Capitolo 4 - Lo spettro
«Svelti! Se la luna sorge prima del nostro arrivo a Mifa, saremo in grossi guai» li spronò Talos.
«È più di un'ora che corriamo e siamo quasi fuori dalla foresta: ci siamo quasi!» disse Alira.
Gavister se ne stava zitto, ma teneva il passo. Continuava a rimuginare sulle parole del fratello. Quello sarebbe stato il loro ultimo incontro. Avrebbe dovuto accettarlo senza colpo ferire? Decine e decine di maghi e maghe in tutta Agura e nessuno che fosse in grado di far tornare umano un licantropo? Aveva sentito diverse storie e leggende su magie in grado di mutare il meteo, controllare la stessa terra su cui ora camminava o, addirittura, piegare la realtà al proprio volere fino a intrappolarla in un'illusione.
I maghi sanno fare tutto questo, ma non quello che mi serve, pensò.
Turbato, seguitò a mettere un piede di fronte all'altro come fosse un automa. Troppo sovrappensiero per badare a dove stesse andando, fosse stato per lui avrebbero potuto portarlo in un'altra dimensione e non se ne sarebbe accorto.
La luna iniziava ad affacciarsi sul cielo della tarda sera in attesa di splendere appieno su uno sfondo buio, illuminato da stelle come fossero piccole lucciole incollate a un manto nero.
Ungar si rannicchiò nella parte più interna della sua grotta, pregando che quel tenue bagliore non lo raggiungesse mai, ma la luna era di tutt'altro avviso: il suo influsso irruppe senza riguardo fin dentro la grotta. Ungar sentì un brivido corrergli per il corpo, lungo la schiena, le braccia e le gambe. Sentì la propria carne fremere e le vene sulle tempie pulsare.
«No, no, NO, NO! È ancora presto!» sbottò. «La luna non è ancora alta nel cielo e la sua luce è ancora sovrastata dal pallore del sole» disse, guardandosi le mani tremanti.
Le unghie iniziarono ad allungarsi fino a trasformarsi in artigli. Si spalmò sulla parete di roccia sperando di trovare un rifugio dall'influsso di quell'ancora impalpabile chiarore. Vide la pelliccia crescergli sulle braccia e sulle gambe.
«No, non adesso! Ti prego, dammi altro tempo» implorò.
I sensi si acuirono, segno che la sua preghiera non sarebbe stata esaudita.
Forse sono già usciti dalla foresta. Se hanno corso senza fermarsi mai, saranno quasi arrivati ai cancelli della città, sperò con tutto sé stesso.
La sua mente si stava fissando su un unico pensiero, o meglio su un unico istinto, che era proprio della bestia più che dell'uomo.
«HO FAME!» urlò la creatura dentro di lui.
Gli montò dentro un desiderio folle di sfogare tutti i suoi istinti, ma in lui si fece strada la fiera volontà di dominarli.
«No, no, resisti un altro po'!»
L'urlo rimbombò nella grotta e si rivolse alla luna e al vento. Nessuno dei due lo ascoltò. I denti divennero zanne, le unghie artigli e i capelli e i peli pelliccia: la trasformazione era quasi completa.
Gli occhi si ingiallirono e cominciò a vedere i colori sbiaditi come fosse un vero lupo; tuttavia la ragione dell'uomo persisteva ancora nel corpo della bestia.
«Spero che non siano più qui intorno. Che siano già lontani, al sicuro » disse la coscienza dell'uomo, prima di spegnersi nell'istinto del licantropo.
Il suo ululato risuonò e arrivò alle orecchie dei ragazzi, ormai ai margini del bosco.
«Ungar!» urlò Gavister, come svegliatosi da quel torpore fatto di automatismi di cui era preda.
Si girò di scatto e corse indietro.
«No, fermo!»
Talos gli andò dietro nel tentativo di riagguantarlo.
«Torna in città. Lui lo prendo io!» gridò ad Alira.
Alira li guardò allontanarsi entrambi e proprio non ce la fece a lasciarli a loro stessi.
Il vecchio Maurice stava sbraitando da venti minuti buoni con il capoguardia tra incomprensioni e insulti più o meno velati, anche se questa volta quello che sembrava non sentire, o meglio non ascoltare, non era il calzolaio sordo.
«Vi dico che tre persone sono scomparse nella foresta, capitano!»
«E io vi ho risposto che si saranno attardati per un motivo qualsiasi. E non sono capitano, ma capoguardia!»
«Perché non volete capire, che il cielo vi strafulmini! Sono in pericolo!»
«E per quale motivo?»
