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𝗺𝗮𝗻 𝗶 𝗵𝗼𝗽𝗲 𝗶 𝗱𝗼𝗻'𝘁 𝗱𝗶𝗲

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Ho sempre avuto a cuore il Karasuno.

Ho sempre avuto a cuore questa famiglia, quest'organizzazione, questo agglomerato di persone che lavorano insieme. Questo regno di poteri arrogati e di diritti distrutti, questo buco nero di correttezza e civiltà.

Non li ho mai odiati, anzi, credo di aver provato per come potevo persino una forma d'amore per loro.

Non mi sono mai trovato bene, mai ho pensato nella mia vita "sono a mio agio completamente con loro", ma ho bei ricordi, ho in mente momenti divertenti, non mi sono mai nemmeno trovato male, qui.

Non credo che sia mai stato il Karasuno, il problema, in ogni caso.

Credo che fossi più io, il tassello che non s'incastrava.

Non ho mai capito perché fossero felici.

È vero che è pessimista e invidioso dirlo, ma è anche vero che me lo sono sempre chiesto, perché fossero tutti felici.

Sempre a sorridere, sempre a scherzare e a pensare al giorno dopo con ansia, con impazienza, quasi.

Io non sono mai stato felice.

Fin ora.

Ora sì.

Ora sono stato felice.

Ora ho deciso che morirò, pur di continuare ad essere felice.

Che rovescerò me stesso, la mia obbedienza cieca, la mia fedeltà, pur di esserlo anche solo un minuto di più.

Il nostro "covo", è come quello di qualsiasi altra famiglia.

Un ufficio.

Un ufficio normalissimo.

La cosa più sbagliata nascosta sotto gli occhi di tutti, chiara e limpida e nascosta, nonostante questo.

Entro coi passi frettolosi nell'atrio, premo il bottone per l'ascensore verso l'attico, mi tiro indietro i capelli fradici con calma.

Abbiamo fatto sesso un'altra volta, io e Shōyō, ieri sera.

Più avanti, dopo aver mangiato i takoyaki, dopo esserci fatti le coccole in silenzio e stretti assieme nel tentativo di non separarci più.

Non approva quest'idea.

Ma ho deciso da solo su questo frangente, e non ho intenzione di indietreggiare di un singolo passo.

Dice che non ne uscirà nulla di buono e temo, temo davvero che abbia ragione.

Ma per quanto io abbia a cuore il Karasuno, ora non ho più spazio per le incertezze, per i dubbi, per le mille parole di contraddizione nella mia testa.

Ora ho spazio per Shōyō.

Solo per Shōyō.

E dovessi tradire me stesso e tutto quello in cui ho creduto negli ultimi vent'anni, non smetterà mai di essere così.

Ci sono diversi uomini all'ingresso, che chinano il capo e non mi rivolgono la parola, mentre aspetto.

Il campanello suona, io entro, premo il pulsante dell'ultimo piano, aspetto in silenzio che le porte si richiudano di fronte a me.

Non so se voglio morire.

Ho passato così tanto tempo ad essere indifferente a me stesso che ora, ora che ho e che voglio e desidero e bramo come una persona fatta di carne, non riesco a comprendermi.

Voglio morire?

O semplicemente non voglio vivere senza Shōyō?

Voglio tirare avanti, voglio arrancare ancora?

Voglio continuare a sopravvivere come ho fatto per tutta la vita?

Sono un corvo.

Sono un corvo da che ne ho memoria, sono un corvo e basta, non c'è mai stato nient'altro, in me, per tanti anni.

Il corvo rintocca, scandisce, determina, arriva e porta, depreda, ruba, distrugge dove la distruzione ha già compiuto il suo massacro.

Il corvo ama?

Sì, lo fa.

Il corvo è fedele.

Trova un compagno e non lo lascia mai.

Il corvo è sicuramente macabro, sicuramente una minaccia, ma se s'innamora non abbandona, non lascia indietro.

Mi avete cresciuto corvo.

