Capitolo 11 - Golgoth (Seconda Parte)
Gavister venne svegliato dal bacio del sole. Il tentativo di fuga era fallito, proprio quando era a un soffio dal realizzarlo.
Dove sono? Oh, sono nello stesso posto. Ancora legato. Quell'uomo aveva ragione: o siamo già morti o siamo schiavi. Quale delle due è meglio?
Una lacrima gli bagnò la bocca.
Hugai era sveglio e torreggiava su di lui, un piccolo gatto rannicchiato a terra. Lo punzecchiò con il piede per farlo alzare.
«Tirati su, piccolo esemplare di uomo!»
Gavister, però, rimase immobile e apatico.
«Forza, in piedi! O ti faccio trascinare dal mio buhmé.»
Hugai montò sulla sua bestia e fissò il lembo di corda alla sella; dopodiché partirono.
L'orda di golgothiani si rimise in marcia con Hugai in testa al gruppo. Gavister venne trascinato per un paio di metri, poi si alzò e barcollò dietro al suo aguzzino.
Il sole iniziò a bruciare verso metà mattina e la finì nel tardo pomeriggio, mosso a compassione dalla brezza della sera.
Gavister si trascinò ciondolando per tutto il giorno. Fu solo per miracolo che non crollò lungo la strada; la gola arsa, lavato dal sudore e tormentato dalle vesciche ai piedi. Ancora un altro minuto di marcia forzata e le sue scarpe avrebbero grondato sangue.
L'erba alta trasformava il viaggio in un'ardua traversata.
La destinazione pareva non dover arrivare mai. Sembrava stessero marciando verso i confini del mondo e durò per giorni e giorni. Anche gli altri prigionieri barcollavano trascinati allo stesso modo, come morti viventi che avanzavano lentamente, privi di forze e volontà di opporsi, verso le loro tombe.
Durante la traversata qualcuno era caduto a faccia in giù e lì era rimasto, a farsi trascinare raschiando il terreno. Quando il golgothiano si accorgeva del peso morto, tagliava la corda e abbandonava il cadavere nell'erba.
Ogni tanto Hugai dava qualche strattone alla corda e Gavister si sbilanciava in avanti. Ogniqualvolta il ragazzo stava per cedere e ruzzolare a terra, Hugai lo ridestava strattonandolo. Troppo provato per reagire, troppo assettato per parlare, troppo stanco per pensare, si limitò a pregare che quella tortura finisse presto.
«Avanti, piccolo gatto. Ci siamo quasi!»
Hugai proseguiva alla testa dell'orda diretto in cima alla collina e Gavister prese un profondo respiro; la testa china, la bocca aperta e ansimante, i piedi trascinati e le spalle pesanti. Facendosi largo tra la distesa d'erba, si sentiva come se stesse nuotando controcorrente, colpito dalle onde mosse dal vento e sovrastato dagli steli.
La testa dell'orda raggiunse la cima della collina, mentre Gavister mostrava un atteggiamento da fame d'aria: la testa chinata in avanti, la bocca aperta, il respiro accelerato, le gambe divaricate e i gomiti rivolti all'esterno. La tentazione di lasciarsi andare e sedersi era forte: non desiderava altro, ma era consapevole che, una volta a terra, non si sarebbe rimesso in piedi. La tensione che aveva in corpo era la sola cosa a cui appigliarsi per proseguire. Permettere che lasciasse il posto al rilassamento avrebbe significato la fine.
«Casa, finalmente!» annunciò Johta. «È stata una buona caccia. Torniamo con provviste e divertimento.»
«Parlare qui è inutile, fratelli!» intervenne Hugai. «Torniamo alla madre!»
L'orda discese la collina.
Gavister sollevò la testa e vide l'orda, quella vera. Un mare di golgothiani si distendeva davanti a lui.
Erano arrivati. La piana di Golgoth si stendeva vasta fin dove l'occhio poteva vedere. La natura era selvaggia come i suoi abitanti; o forse erano i suoi abitanti a esserlo come il luogo che li ospitava.
I guerrieri tornavano dalle loro razzie, attorniati dai bambini dell'insediamento e acclamati dagli anziani.
Nella piana sorgevano delle strutture che Gavister non aveva mai visto, sostenute da un'impalcatura di legno e coperte da un tetto di paglia intrecciata, mentre i lati erano aperti, solo una bassa barriera fatta di tronchi di legno posati a terra li proteggeva.
I guerrieri si dispersero, ognuno in direzione del proprio alloggio, ognuno seguito dal proprio trofeo.
Una bambina corse incontro a Hugai. Superava di poco l'altezza di Gavister: i capelli lunghi, lisci e bianchissimi e la carnagione cianotica.