«Per le voci che girano sulla foresta nell'ultimo periodo» si giustificò Maurice, ben consapevole di stare mentendo.
«Non vorrai riferirti a quelle del branco di lupi che pare si siano stabiliti nella foresta, vero?»
«Quelle!»
«Non essere ridicolo, Maurice! Ci sono sempre stati lupi nei dintorni di Mifa, ma non attaccano se non provocati.»
«Questi pare di sì. Si dice che nelle notti di luna siano stati trovati brandelli di animali. E questa è una notte di luna!»
«Ah, piantala! Beviti una bella tisana e fatti una dormita. Quando avranno finito di guardare le stelle, o che altro so io, torneranno.»
«Voi non volete capire! Se non torneranno, sarà solo colpa vostra» tuonò Maurice, agitandogli il dito sotto il naso. E mia, aggiunse tra sé e sé.
Marciò a spron battuto verso la caserma della città.
Se ai cancelli nessuno mi ascolta, forse alla caserma qualcuno mi darà retta, pensò.
Non aveva che sperare nella buona sorte.
Se Muscatt mi credesse, sarebbe perfetto.
Non si sarebbe rassegnato e, se non avesse trovato nessuno, sarebbe andato da solo. Entrò nel cortile cintato della caserma, che era di fianco al palazzo. Bloccò un soldato e chiese di parlare con un ufficiale. Venne spedito, dopo varie insistenze, di fronte al graduato di turno e attaccò a spiegare la storia.
«Non possiamo mandare soldati a cercare ragazzini» sbraitò il soldato, battendo il pugno sul tavolo. «Abbiamo abbastanza uomini impegnati sui confini con le terre più a rischio, per rafforzare i presidi. Con queste dannate orde libere nelle terre non governate, tutto è diventato un inferno. Che io sia dannato!» sboccò il soldato.
«Lo so bene questo!» sbraitò Maurice, tirando un destro sul tavolo. «Ho avuto un nipote arruolato e spedito a combattere lontano da qui. Proprio per questo non voglio perderne un altro. È l'unica cosa che mi resta!»
«Un ragazzo che si perde nel bosco appena al di fuori delle mura non è una priorità.»
«Come sarebbe? E se fosse morto?»
«Se fosse morto, allora il nostro intervento non sarebbe più necessario; se, invece, non lo fosse, questo significherebbe che non ha bisogno di noi. In fondo non è la prima volta che ci va, no?»
«No, ma gli animali di cui si vocifera?»
«Quali?»
«Quelli che fanno a brandelli le prede!»
«Ancora con questa storia? Ci sarà qualche lupo qua e là. Non è una novità, no?»
Maurice sapeva del nipote che abitava nella foresta in quel momento. Conosceva anche tutta la sua storia. Ungar gliel'aveva raccontata quando il vecchio calzolaio se lo era ritrovato davanti mentre tamburellava la finestra di camera sua poco prima dell'alba. Si era intrufolato nella città senza farsi vedere ed era riuscito, con prudenza, ad arrivare a casa. Lì, informò il nonno e il fratello della propria condizione e della decisione di tornare da dov'era venuto e vivere come licantropo. Non avrebbe potuto vivere assieme ad altri esseri umani, non più. Fu una decisione dolorosa per tutti, specialmente per Gavister, che sentì il proprio cuore spezzarsi, ma non ci fu altra scelta.
Nonostante ciò, Maurice non poteva raccontare la verità ai soldati. Un decreto imperiale imponeva la caccia e l'uccisione di qualsiasi licantropo venisse avvistato nelle terre dell'impero e la fustigazione per chiunque ne aiutasse o proteggesse uno. La verità avrebbe condannato Gavister tanto quanto Ungar. Di sé stesso, Maurice non si preoccupava. Era vecchio e la sua vita l'aveva bella che vissuta.
«Porco diavolo!» gridò Maurice appena uscito. «Una caserma piena zeppa di soldati e a nessuno frega un cazzo delle persone che dovrebbero proteggere. Maledico quando mio nipote si è arruolato. Giorno peggiore non potevo vivere. E maledico quelle vacche delle vostre madri che vi hanno generato.»
Maurice urlò così forte che tutta Mifa sentì le sue imprecazioni, primo fra tutti il capitano Muscatt, che piombò su di lui.
«Si può sapere perché gridi così?» lo scosse il capitano.
«Perché siete figli di cane e di vacca, e infatti sono nati dei bastardi come voi!» insistette il vecchio calzolaio.
«Stai passando il segno, Maurice! Se continui, dovrò farti frustare.»
«Frustare? Mio nipote e altri due sono scomparsi» riprese a urlare. «E neanche un figlio di cane che voglia aiutarmi!»
