato, neanche per un solo istante, quella notte. La luce del sole quasi lo accecò e, alla fine, trovò il coraggio di uscire. Quando si alzò, si rese conto di quanto fosse lurido, tutto sporco di fango; attorno a lui solo case bruciate e cadaveri distesi lungo le strade del villaggio. Neppure i bambini avevano risparmiato. All'improvviso il suo cuore venne stretto in una morsa: aveva disimparato a parlare, quasi a pensare perfino. Si lasciò cadere a terra, seduto, le ginocchia leggermente piegate e i gomiti poggiati su di esse. In quel momento si dimenticò completamente di Ungar, dello spettro e di Amarax. Nulla aveva senso. Rimase imbambolato, lo sguardo perso nel vuoto e la bocca socchiusa, per tutto il giorno.

Il sole si fece rosso e tiepido e finì col nascondersi dietro l'orizzonte. Gavister era al sicuro tra i resti del villaggio: i golgothiani non avevano motivo di tornare dopo la razzia. Ma fermarsi era improponibile, così cercò di focalizzare la mente sulla ragione che lo aveva spinto fuori dalla porta di casa.

Ungar! Devo vendicare Ungar! Avanti, muoviti! Devi lasciare questo posto, trovare e risalire il fiume, andare ad Amarax e uccidere lo spettro.

Gavister si mise in piedi e si affacciò alla dispensa, ma era vuota. Aveva un bel pezzo di strada da fare prima di entrare nelle terre senza controllo. Camminò senza sosta fino all'alba e, quando il sole fece capolino al di là della linea dell'orizzonte, scorse un recinto mezzo marcio e abbandonato che, stando al rudere all'interno, doveva delimitare una vecchia fattoria. Poco lontano, inchiodato al tronco di un grosso albero avvolto dall'edera, spuntava un cartello. Gavister lo liberò dal rampicante e lesse: "Pericolo! Inizio terra senza controllo".

Buttò gli occhi in avanti, ma quel che vide gli parve simile alla terra che si era lasciato alle spalle. Se la immaginava diversa, non sapeva bene come, ma diversa, comunque.

Questa è la terra senza controllo? Mi pare identica a quella che ho appena passato. Chissà cosa incontrerò d'ora in avanti! I mercanti che attraversano questa parte di mondo si fanno accompagnare da una scorta ben armata. Eppure sembrano esserci gli stessi alberi e forse gli stessi animali... Basta esitare! Meglio non pensarci troppo.

Gavister deglutì e poggiò un piede appena al di là del cartello. Con questo era entrato nella terra senza controllo. Si girò per un attimo, fece un respiro profondo e proseguì. Al contrario dello spettro, lui era a piedi e neanche sapeva dell'esistenza di un pegaso. Ci avrebbe messo molto più tempo ad arrivare a destinazione. Aveva poche informazioni e solo una mappa per orientarsi.

Dubito che ci sia una strada indicata dai cartelli, ma dovrà pur esistere una via visibile per arrivarci; altrimenti nessuno che non ci sia già stato riuscirebbe a trovare Amarax. Ci deve essere per forza una qualche indicazione.

Gavister infilò la mano in tasca e guardò attentamente la mappa. La carta era chiara: direzione nord-ovest. Aveva camminato molto, ma nulla conosceva delle terre che aveva calpestato e, se anche un tempo fosse esistito un sentiero, una strada o una mulattiera, adesso aveva lasciato spazio alle erbacce e agli arbusti. Trovare il fiume era l'idea migliore.

Cerca un punto di riferimento e tienilo stretto, si disse.

Camminò e camminò stando attento a evitare i campi erbosi e i tratti troppo scoperti. Fu facile avere questi accorgimenti, visto che la natura aveva ripreso possesso delle terre senza controllo da quando gli insediamenti umani erano stati abbandonati. I rampicanti crescevano selvaggi, impadronendosi dei ruderi, mentre gli arbusti e gli alberi occupavano ogni lembo di terra in compagnia delle erbacce. L'erba era tanto alta che gli arrivava al ginocchio e i rovi e gli arbusti erano tanto fitti che doveva aggirarli.

