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Capitolo 16 - In viaggio verso Volr (Parte 3 di 4)

La visuale libera dalle fronde dava loro un panorama molto più gradevole da ammirare: gli altopiani si stagliavano sontuosi poco più avanti e l'erba si disponeva in ciuffi verdi e selvaggi e gli alberi affondavano le radici nelle pareti rocciose.

«Questi sono gli altopiani» sussurrò Muscatt tra sé e sé.

«Forza, muoversi! Siamo fuori da quel tanfo» si fece sentire Stell.

«Tu, soldato, come stai?»

«Bene, signore! Ce la faccio, non si preoccupi per me» lo rassicurò il soldato ferito.

«Gli altopiani... ho sempre desiderato vederli» disse Stell, colto dallo stupore di quella vista.

«Perché?» chiese Aristides.

«Questo luogo era lo snodo commerciale del sud, forse il più importante di Agura.»

«Ne ho sentito parlare anch'io, dai più anziani» confermò Muscatt.

«Ma parliamo di decenni or sono.»

«La bellezza di Goria, la città divisa in tre parti, la città dei tre altopiani, mai verrà dimenticata!» esclamò Stell.

Aveva ragione: i vecchi che l'avevano visitata desideravano poterla rivedere anche solo per una volta, mentre coloro che mai c'erano stati, ma che avevano sentito la descrizione della sua magnificenza, avrebbero voluto poterla ammirare com'era al momento del massimo splendore.

Alle costole dello spettro, la compagnia cavalcava, salendo verso la sommità del primo altopiano. La via era segnata dall'erba, tanto alta che le sole cose che spuntavano da essa erano il collo e la testa dei cavalli e il mezzobusto dei loro cavalieri.

Era il tramonto quando giunsero in cima: quella particolare luce rendeva magica l'atmosfera che circondava le rovine di Goria. Della città simbolo dello splendore del sud, erano rimasti edifici diroccati, spezzati dal vento, consumati dall'usura e invasi dai rampicanti. Niente era come era stato, ma lo spettacolo che si palesava davanti ai loro occhi era una testimonianza della gloria passata. Lo erano i sassi delle strade ricoperte dalle erbacce; lo erano le travi spezzate che sostenevano tetti ormai quasi inesistenti; lo erano i rimasugli delle case e delle botteghe a pianta rotonda; lo erano gli affreschi del palazzo che ospitava la stirpe reale; lo erano i bassorilievi scolpiti sulla facciata interna delle mura che narravano le gesta di Goria, anche se nascosti dall'edera.

«Un luogo evocativo...» commentò Aristides.

«Magnifico per accamparsi» approvò Stell.

«Magari è quello che hanno pensato i predoni» li avvertì Muscatt.

«Meglio scegliere un posto riparato tra queste rovine e adocchiare una via di fuga a portata di mano, in caso di necessità.»

«Voi due, andate da quella parte e voi due da quell'altra. Tra un'ora qui a fare rapporto» ordinò Stell.

«No!» li fermò Muscatt. «Dividersi significa offrire un'occasione di colpire a eventuali nemici.»

«Troviamo un edificio con un tetto solido e una sola entrata» propose Aristides. «Ci sistemeremo lì dentro e domattina partiremo.»

«Approvato!» esclamò Muscatt.

«State attenti: balestra in mano e freccia incoccata» raccomandò Stell.

I soldati obbedirono, per quanto le frecce, purtroppo, fossero contate dopo il tuffo nel fiume del carro delle armi. Passeggiarono per Goria, attenti a ogni piccolo sussurro.

Baltigo, dal canto suo, li accompagnò finché non si imbatterono in una struttura fortificata vicino al ponte che collegava quell'altopiano al successivo.

Al di là di un albero che tentava di intrufolarsi al suo interno smottando le pietre che componevano le feritoie, era una costruzione ancora solida: era spaziosa e il tetto pendeva al punto giusto per evitare che qualcuno potesse calarsi dal piccolo unico buco che si era aperto nel tempo; quel che rimaneva della porta era avvolto dal muschio e marciva senza fretta.

Aristides smontò da cavallo e sfoderò la spada, pronto ad andare in avanscoperta.

«Un momento!» disse piano Muscatt.

Il capitano fece cenno a tre soldati di coprirlo e fu lui, spada in mano, a ispezionare il posto.