«Saranno in città da qualche parte, forse in qualche taverna.»
«Siete addestrati a ripetere tutti le stesse stronzate?» tuonò Maurice, che aveva attirato un bel po' di gente attorno a sé.
Alle loro urla si aggiunse il vociare della gente che si gustava lo spettacolo. Frasi come "Guarda come gliele canta!" o "Ora lo faranno frustare di sicuro" serpeggiarono nei dintorni. Anche Vigo e la madre di Talos diedero manforte a Maurice, confermando che anche Alira e Talos erano scomparsi.
«Sarà un'ora che ve lo dico, porco mondo. Siete soddisfatti ora?» tuonò di nuovo Maurice.
Il vecchio aveva imprecato tanto forte che persino Aristides e Annaluce erano scesi, incuriositi dal baccano.
«Che succede qui?» chiese la contessa.
I sudditi si inginocchiarono, ma Maurice no. Sebbene Muscatt avesse provato a spingerlo a terra con uno strattone, Maurice aveva puntato i piedi e vi era rimasto ben saldo.
«Succede che tre ragazzi sono spariti nella foresta e a nessuno interessa» si fece sentire Maurice.
«Tu chi sei?» urlò Aristides.
«Sono Maurice» rispose stupito dalla domanda.
«Intendo chi sei tu per rivolgerti così a un nobile. Chi sei tu per non inginocchiarti di fronte alla tua signora?» lo provocò Aristides. «Dovrebbero farti frustare!» esclamò.
Quella fu la prima volta che il barone di Montier si guadagnò la simpatia del capitano Muscatt.
«Io sono un nonno preoccupato per il nipote, uno dei muli che paga quelle dannate tasse che pagano i vestiti che indossate. Ero anche un suddito fedele e, se proprio devo dirla tutta, ero il calzolaio del conte fino a oggi, ma da domani non più e per mia scelta» raccolse la provocazione Maurice.
Aristides era diventato paonazzo. Mai prima di allora aveva provato il desiderio di strozzare con le proprie mani un plebeo. Era pronto ad allungarle e sfogarsi quando venne fermato prima di poter dire o fare qualcosa.
«Aspettate! Se è così agitato, una ragione ci deve essere» disse Annaluce. «Quest'uomo ha mai dato fastidio? È mai stato punito in precedenza?»
«No, contessa. Lo conosco e non ha mai creato scompiglio» rispose Muscatt. «Ha sempre fatto le scarpe per la famiglia di Mifa e per i soldati da una vita a questa parte» aggiunse.
«E per mezza Mifa!» si udì il brusio tra la folla.
«Per quanto riguarda quei ragazzi, capitano, organizzate un gruppo di ricerca e mandatelo nella foresta» stabilì la contessa.
«Ma se fossero in qualche taverna...» ipotizzò Aristides.
«Non sono in una dannata taverna. Sono andati nella foresta e non sono più tornati» insistette Maurice.
«Voglio fare un patto con te, vecchio: se torneranno a mani vuote e verrà fuori che erano da qualche altra parte, andrai alla gogna» lo sfidò Aristides.
«Accetto di buon grado!»
Maurice conservò una bestemmia che aveva sulla punta della lingua per un'altra volta, certo che non sarebbero mancate le occasioni. Un ululato risuonò tra le case della città.
«Che cos'era? Un lupo?» domandò la contessa.
Tutti si rimisero in piedi, agghiacciati da quel che avevano udito.
«No, forse un licantropo» ipotizzò Muscatt.
«Non è possibile!» esclamò Aristides. «Quelle creature vivono all'estremo nord, mentre altre all'estremo sud.»
«Si muovono in branco di solito» osservò il tenente.
«Sì, ma c'è stato un solo ululato. Forse uno si è spinto a sud, oppure un uomo si è appena trasformato» ipotizzò Muscatt.
«Quindi andiamo nella foresta?»
«Prendete torce, balestre e spade. Andremo a caccia stanotte!» ordinò Muscatt. «Non posso promettervi niente per i vostri cari» aggiunse.
Maurice si sentì mancare e con lui anche i parenti degli altri ragazzi.
«Quando saremo usciti dai cancelli, sbarrate le porte, tenente, e presidiate ogni ingresso e ogni palmo delle mura» ordinò Muscatt. «Lascio alla vostra cura la contessa, barone.»
«Se davvero volete dare la caccia a quella bestia, verrò con voi» annunciò Aristides.
«Sarete più al sicuro tra le mura» tagliò corto Muscatt, che non voleva dover badare anche a lui.
«Il capitano ha ragione: la sicurezza degli ospiti è sacra!» si intromise Annaluce.