Ogni tanto sussultava a causa del verso di qualche animale. Il timore che potesse essere un urlo di guerra dei golgothiani lo paralizzava. Prestava la massima attenzione a ogni suono, pronto a tuffarsi dietro qualche cespuglio. La paura di quella notte era troppo vivida per essere ignorata. Fortuna volle che la natura, per quanto indisciplinata, fosse anche generosa: frutti di bosco, funghi e radici crescevano in abbondanza.

Gavister tirò avanti per un po' razionando l'acqua che aveva. Calò la notte e si rese conto che aveva da bere soltanto per l'indomani, a dir tanto. Pregò di non essersi perso.

Ormai il fiume deve essere vicino. Una volta raggiunto, l'acqua non sarà più un problema e neanche il cibo... credo che cresca qualcosa nei pressi del fiume.

Si addormentò, stravolto, tra le radici di un faggio, che spuntavano dalla terra come lunghi serpenti di legno tortuoso.

Si ridestò all'alba, baciato dal sole. I piedi gli facevano male e neanche più il riposo serviva a lenire il dolore, ma doveva proseguire. Un piede avanti all'altro, un passo dopo l'altro, finché non inciampò in un rovo e cadde faccia a terra. Si massaggiò la caviglia per qualche minuto e si rimise eretto, la fitta alla gamba per il volo.

La terra sussultò sotto ai suoi piedi; eppure lui era fermo e niente era in vista. Quella scossa che si propagava attraverso il terreno aveva un che di famigliare. L'aveva udita quando la mandria di vacche era calata giù per la montagna e quando i golgothiani avevano assalito il villaggio. Le sue gambe presero a tremare.

Da che parte arriveranno? Da che parte scappare? Se resto qui, mi vedranno. L'erba mi arriva sotto il ginocchio! Non posso nascondermi.

Vide le sagome di una mandria correre all'impazzata. Proveniva da lontano, da sud. Erano bestie enormi e ognuna aveva un cavaliere. Nonostante la volta precedente fosse buio, li riconobbe e sfrecciò nella direzione opposta, in cerca di un riparo. Forse gli dolevano ancora i piedi, o forse no. Non era il momento di badarci: doveva solamente allontanarsi il più possibile e il più in fretta possibile. Poco importava se si stava allontanando dalla destinazione oppure no. Voleva portare a casa la pelle.

Ti prego, fa' che non mi abbiano visto. Magari da così lontano non mi hanno notato. Ti prego, fa' che sia così, supplicava, mentre filava via senza guardarsi indietro.

Sgattaiolò velocemente tra gli alberi. Dove nascondersi? In una tana o tra le fitte fronde di un albero? Per arrampicarsi serviva tempo e avrebbe perso il poco vantaggio che aveva. Anche trovare una tana abbastanza grande in cui rannicchiarsi corrispondeva a un miracolo. Si imbatté in un albero dal tronco storto, facile da scalare. Saltò su di esso e, agile come un gatto, raggiunse il fitto delle fronde.

«Perché siamo finiti qui?» chiese uno.

«Avevo visto qualcosa.»

«Sicuro?»

«Certo, per chi mi avete preso?»

«Era qualcosa di piccolo» parlò un terzo.

«Ve l'avevo detto! Eppure non può essere scomparso.»

Gavister restò immobile, cercando di mimetizzarsi tra il verde delle foglie. Non capì una parola di quel che dicevano, visto che parlavano nella loro lingua.

«Andiamocene! Non c'è niente!»

Spronarono quelli che Gavister poté vedere essere bufali dal pelo lungo e folto, tornando da dov'erano venuti. Il ragazzo sbirciò guardingo tra i rami e tirò un sospiro di sollievo. Si mosse per scendere, quando una freccia gli passò a un paio di centimetri dal naso e si piantò sul tronco dell'albero.

«Scendi!» sentì provenire da terra, la voce dura e inflessibile.

Questa volta capì: il golgothiano aveva parlato nella lingua degli uomini.

«Scendi o la prossima te la ficco in un occhio!»