Entrarono e non trovarono niente di strano. L'unica scala portava a un secondo piano, ma era di legno, scheggiato, tarlato e pericolante. Nessuno poteva salire e nessuno poteva scendere. I rami e le sterpaglie rendevano scomodo il soggiorno, però si sarebbero adattati.

Quando uscirono, Muscatt ricevette una buona notizia.

«Abbiamo trovato il rudere di una stalla proprio a due passi da noi» lo informò Stell.

«Possiamo sistemare i cavalli lì per la notte» suggerì Aristides.

«L'idea di averli lontani mi preoccupa» confessò il capitano.

«Sistemiamoci, allora» tagliò corto Aristides.

Un gruppo si dedicò ai cavalli.

«Voi due, a raccogliere la legna per il fuoco» ordinò Stell.

«No! Niente fuoco!» vietò Aristides. «Non abbiamo visto nessuno, ma non possiamo sapere se c'è qualcuno nelle vicinanze. Meglio non attirare l'attenzione!»

«Concordo!» approvò Muscatt.

«Pare che sarà una serata tranquilla. Il cielo è così terso e sereno» disse piano Aristides, lo sguardo rivolto verso l'alto.

«Se è così, io vado» intervenne Baltigo.

Neanche il tempo di voltarsi che lo spettro stava già volando via.

I soldati si organizzarono. C'erano una porta e tre finestre libere da sorvegliare per evitare sorprese, mentre le altre possibili entrate erano occluse dal fogliame dell'albero. Muscatt organizzò i turni di guardia; a ogni entrata un soldato con una balestra in mano.

Il chiaro di luna illuminava una notte limpida e tutto era calmo.

Aristides si piazzò sotto le fronde dell'albero cercando di guardare attraverso la fessura sopra di lui. Vedeva solo un sottile lembo di cielo e nulla più; ciò gli trasmetteva una particolare pace. Il barone si aspettava una notte senza colpi di scena e senza trambusto e tutto faceva supporre che lo sarebbe stata. Si lasciò cullare dai propri pensieri fino a chiudere gli occhi. Incominciò il primo turno di guardia e i soldati erano ai propri posti. Certo, la luce degli astri era fredda e fioca per illuminare bene i ruderi di Goria e già qualche topolino si muoveva tra di loro badando a non squittire.

I soldati di scorta al barone erano una pattuglia nutrita e l'edificio avrebbe dato loro un vantaggio tattico in tempi più antichi, ma ora era ammaccato e non manutenuto.

Degli spettri non vi era traccia. Baltigo si era allontanato e la protezione del braccio armato di Amarax pareva non essere con loro. Nell'oscurità si nascondevano. Nell'oscurità erano a loro agio. Nell'oscurità vigilavano. E i topolini erano ignari di quanti gatti avrebbero incontrato.

«Presto! Presto!» sussurrò un predone, facendo cenno agli altri.

Erano appostati dietro a un angolo diroccato. L'edificio era distrutto, fatta eccezione per i rimasugli di qualche muro. Accovacciati, alzavano la testa per scrutare l'obiettivo.

«Quanti hai detto che sono?»

«Tredici uomini più uno spettro.»

«Uno spettro? Sei certo?»

«Sì, sono certo.»

«Sicuri di volerlo fare? Insomma... uno spettro! Non mi sembra prudente. Forse è meglio lasciar perdere questa volta.»

«Non fare il cagasotto. Basta colpirlo al torace e bruciare il corpo; a quel punto addio spettro!»

«Sicuro? Ho sentito dire che nascono dall'oscurità e che solo la magia può rimandarli da dove sono venuti.»

«Beh, allora fortuna che abbiamo un mago con noi.»

«Messner e il signor Berrick li sorprenderanno sull'altro lato. Il nostro gruppo deve solo attirare la loro attenzione da questa parte. Accendi la freccia.»

«Mi sembra una cattiva idea...»

«E lo è davvero!» disse una voce che non riconobbero, fredda e prossima.

Una mezza dozzina di predoni si voltò e vide uno spettro mescolato all'oscurità che li fissava dall'alto in basso.

Il panno unto nell'olio avvolto attorno alla freccia aveva preso fuoco, mentre l'arciere che avrebbe dovuto scoccarla rimase basito, la bocca mezza aperta.

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