«Da noi è l'onore a esserlo e nessuno può ordinarmi di starmene con le mani in mano» obiettò Aristides. «Non temete, in qualità di inguaribile temerario sono preparato per questo genere di imprese» la rassicurò.
E galopparono alla volta della foresta.
I ragazzi, nel frattempo, si erano nascosti tra i cespugli, nel bosco.
«Hai visto in che pasticcio ci troviamo adesso?» si arrabbiò Talos, stando attento a contenere il tono della voce. «E tutto per colpa tua!»
«Mia?» si stizzì Gavister.
«E di chi, sennò?»
«State zitti! È qui intorno» intervenne Alira.
Rimasero tutti immobili e in silenzio. Non sentivano ululati né ringhi né uggiolii, ma percepivano la presenza della bestia. L'olfatto dei licantropi era sviluppato almeno quanto quello dei loro consimili animali, e lo stesso valeva per gli altri sensi, compreso l'udito. Presto o tardi li avrebbe trovati. Questo loro lo sapevano, ma cosa fare? Scappare nel tentativo disperato di seminarlo o evitarlo? Restare fermi pregando che la notte passasse presto e la luna lasciasse il posto all'alba? Erano idee improponibili da seguire. L'opzione che restava in campo era combattere, ma Talos era l'unico armato e aveva con sé solo un coltello. Non sarebbero sopravvissuti a un confronto.
«Sembra essere andato verso ovest» sussurrò Talos. «Squagliamocela finché siamo in tempo.»
«Muoviamoci in silenzio e stiamo bassi» disse Alira.
«Ok, e tu niente colpi di testa» avvertì Talos.
Gavister annuì. Si mossero attenti a fare meno rumore possibile, non fiatarono e proseguirono quasi carponi.
Si fermarono. Un rumore attirò la loro attenzione. Le loro orecchie erano tese a percepire ogni flebile suono. Era un galoppo che correva lontano.
«È lui?» domandò Talos.
«No, sembrano cavalli» rispose Alira.
«Non ci sono mandrie allo stato brado da queste parti» sussurrò Gavister.
«Saranno montati da qualcuno. Attraversano la foresta di notte?» chiese Talos.
In lontananza videro dei fuochi illuminare tenuemente il bosco e udirono delle voci che giungevano dai piedi della montagna.
«Dove siete? Rispondete se ci sentite!» urlavano gli uomini che pattugliavano ogni palmo del bosco.
Muscatt li aveva divisi in coppie: un uomo reggeva la torcia e la spada e l'altro la balestra. Ordinò che un gruppo pattugliasse il confine della foresta, un altro badasse ai cavalli, mentre un terzo proseguiva a piedi nel fitto sottobosco. L'ordine era di non allontanarsi troppo gli uni dagli altri.
Il capitano pretese di fare coppia con Aristides. Non aveva idea di che tipo di uomo fosse, se un combattente o un pallone gonfiato codardo. Sul pallone gonfiato non aveva dubbi, ma non voleva scoprire la sua codardia o il suo coraggio nel peggiore dei modi.
«Siete un buon tiratore o un buon spadaccino?» chiese il capitano.
«Preferisco la spada alla balestra, e voi?»
«Mi è indifferente.»
Muscatt avanzò accanto ad Aristides che teneva alta la torcia in una mano e la spada nell'altra.
I soldati urlavano e avanzavano risalendo la montagna. Questione di tempo prima di trovare la tana del licantropo e scoprire che doveva essere un cittadino di Mifa aiutato dai parenti che aveva in città, visto che aveva il cambio dei vestiti vicino a quel che restava del fuoco.
«Qualcuno ci sta cercando» sussurrò Talos.
«Forse i soldati» disse Alira.
«Soldati? Ma questo li condurrà a Ungar!» sussultò Gavister.
Riprese a correre, ma Talos lo conosceva bene e lo agguantò quasi subito.
«Sei scemo?»
Questa volta fece davvero fatica a trattenersi.
«Non posso permettere che uccidano mio fratello!» obiettò lui.
«Quello è un licantropo! Ti ammazzerebbe su due piedi e ti mangerebbe senza pensarci troppo.»
«Lasciami andare!» sbottò Gavister.
Talos gli tappò la bocca.
«Ssst!»
Le fronde degli alberi si mossero pian piano nel buio senza che ci fosse un alito di vento. Alira picchiettò sulla spalla di Talos. Il cuore le si bloccò mentre il dito indicava la bestia appollaiata su un ramo. Gli occhi gialli li stavano fissando nell'oscurità.
«Correte!» urlò Talos, tirando in piedi Gavister e trascinandolo per la maglia.