«Sei tornato! Sei tornato!» esclamò, correndogli incontro.
Hugai smontò e ricambiò freddamente l'abbraccio di lei, mentre Gavister era indeciso se abbandonarsi o resistere ancora, la fronte che bruciava. Hugai tagliò la corda e strattonò Gavister sotto a quella specie di gazebo di paglia affidandolo alle cure della bambina.
«Questo l'ho catturato in un bosco. Saltava da un albero all'altro come un gatto. Che sia pronto per la Muhtak!»
La bambina afferrò la corda e lo fece sedere su una pelle di bisonte. Gavister si sdraiò in una posizione innaturale, il respiro affannato e la fronte sudata.
Hugai si allontanò guidando il suo buhmé.
La bambina prese un otre fuori misura e aiutò il prigioniero a bere: molta acqua andò perduta. Gavister era stremato e neanche parlava, quasi a un passo dallo svenimento.
«Resta sveglio!» lo rimproverò la bambina dandogli un buffetto sulla guancia. «Mangi?»
Gli occhi socchiusi del ragazzo videro una strana pappa biancastra sul palmo della golgothiana. Lei ne prese un po' con le dita dell'altra mano e gliela infilò in bocca. Quella roba aveva un sapore strano, non troppo dolce e farinoso in bocca, ma non era male.
«An... co... ra...» supplicò a fatica Gavister e la bambina lo imboccò.
Quella poltiglia era molto nutriente e gli diede un po' di energia.
La penombra del gazebo era una mano santa e, a questa, si aggiunse una pratica del tutto nuova per lui: la bambina gli tolse la maglia logora e sporca e lo lavò con delle pezze inumidite in una bacinella di terracotta.
Gavister era lercio, sporco di fango essiccato sulla pelle. Una volta finito, la bambina gli spalmò sul petto una strana mistura rossa fatta d'acqua e minerali. Quella mistura aveva qualcosa di rinfrescante. La sua pelle, da rossastra, diventò rosea a poco a poco. Anche il respiro si regolarizzò. Fu in quel momento che iniziò a riacquistare un minimo di forze e cercò di togliersi le scarpe.
«Fermo! Devi restare sdraiato!» lo rimproverò la bambina. «Faccio io!» aggiunse, provvedendo.
«Tu... co-come t-ti chi-chiami?» tentennò Gavister.
«Oga'Teh.»
«Ga-vi-ster» si presentò. «C-chi s-sei?»
«Sono la yasya di Hugai.»
«Co-cosa?»
«Mmm... come dite voi uomini... la "babina" di Hugai.»
«La bam-bambina, vu-vuoi di-dire?»
«Sì, quello!»
Oga'Teh lo tenne disteso per tutta la sera e gli preparò di nuovo la pappa che gli aveva già dato.
Hugai rimase via per tutto il resto del pomeriggio e tornò solo a tarda sera. Era stato in comunità. Partecipare alla vita sociale dei clan era una parte fondamentale della vita di un golgothiano, specie per un guerriero.
Dopo ogni razzia, il bottino veniva messo in comune e diviso tra i vari clan alla presenza degli anziani.
Erano tutti seduti sotto il gazebo di paglia al centro della piana, gli anziani da una parte e i capiclan dall'altra.
La spartizione era un affare privato e nessun altro poteva disturbare, per cui i golgothiani fecero uso della propria lingua.
«Che cosa hanno portato i capiclan al cospetto degli anziani?» domandò Tunyk, anziano vohnir del clan di Johta.
«I capiclan portano cavalli, bestiame, provviste e divertimento da dividere con l'approvazione degli anziani.»
«Come suggeriscono di dividere questi doni?» chiese Unnak, anziano vohnir del clan di Hugai.
«I capiclan devono considerare che Hugai ha rinunciato alla parte per il proprio clan l'ultima volta che si è diviso qualcosa» osservò Tunyk.
«I capiclan lo ricordano molto bene» intervenne Poltam. «E propongono che Hugai scelga per primo quel che vuole.»
Il golgothiano slanciato e una spanna più alto della media si era pronunciato per tutti. Aveva dei lineamenti gentili e i capelli raccolti in tante trecce disordinate.
«Hugai, parla!» lo incitò Johta.
«Prima di scegliere, chiedo che si faccia presente ai vohnir l'entità del bottino.»
«Così sia!» convenne Unnak.
Anche Johta si accodò, assieme agli altri capiclan.
«I capiclan si presentano ai vohnir con cinquantaquattro cavalli, novantatré pecore, ventisette capre, undici maiali, quattordici vacche; tre carri pieni di carne, formaggio, grano, verdure e frutta; infine, un gruppo di prigionieri» disse Poltam.
«Hugai, a te la parola» disse Tunyk.