Gavister, senza nemmeno pensarci, si spostò di ramo in ramo. L'istinto stava facendo il lavoro sporco per lui, ma il golgothiano aveva poca pazienza. Quando Gavister si aggrappò al ramo di un altro albero venne sfiorato da una seconda freccia. Provò a nascondersi da qualche altra parte, ma il suo inseguitore era attento e lo ritrovò nuovamente. Allora Gavister si buttò a terra e prese a correre. Sperava che la mole del bufalo e quella del cavaliere ostacolassero il suo inseguimento nel fitto sottobosco, ma il golgothiano smontò e lo inseguì a piedi. Aveva gambe lunghe e il passo rapido. Balzò, dandosi lo slancio poggiando il piede su un tronco, e si aggrappò a una fronda, poi un colpo di reni e atterrò dinanzi al ragazzo, che puntò i piedi per fermarsi e cadde all'indietro, le chiappe a terra.

«Fermo, piccolo esemplare di uomo!» gli intimò, l'arco stretto nella mano destra e la faretra che pendeva dalla schiena. Gavister fece correre lo sguardo dai piedi nudi fino al volto attraverso quella mastodontica figura. Era la prima volta che aveva occasione di guardarne uno così da vicino e alla luce del sole: doveva essere alto ben oltre i due metri, il corpo snello ma muscoloso e la pelle cianotica, le labbra blu, gli occhi perlacei e i capelli bianchi e lunghi raccolti in una treccia; fatta eccezione per il pettorale in cuoio, la faretra e un gonnellino sorretto da una cinghia, era praticamente nudo. Torreggiava su di lui, il gelo negli occhi.

«Alzati, piccolo esemplare di uomo!»

Gavister ubbidì e in un attimo di puro istinto estrasse la spada, il corpo tremante da capo a piedi.

«Metti via la tua lama.»

Gavister indietreggiò pian piano, gli occhi girovagavano furtivi lì intorno.

«Vuoi scappare? Hai paura? La fuga non è una scelta possibile e non è mai onorevole.»

Gavister sudava e tremava; senza spiegarsi il perché cacciò un urlo e si lanciò contro il nemico, la punta della spada rivolta al cielo. Il golgothiano gli stampò un piede in faccia e lo fece stramazzare a terra svenuto. Il guerriero infilò due dita in bocca, fischiò e il suo bufalo lo raggiunse. Era sellato e lì il golgothiano teneva la sua spada. Afferrò Gavister per la maglia – la mano enorme gli copriva tutto il petto – e, senza fatica, lo poggiò sul dorso dell'animale. Il golgothiano montò in sella e raggiunse i propri compagni.

«Hugai, dove sei stato?» chiese Johta.

«Ho trovato questo piccolo esemplare di uomo tra gli alberi.»

«Lo sapevo che c'era qualcosa nel bosco» commentò un altro.

«Perché lo hai catturato?»

«Avrei dovuto lasciarlo fuggire?»

«No, intendo... perché è ancora vivo?»

«Aveva una lama. I guerrieri hanno diritto a farsi valere nella Muhtak.»

«Più lo guardo e più vedo un moscerino. È solo un insetto da schiacciare.»

«Io lo guardo a mia volta e non so se è quello che dici tu. Se così sarà, allora che venga schiacciato nella Muhtak.»

«Ah, Hugai! Tu e la tua fissazione per i rituali e le tradizioni.»

«Metti in discussione le nostre usanze, Johta?»

«Il tempo delle tradizioni e dell'onore è finito. Il mondo è debole. Se non imponiamo noi la forza, la nostra forza, l'unica vera forza, chi lo farà?»

«Di cosa hai paura? Di un piccolo gatto nero che saltava da un albero all'altro?»

«Ah, Hugai! I guerrieri non saltano. Non sono gatti. I guerrieri combattono e muoiono, se serve; ma soprattutto i guerrieri uccidono.» Johta girò attorno a Hugai, in sella al suo bufalo. «Se vuoi portartelo dietro, dovrai badare tu al tuo cucciolo.»

Johta guidò l'orda verso sud. Il viaggio sarebbe stato lungo e i bufali erano lenti. Dopo ore di cavalcata, Gavister era ancora privo di sensi, ignaro che a ogni unghiata di quegli animali sulla terra sarebbe stato più lontano da Amarax e dalla sua vendetta.

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