Ungar ululò e si lanciò all'inseguimento. Corsero. Non ebbero la forza di voltarsi, ma non ne ebbero bisogno. Un balzo e Ungar si stagliò a sbarrare loro la strada. Talos prese il coltello. In un altro momento, a mente fredda, avrebbe preso in giro chiunque avesse preteso di battersi contro un licantropo di oltre due metri con un coltello di una ventina di centimetri, ma in una situazione così concitata reagì di puro istinto.
Ungar avanzò, la bava alla bocca e quel brusio di sottofondo che veniva dalle sue mascelle. Levò il braccio e... un bagliore, frutto di una piccola esplosione, lo accecò.
«Via, correte!» urlò Alira.
La ascoltarono e la seguirono.
«Cosa gli hai fatto?» domandò Gavister.
«Una piccola scottatura. È solo un incantesimo, ma non lo fermerà a lungo.»
«Cosa facciamo ora?» domandò Talos, preda di una forte agitazione, che ancora trascinava Gavister.
«Si orienterà con l'udito e l'olfatto, quindi sarà più lento, ma ci troverà.»
Alira aveva ragione. Ungar era già sulle loro tracce, per nulla intimorito dalle voci e dalle luci che risalivano la montagna.
«Avete visto quel bagliore?» chiese Aristides.
«Sì, ma cos'era?» domandò di rimando Muscatt.
«Non so, ma scommetto che sono lì. Muovetevi, capitano!»
Aristides si affrettò e il capitano dietro di lui. Gli uomini li seguirono. Ungar fiutava e drizzava le orecchie. I ragazzi si erano nascosti dietro il tronco di una robusta quercia e Alira ebbe un'idea. Raccolse un sasso e lo gettò giù per il fianco della montagna tra le sterpaglie del sottobosco. La vista della bestia era appannata e sfocata, così seguì l'udito e si precipitò giù.
Alira si portò il dito alla bocca per invitare al silenzio e fece cenno di seguirla. Si allontanarono. I soldati salirono sempre più, illuminando la via facendo attenzione a non incendiare il bosco. Ungar sentì l'odore degli uomini e riguadagnò la vista quando ne ebbe uno a pochi passi da lui.
«Trovato!» urlò il soldato.
Venne travolto dalla bestia prima di scoccare una freccia. L'uomo che brandiva la torcia accanto a lui ruzzolò per parecchi metri. La torcia cadde con lui e finì tra le sterpaglie. Il terreno era umido e le fiamme non furono in grado di divorare arbusti e alberi come avrebbero voluto. Il soldato batté la testa e svenne, mentre l'altro venne ucciso. Gli uomini si mossero in direzione delle urla.
«Ah, siete qui!» esclamò un soldato quando trovò i tre.
«Sì, ma dobbiamo andarcene ora» replicò Talos.
«Sappiamo del licantropo.»
«Sì, lo ammazzeremo e torneremo a casa, non temete.»
«Li abbiamo trovati» urlò un soldato agitando la torcia. Aristides notò il fuoco muoversi e guidò Muscatt nella direzione giusta.
«Occhi aperti!» intimò il capitano. «È qui intorno. Ci scommetto la paga di un anno.»
Molti soldati rimasero a pattugliare la zona appena più giù.
«Così siete voi quelli che se ne vanno in giro di notte!» li rimproverò Aristides. «Avete fatto preoccupare le vostre famiglie.» Dopo una breve pausa, riprese. «Chi di voi è il nipote del vecchio calzolaio?» chiese il barone di Montier.
Gavister alzò la mano.
«Un vecchio testardo. Sì, proprio un vecchio testardo! Ma aveva ragione, maledetto lui!» inveì Aristides.
«Voi siete il barone di Montier?» chiese Alira, le gote già rosse ma poco visibili nella penombra.
«Aristides Pius Lavart di Montier, al vostro servizio» si presentò ufficialmente il barone con tanto di inchino.
«Occhi aperti, barone!» lo ammonì Muscatt.
«Sarebbe il caso di riportare questi tre in città.»
«È ancora da qualche parte, qui intorno.»
«Ci avrà sentito arrivare e si sarà allontanato. Avete perso la scommessa, capitano, ma non temete, perché non vi chiederò la paga di un anno.»