«In qualità di capoclan chiedo ventisette capre, otto vacche e nove cavalli.»
«Chiedi molto, Hugai. Sei certo di essere equo nei confronti degli altri quattro capiclan?» chiese Unnak. «Hai chiesto la parte che ha più valore tra le cose da dividere.»
«Pretendi tutte le capre, fratello» gli fece notare Beott, un altro capoclan, quello più massiccio.
«E pretendi molti cavalli e molte vacche» aggiunse Danum, il più mingherlino dei cinque.
«Non credi di esagerare?» domandò Johta.
«Aspettate, fratelli!» intervenne Poltam. «Vi sembra che Hugai abbia chiesto molto. Ha chiesto tutte le capre e la metà delle vacche e la quota che gli spetta dei cavalli, ma non ha preteso alcuna pecora, che questa volta sono molte, e nessun maiale, che diventano tanti in fretta se ben allevati, non proferendo alcuna parola sulle provviste. Dobbiamo, inoltre, ricordare che l'ultima volta Hugai ha rinunciato alla parte che spettava al suo clan, visto il magro bottino. Pertanto Hugai è stato giusto.»
«Poltam ha ragione, fratelli. Riflettendoci meglio, non trovo alcuna pretesa fuori luogo nelle richieste di Hugai» convenne Johta.
«Ora dobbiamo dividere il resto tra noi» disse Danum.
«Cosa propongono i vohnir?» chiese Poltam.
I cinque vohnir fecero cenno ai capiclan di allontanarsi e si consultarono. La loro discussione durò molto poco. Ormai erano soliti a questo tipo di eventi e si conoscevano da decenni, perciò erano in grado di trovare la quadratura del cerchio in pochi minuti. Invitarono i capiclan ad avvicinarsi. Rimasero in piedi di fronte ai vohnir seduti sull'erba che cresceva rigogliosa e selvaggia anche sotto i gazebo.
«I vohnir accordano quanto chiesto a Hugai...» Il capoclan fece un piccolo inchino con la testa, «... e propongono questa divisione: sei cavalli, tre vacche, trenta pecore e un maiale a Beott; tredici cavalli, due vacche, diciotto pecore e due maiali a Danum; tredici cavalli, una vacca, quindici pecore e tre maiali a Johta; tredici cavalli, trenta pecore e cinque maiali a Poltam» parlò Tunyk.
I capiclan fecero un piccolo inchino con la testa per accettare la divisione proposta.
«I vohnir hanno anche concordato, tenuto conto di quanto ripartito le ultime tre volte, che le provviste vengano divise in parti uguali tra Johta, Danum, Beott e Poltam. Per quanto riguarda i prigionieri...»
Hugai chiuse il pugno e lo portò al petto per chiedere la parola.
«Hugai, hai già accettato quanto ti è stato concesso» osservò Unnak, senza trattenere una vena di rimprovero.
«Desidero proporre ai vohnir e ai capiclan di ricorrere alla Muhtak.»
«Perché chiedi di sottoporre i prigionieri al rituale di sopravvivenza?» chiese Tunyk.
«È per quel gatto, fratello?» domandò Johta.
«Gatto?» chiese Unnak.
«Mentre eravamo di ritorno, Hugai ha catturato un cucciolo d'uomo» spiegò Johta.
«Che cosa hai visto, figlio?» chiese Unnak.
«I miei occhi hanno visto una lama in quel piccolo esemplare di uomo» rispose Hugai.
«Desideri che i vohnir e i capiclan mettano ai voti la tua proposta?» chiese Tunyk.
«Sì.»
«Che i capiclan parlino!» disse Unnak.
«Fratelli, io ho visto il cucciolo d'uomo e i miei occhi hanno visto un insetto da abbandonare nei campi» si espresse Johta.
«Perché disturbarsi?» chiese Danum.
«Lasciamolo morire assieme agli altri, mentre viene rincorso dai coyote o dai buhmé» suggerì Beott.
«Pensi davvero che possa sopravvivere?» chiese Poltam.
«Che sia stabilito nella Muhtak, come da tradizione: qualora morisse, avrete avuto il giusto divertimento; qualora dovesse sopravvivere, il cucciolo d'uomo sarà stato padrone del proprio destino, come spetta a ogni guerriero» concluse Hugai.
«Che parlino i vohnir, ora!» li invitò Johta.
«La richiesta di Hugai ci sembra ragionevole e non ci sono motivi per opporsi» si pronunciò Unnak.
«Spero tu abbia visto una lama in quel piccolo gatto!»
La divisione del bottino si concluse e i capiclan presero ciò che spettava loro.