Non so cosa ora vi aspettiate di diverso da me.

I piani passano uno dietro l'altro sullo schermo in alto, li osservo distrattamente con le gambe che tremano.

Non ho mai disobbedito, né mai ho contestato un ordine di Daichi.

Sono stato dubbioso, contrario, confuso. Certe volte mi capitava di non capire che cosa stessi facendo o perché, ma di permettermi di dirlo ad alta voce, non è mai capitato.

Sono un ingranaggio ben formato, io.

Sono perfettamente oliato nel meccanismo inesorabile delle cose che succedono, so cosa devo fare e come, non m'inceppo, non mi fermo.

Credo però che Shōyō abbia divelto la macchina che hanno creato in me con le sue mani nude, e abbia sparso a terra ogni singolo cavo, ogni singolo componente.

Non posso più essere quel che ero.

Che decidano di eliminarmi o salvarmi per rendermi qualcos'altro, so solo che non posso più andare avanti così.

Non sale nessuno.

Sembra che il mondo sia in un rispettoso silenzio nei miei confronti.

Cos'è, il mio canto di morte? Il mio minuto di quiete? Il mio funerale?

O è solo il caso che mi conduce, oggi?

Mi sembra di dire addio a qualcosa che avevo a cuore, oggi.

Mi sembra di guardare le cose che passano fra le porte scorrevoli anche se non le vedo, di guardarle una ad una e dir loro addio, a mai più rivederci, non dimenticatevi di me in un paio di istanti, aspettate magari qualche minuto.

Vedo l'ufficio di Asahi al quarto piano, Nishinoya che saltella fra la scrivania e la finestra, che urla e sbraita e nonostante sia così piccolo occupa tutto lo spazio con la sua sola voce.

Vedo i computer di Yamaguchi, la poltrona di Tsukki, lo spazio in cui di solito si siede Terushima, del Johzenji, una delle organizzazioni che fa riferimento a noi, che da un po' pare essere sempre qui attorno, chissà a fare cosa.

Vedo la scrivania di Tanaka, quella di Shimizu, la saletta di Yachi, il posto in cui si norma stavo io.

Vi ho avuti a cuore per tanto tempo.

Vi ho amati, per quanto potessi.

Ma non posso più essere quel Kageyama, e per quanto vi abbia a cuore, mi sono ricordato chi sono, ho scoperto chi sono, e purtroppo non posso tornare chi ero.

L'ascensore approda all'ultimo piano con calma.

Passa un secondo prima che le porte inizino a scorrere aperte sull'attico di Daichi e Sugawara, lo scenario è ampio, maestoso, mi si rivela davanti come se fossi arrivato in cima al Paradiso e mi stessi confrontando direttamente con Dio.

Loro due non sono Dio.

Non credono di certo nella redenzione, nella pietà, nella gentilezza.

Ma sicuramente decidono, come pare Dio dovrebbe fare di noi.

Faccio un passo oltre le porte, un altro, cammino lentamente sulla moquette chiara che permea tutta la stanza.

I miei passi sono felpati, silenziosi, il mondo si muove attorno a me e niente sembra raggiungermi.

È una giornata nuvolosa, oggi.

Ma se anche splendesse il Sole, quel Sole non avrebbe niente a che fare col mio, non brillerebbe come brilla il mio, non lo troverei più accogliente come facevo qualche mese fa.

Fai invidia al Sole, Hinata Shōyō.

Nemmeno lui riluce come fai tu.

Niente in questo mondo è come te, nemmeno le stelle, nemmeno il cielo.

Sono quasi felice di morire per te, lo sai?

Perché non ti avrò tradito.

Sei l'unica cosa che non tradirei mai.

L'ufficio di Daichi e Sugawara è enorme, ampio, luminoso.

Mi ha sempre messo a disagio il fatto che non abbiano scelto di avere due sedie ma una soltanto.

Dovrebbe essere imbarazzante, che sono grandi e adulti e sarebbe molto più decente ed elegante sedersi separati, nel loro caso però è diverso.