Ungar balzò fuori e trascinò un soldato nell'oscurità della foresta. Fu lo spazio di un attimo. Non appena mise il muso fuori, un soldato scoccò, ma la bestia era agile ed evitò la freccia. Ungar saltò di albero in albero. I soldati tirarono, ma solo una freccia lo prese al braccio. Il licantropo si infuriò e, prima che potessero ricaricare, li graffiò e morse, buttandone a terra altri. Aristides si mise di fronte ai ragazzi. Ungar si avvicinò al capitano che alzò la balestra, mirò... non poteva mancarlo e... Gavister deviò l'arma e la freccia finì nel tronco di un faggio. Aristides, pronto di spirito, costrinse Ungar a indietreggiare agitando la torcia e la spada.
«Che cavolo ti prende, moccioso!» urlò Muscatt, dandogli uno strattone che gettò Gavister a terra.
Talos lo trascinò via.
«Sei fuori?» gli chiese sottovoce.
«Non posso lasciare che lo uccidano!» replicò sottovoce Gavister.
«Testone idiota!»
Muscatt ricaricò, ma Aristides non gli consentiva un tiro pulito da quella angolazione. Il barone stava facendo indietreggiare la bestia. Ogniqualvolta Ungar allungava zanne o artigli, Aristides lo punzecchiava con la spada o lo ustionava con la torcia. Muscatt si spostò giusto quel poco necessario per avere la visuale libera, anche se la penombra e l'oscurità che lo circondavano rendevano il tiro più difficile. Scoccò stando attento a non ferire il barone. La freccia ferì Ungar alla spalla. Il licantropo cacciò un urlo agghiacciante e, sopraffatto dal furore, graffiò Aristides facendolo volare di qualche metro. Le ferite erano profonde, ma interessavano solo il braccio sinistro. Il capitano sguainò la spada e corse in suo aiuto. Gettò la balestra in faccia alla bestia cercando di attirarne l'attenzione. Gavister si sentiva in colpa. In fondo, se non avesse portato Talos e Alira dal fratello, nessuno si sarebbe ritrovato in quella situazione. Strappò una torcia di mano a un soldato e la sventolò sotto il naso di Ungar.
«Sono qui, prendimi!» gli urlò.
«No, vieni da me!» gridò Muscatt. «Portate via il barone, idioti!» gridò ai soldati.
«No, il ragazzo! Aiutate lui e il vostro capitano» ordinò Aristides, tirandosi in piedi.
Il braccio ferito non gli dava noia, perché l'adrenalina era troppa. Il licantropo si mosse verso Gavister.
«Vattene via! Via da qui!» gli urlò.
Si augurava che il fratello lo sentisse in qualche modo e scappasse, salvandosi.
«Vattene! Corri via!» proseguì. «Ungar, sono io. Ascoltami, ti prego!» lo supplicò con le lacrime agli occhi.
Il volto di Ungar era a pochi centimetri dal suo. Il licantropo lo annusò e, per un istante, Gavister fu certo che lo avesse riconosciuto.
«Ungar, vattene, per favore» mormorò.
«No!» sbraitò Muscatt, mollando un fendente.
Fu bloccato. Bastò una zampa per afferrare la spada e disarmare il capitano. Lo prese per il collo e lo sollevò da terra. Aristides corse in suo soccorso, ma fu travolto dal corpo di Muscatt fatto volare per aria come fosse un fuscello. Una pietra colpì la nuca di Ungar. Alira era scivolata alle sue spalle e lo aveva stordito. In un momento di puro istinto, il licantropo si avventò su di lei. Sembrava l'avesse uccisa, quando il corpo dilaniato della ragazza scomparve.
«Stai bene?» le chiese Talos.
«Sì, credo!» rispose Alira. «Non lo avevo mai fatto prima. Non credevo che produrre una copia di me stessa fosse tanto stancante e doloroso» aggiunse, tenendosi l'addome.
Aristides e Muscatt andarono alla carica.
«Scoccate, imbecilli!» comandò il capitano.
Ungar si arrampicò di nuovo sugli alberi e si nascose tra le fronde, per poi rigettarsi sui soldati. Ne gettò a terra molti, ne azzannò un paio e lacerò la carne di un altro. Aristides menò un fendente e lo ferì al volto. Ungar ringhiò e si avventò su di lui, quando una sottile catena che brillava sotto la luce lunare gli si annodò attorno al collo. Uno strattone e il licantropo volò a terra. Sbraitava dal dolore, mentre la sua carne sfrigolava. Ungar si rialzò e provò a spaccarla lamentandosi disperatamente. Non vi riuscì e tirò provando a divincolarsi in ogni modo. Un altro strattone e venne trascinato verso l'oscurità. Il capitano Muscatt e Aristides guardarono nel buio della foresta in cerca del responsabile e intravidero una sagoma nera.
«Bruciate i cadaveri, ora!» intimò una voce fredda provenire da quella direzione.