Hugai fece portare le sue bestie nella parte di pianura in cui viveva il suo clan. I giovani del clan le guidavano con i bastoni e stavano bene attenti a non farsele scappare, non avendo cani.
«Lasciateli liberi di brucare l'erba e state attenti a non perderli» li avvisò Hugai. «Questi animali erano allevati dagli uomini nelle loro prigioni di legno e paglia: non sono abituati alla libertà.»
I giovani ubbidirono. Erano bambini che desideravano essere guerrieri; ma Hugai vedeva ancora dei pastori, degli artigiani che lavoravano il cuoio e le corazze di armadillo che usavano come protezione nei pettorali. Solo spingendo lo sguardo in avanti, vedeva in loro il futuro. Ci sarebbe voluto tempo per trasformare i bambini in adulti, così come sarebbe stato necessario del tempo per far sì che gli animali si abituassero a vivere in armonia con la natura a cui appartenevano.
Presto si fece sera e il rossore del tramonto li accompagnò tra le braccia della notte.
«Oga'Teh, va' a dormire!» ordinò Hugai, parlando la lingua degli uomini.
La figlia ubbidì e si sdraiò a un lato del gazebo, sull'erba, senza coperta o cuscino.
«E tu, piccolo esemplare di uomo...» Hugai torreggiava su di lui.
Gavister era rimasto disteso per ore, le gambe doloranti per i crampi e le vesciche ai piedi.
«Da quando ti ho catturato, appartieni a me. Fra tre giorni, affronterai la Muhtak. Se sarai ancora vivo all'alba del quarto giorno, vedremo quale sarà il tuo futuro.»
Hugai si sdraiò al centro del gazebo. Era sveglio e vigile, mentre Gavister cercava di esplorare di nuovo il luogo con gli occhi.
«E non provare a scappare!» lo avvisò Hugai. «Chi scappa viene ucciso. Ti ho graziato una volta perché sono rimasto sorpreso dalla tua abilità di muoverti in silenzio.»
«Uc-ci-di-mi!» sillabò Gavister, la voce ridotta a un filo.
«No, non per mano mia! Se dovrà accadere, che sia nella Muhtak!»
Attorno a Hugai, si sdraiarono gli altri membri del clan. I più vicini al capoclan erano i guerrieri, poi le femmine, i bambini e le bambine.
Gavister li sentiva parlare nella loro lingua.
«Guarda quello! È un uomo!» disse uno.
«Sono fatti così, allora?»
«È solo un piccolo gatto nero. Non ha nessuna possibilità di sopravvivere alla Muhtak» disse un altro.
Gavister capì solo "Muhtak", che era l'unica parola che aveva già sentito, mentre il resto gli era ignoto. Tuttavia comprese che stavano parlando di lui e la cosa lo disturbò, più perché gli sembravano maldicenze pronunciate da bambini che per preoccupazione riguardo a ciò che lo aspettava.
Un golgothiano, l'ultimo ad aver parlato, lo fissava con disprezzo. Gavister poteva sentirlo arrampicarsi sul suo corpo semiparalizzato.
«Vedremo quando morirà e ci divertiremo!» esclamò, infine, il giovane golgothiano.
Aveva lineamenti dolci che rendevano il contrasto con il suo modo di atteggiarsi ancora più inquietante.
«Perché Hugai vuole che si guadagni la vita?» chiese un altro.
«Domandaglielo, se ci tieni a saperlo!» rispose stizzito il giovane golgothiano.
«Perché non glielo chiedi tu?»
«Perché non lo domandate direttamente a me, invece di parlarne credendo che io non vi senta?»
«Perché la Muhtak?»
«Katu, le tradizioni! Vanno rispettate sempre. Non esiste disonore più grande per un capoclan che violare le regole e ignorare il passato.»
«Ma la Muhtak è un rituale sacro che si riserva ai nemici degni di rispetto e onore.»
«La Muhtak si riserva anche ai guerrieri di altre razze e fatti prigionieri. Il cucciolo d'uomo ha evitato le mie frecce e, quando gli ho sbarrato il cammino, si è gettato contro di me brandendo la sua lama. Se questo non è un guerriero...»
Dopo la risposta di Hugai, nessuno dei giovani golgothiani osò fiatare.
«Katu!»
«Sì?»
«Non dubitare più dei miei occhi!»
Il clan di Hugai era ammassato sotto al tetto di paglia e tutti si addormentarono, uno accanto all'altro, in un groviglio di corpi molto vicini.
Gavister trascorse tutta la notte sdraiato sulla schiena e, per quanto si fosse sforzato di restare vigile, si lasciò andare e si addormentò come un morto.
Spazio Autore
Vi ringrazio per il vostro tempo.
Vi ricordo che commenti, critiche e suggerimenti sono benvenuti.
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