Loro due sono uno.

Sono affettuosi e completamente in sincrono, si muovono assieme, si capiscono con uno sguardo, si fidano ciecamente l'uno dell'altro in un mondo dove la fiducia è di per se stessa un azzardo.

Suga passa le giornate seduto sulla cosce di Daichi, guardano gli stessi fogli, ascoltano le stesse telefonate, concordano su ogni mossa, su ogni decisione.

Daichi lo stringe dalla vita, lo avvolge con le braccia e chiude gli occhi, quando è stanco, con le labbra chiuse sulla tempia di suo marito, il naso fra i capelli, il corpo contro il suo.

C'è stato qualcosa di brutto, fra di loro.

Qualcosa che c'entra con i segni sulle mani di Suga.

Qualcosa che mi pare di aver sentito c'entri vagamente con un rapimento, con un riscatto, con qualcosa che li aveva forzatamente separati.

Non mi sentono arrivare, rimangono fermi nel momento in cui li ho catturati.

Suga non ha i guanti, ma non gli vedo chiaramente le mani, un raggio di Sole cattura l'anello sull'anulare, si riflette sul vetro dietro di loro.

Si stanno guardando.

Sorridono.

Sanno che domani saranno di nuovo così, fra un'ora saranno di nuovo così, rimarranno così per sempre, per quanto tempo vorranno.

Non amano col peso che ho io sulle costole.

Non guardano la loro persona pensando e sapendo che prima o poi non potranno farlo mai più.

Si specchiano uno negli occhi dell'altro, Daichi tira una ciocca chiara dietro l'orecchio di Suga, gli sussurra qualcosa, si sorridono a vicenda.

Si baciano.

Niente di caldo, niente di erotico.

Premono solo le labbra fra di loro.

Anche io.

Anche io, lo voglio.

Anche io voglio avere qualcosa che somigli alla quotidianità con Hinata.

Voglio anch'io poterlo guardare così senza temere che qualcosa possa distruggerci. Voglio fargli i regali, dormire con lui nel mio letto, ricoprirlo di vestiti costosi e dargli tutto quello che ho.

Vorrei che si sedesse sulle mie ginocchia mentre lavoro, che si addormentasse sulla mia spalla mentre scorro fa i fogli, vorrei poterlo tirare su e portarlo a letto quando è troppo stanco, accarezzargli i capelli, guardarlo dormire, coccolarlo come si merita.

È ingiusto.

Tutto questo è ingiusto.

E sono disposto a morire per dimostrarlo.

Daichi ha ancora lo sguardo fisso verso Suga quando mi avvicino di qualche altro passo, lo guarda come se non ci fosse nient'altro.

Daichi è una persona seria.

Crede nelle sue idee, è naturalmente autoritario, è facile ascoltarlo, è facile dargli retta perché tutto di lui t'ispira controllo e fiducia.

Non è un uomo sorridente.

Lo sarebbe se non fosse quel che è, ma è stato cresciuto e formato per guidare la baracca, per mandare tutto avanti da solo.

Non credo ci sia ancora spazio per i sorrisi, dopo tutto questo.

Suga è l'unico che lo scioglie.

Suga è l'unico che gli permette di lasciarsi andare e di comportarsi come si comporterebbe un qualsiasi venticinquenne come lui.

È l'unica cosa che conta, per Daichi.

È per questo che una parte di me spera che mi comprenda.

Perché lui sa cosa vuol dire amare, e spero che conceda anche a me il beneficio di farlo.

Busso alla porta aperta, entrambi rivolgono il loro sguardo verso di me in un istante.

Daichi perde il sorriso, Suga trasalisce.

– Occhi giù, Tobio. –

Obbedisco e li pianto sulla moquette.

Sento il rumore del tessuto, della carta.

– Li hai rimessi? –

– Sì, sì, può guardare. –

– Ok. –

Si doveva infilare i guanti.