Muscatt prese una torcia e obbedì. Non potevano permettersi di veder nascere altre creature di quel genere. Ungar si rizzò in piedi e attaccò il suo aggressore. Un balzo e fu sopra di lui, ma questi, lesto, sfoderò la spada, si abbassò e gli provocò un taglio profondo su un fianco. La ferita sfrigolò e Ungar sembrò soffrirne, come se non avesse mai provato bruciore più pungente. Ormai la bestia non lasciava più alcuno spazio all'uomo e provò a sfigurare il suo carnefice con gli artigli. La catena venne richiamata e la bestia venne ferita con un colpo di taglio al braccio e un affondo allo stomaco. Stava morendo. Per quanto Gavister faticasse a riconoscere in quell'animale il proprio fratello, corse da lui. Aristides lo braccò e lo costrinse a terra.
«Si può sapere che cos'è che non ti funziona?» gli chiese. «Lascia fare a quel tizio!»
Ungar cercò di guadagnare l'oscurità della foresta, ma la catena lo avvinghiò un'altra volta a una gamba e finì faccia al suolo. Si aggrappò al terreno disperatamente per trascinarsi in avanti, ma fu trafitto alle spalle all'altezza del cuore non appena si rialzò.
Gavister provò una fitta come se fosse stato assassinato lui stesso. Neanche urlò. Il fiato gli si spezzò in gola. La figura scura si stagliava immobile sopra il corpo della creatura. Ungar non riprese sembianze umane e, quando il capitano Muscatt si avvicinò alle spalle del suo uccisore, questi non se ne preoccupò.
«Bruciatelo!» si limitò a dire.
Intenta a riprendere il proprio cammino, la figura venne fermata da Aristides.
«Aspettate!» gridò, alzando il braccio sano. «Non potete andarvene così. Ci avete salvato. Permetteteci di ringraziarvi.»
Aristides avanzò, accompagnato dagli uomini superstiti, e mai avrebbe pensato di trovarsi a parlare con qualcosa di simile. La figura avvolta in un mantello nero abbassò il cappuccio e si voltò. Quello che gli uomini videro fu un essere in forma di uomo, tutto vestito di nero, spada portata al fianco, un pendaglio d'argento attorno al collo, la catena che aveva strangolato la bestia avvinghiata al braccio in modo quasi innaturale e una maschera di cuoio che gli copriva il capo legata con un laccio sul di dietro. La maschera aveva quattro buchi, uno per la bocca, uno per lasciare libere le narici e due per gli occhi, anche se quel che rimaneva di essi era una sclera bianco latte. L'unica parte visibile del corpo erano le mani, lisce e color carbone, la pelle di ossidiana. Sembrava fossero il risultato di un congelamento estremo. L'unico tocco di umanità che albergava su quelle dita erano degli anelli che parevano avere un certo valore.
«Che io sia tocco!» esclamò Aristides. «Siete quello che penso?» chiese, quasi gli si fosse gelata la lingua.
«Uno spettro!» esclamò Muscatt. «Ma cosa ci fa uno spettro così lontano da Amarax?»
«Sono stato mandato a seguire le tracce di un branco di licantropi nelle terre a nord e mi hanno condotto qui.»
«Beh, fortuna che siete arrivato al momento giusto!» si rallegrò Aristides.
«Già.»
«Pensate ce ne siano altri?» domandò Muscatt.
«No, altrimenti avrebbero attaccato in branco.»
«Giusto, giusto» confermò rassicurato Aristides. «Non ci siamo neanche presentati» proseguì, ormai superati il timore e la meraviglia iniziali. «Aristides Pius Lavart, barone di Montier, spada al servizio del sovrano di Atla e membro dell'Ordine Nobiliare della Corona Atlaniana. Piacere di conoscervi.»
«Baltigo, spettro al servizio dell'Adunanza.»
«Beh, possiamo sdebitarci in qualche modo?»
«Devo consegnare questa al feudatario di Mifa» disse, porgendo una pergamena arrotolata e sigillata.
«Ha il sigillo imperiale. Perché l'avete?» domandò Aristides.
«Darla al signore della città mi è indispensabile per essere pagato e completare con successo la mia missione.»
«Potete darla a me. Mi assicurerò di consegnarla al mio signore. Onorerà di certo la spesa e vi consegnerò il denaro io stesso» propose Muscatt. «Qui nella foresta va bene?»
«Debbo consegnare l'ordine di pagamento di persona e riscuotere il denaro» fu categorico Baltigo.
«Capitano, non siate ridicolo. Ci ha salvato. Di certo ha salvato me. Non sarei qui se non foste intervenuto. Siete arrivato proprio al momento giusto» disse Aristides.
«Ho atteso a lungo prima di cogliere l'occasione giusta per uccidere il licantropo.»
«L'occasione giusta?» domandò stupefatto Aristides.
«Il momento in cui era più vulnerabile» confermò Baltigo.
«Cosa?»
«Non dovreste essere sorpreso. Da quel che si dice, gli spettri non hanno riguardo nei confronti degli altri» lo avvertì Muscatt, sussurrandogli il tutto all'orecchio.
«Comunque io voglio sdebitarmi, pertanto vi invito a cena domani al tramonto al palazzo del conte e non ammetto rifiuti. Anche perché è l'unico modo di avere il denaro» puntò i piedi Aristides.
«Allora verrò.»
«Per curiosità, da quanto eravate nei paraggi?»
«Da quando il ragazzo vi ha salvato.»
Lo spettro indicò Gavister, che era scosso più che mai. Fissava il cadavere dell'animale che un tempo era suo fratello. Non desiderava altro che piangere, ma non poteva farlo di fronte ai soldati, come gli ricordò Talos.
«Non piagnucolare, singhiozzare o altro. Se lo fai, si insospettiranno e puniranno te e tuo nonno.»
Talos gli passò il braccio attorno al collo e lo portò via.
«Voi due!» li chiamò Muscatt. «Perché stavate guardando il suo corpo bruciato?»
«Ci perdoni, è che siamo ancora scossi» rispose in fretta Talos.
«Vi riportiamo a casa!» annunciò Aristides.
Baltigo si fermò a pochi passi da Alira, che era ancora rannicchiata ai piedi di un albero.
«Dimmi, maga: hai già un maestro?» le chiese.
«Come?»
«Hai già un maestro?»
Vide solo il vuoto negli occhi dello spettro, la qual cosa la mise a disagio e le fece abbassare lo sguardo.
«No, ma come sapete che so usare la magia?»
«Hai prodotto una copia perfetta di te e le hai fatto colpire il licantropo con un sasso. È notevole.»
«Perché mi fate queste domande?»
«Gli spettri hanno l'ordine di segnalare i maghi che incontrano. Posso portarti ad Amarax. Partirò dopodomani all'alba. Se vuoi venire, fatti trovare ai cancelli della città al sorgere del sole.»
«E se non venissi?»
«La questione sarà affidata al mago di corte, credo. Amarax è la città dei maghi. Ogni mago degno di nota che sia nato ad Agura ha studiato lì, ma la decisione spetta a te. È la tua vita.»
Aristides, che ora cominciava a soffrire per le fitte al braccio, volle guidare il ritorno a casa.
«Avete bisogno di un alloggio per la notte?» domandò allo spettro.
«No.»
«Di un cavallo?»
«No.»
«Di altro?»
«No. Mi farò vivo io domani» tagliò corto Baltigo, prima di dileguarsi nel buio.
«Non offendetevi, barone. Gli spettri non sono fatti per socializzare. Hanno altri compiti» lo consolò Muscatt.
I ragazzi furono riconsegnati alle loro famiglie, mentre Aristides rassicurò Maurice sull'essere scampato alla gogna e invitò i tre alla cena dell'indomani. L'incontro con lo spettro l'aveva turbato e incuriosito. Le ferite che gli bruciavano sul braccio e che gli avrebbero lasciato cicatrici indelebili non erano l'unico motivo per ricordarsi di quella notte. Incontrare uno spettro era un evento tanto raro da essere precluso a molti uomini, anche nobili. Voleva saperne di più: erano esseri avvolti negli aloni di mistero delle storie che si narravano su di loro. Muscatt lo portò dal mago di corte e trovarono anche la contessa in sua compagnia, troppo in apprensione per poter dormire.
«Siete ferito!» esclamò Annaluce. «Sedetevi, presto!»
«Non abbiate timore. È meno grave di ciò che sembra» la rassicurò Aristides.
«Voi che dite?» domandò Annaluce.
«Le ferite sono profonde, ma curabili. Porterete le cicatrici per tutta la vita.»
«Perdonate la domanda... ma il barone corre il rischio di tramutarsi in un uomo lupo?» domandò Muscatt.
«Questa è vera impertinenza!» tuonò Annaluce.
«Il capitano ha posto il quesito appropriato. Per favore rispondete» intervenne Aristides.
Rofedus, il vecchio mago dai capelli irti rossicci e dalla barba irsuta, guardò le ferite e si arricciò la punta della barba.
«Come ve le siete procurate?» chiese.
«Mi ha graffiato.»
«Solo graffiato?»
«Sì.»
«Allora non correte rischi.»
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