L'ho detto, che non si mostra a nessuno senza. Daichi rispetta questa cosa e anzi la difende, poco gl'importa di chi lo interrompa, se Suga è senza guanti non c'è santo che tenga.

Quando riporto lo sguardo verso di lui, è più sereno, più calmo.

Stringe con una mano il fianco di suo marito e annuisce piano.

– Scusa, non ci eravamo accorti che stessi arrivando. Ciao, come stai? Cosa ti porta qui? –

Deglutisco la saliva.

– Buongiorno, Daichi. Io... –

No, non posso dirlo così.

Devo sedermi.

Devo...

Suga si alza, mi sorride e mi fissa. I suoi occhi sono comunicativi, penetranti, mi dicono "bravo, hai fatto la cosa giusta" ma anche "qual è il tuo piano", mi scavano dentro.

Non c'è niente in cui scavare.

Niente che non tirerò fuori.

Spinge indietro una delle sedie vicino alla finestra, la trascina fino alla parte davanti della scrivania.

– Prego. –

– Grazie, Suga. –

Non si risiede, aspetta invece che lo faccia io, mi appoggia una mano sulla spalla e stringe.

– Ho messo su il tè, ne vuoi una tazza? –

– Ah, ecco... sì, grazie. –

– Tu, amore? –

Daichi sorride e annuisce.

– Sì, Kōshi, grazie. –

– Arrivo subito. –

Percorre pochi passi fino al termine della stanza, io rimango relativamente solo con Daichi.

È più basso di me ma ha le spalle più larghe, una cicatrice netta che gli attraversa metà della guancia, la mandibola e un pezzo del collo, i tatuaggi che spuntano dai polsini della camicia e dal colletto, lo sguardo fisso, fiero, autoritario.

Incrocia le mani sulla scrivania, si sporge col busto verso di me, accenna un mezzo sorriso.

– Allora, Tobio? –

Prendo fiato.

– Riguarda... l'esca. Il prigioniero, sai. –

– Ah, ho capito. Cosa di lui? –

– Io credo che... –

Suga arriva con le tazze, ne porge una a me e una a Daichi, rimaniamo in silenzio mentre versa il liquido scuro, il fumo della condensa si spande di fronte a me e di fronte a lui in una nuvoletta di vapore chiara.

Finisce di versarlo anche per se stesso, mette la teiera sulla scrivania, prende la tazza e si avvicina alla finestra, in piedi.

– Non ho sentito di cosa state parlando. –

– Del figlio di puttana che ti ha fatto quasi uccidere. –

M'irrigidisco.

– Non voleva. –

Daichi mi fissa.

– L'ha fatto anche se non voleva. –

– Sono stati i traditori, non lui, lui ha solo dato... –

– Suga è quasi morto. Un minuto di più e avrebbero preso la sua macchina. Non me ne frega un cazzo di chi abbia voluto cosa, mi frega solo che le persone che hanno permesso che succedesse crepino una dietro l'altra. –

Cazzo, sarà peggio del previsto.

Molto, molto peggio.

Suga prende un sorso, mi guarda da sotto le ciglia.

Me l'aveva detto e lo sapevo, ed eppure mi stupisce ogni volta. Daichi è serio nei suoi principi, fermo e ferreo, di norma non considera le emozioni nei suoi calcoli, ha troppo sulle spalle per permetterselo.

Ma con Suga questo non vale.

Con Suga il discorso è diverso.

Per me e Hinata vale assolutamente lo stesso.

– Io non posso ucciderlo, Daichi. –

– Scusami? –

– Io non posso... –

Si gira verso Suga.

Lui...

Sorride.

– Avevi ragione, Suga. –

Lui...

Ho sbagliato.

Ho sbagliato a pensare che non gliel'avesse detto, vero?

Come potevo, in effetti?

In questo mondo fatto di segreti e cose non dette, è stato ingenuo, stupido da parte mia pensare che fra loro non ci fosse la più pura delle verità.

Non posso farci molto, ormai.

Non credo di poter salvare il salvabile, perché non c'è niente di salvabile, ma sicuramente qualcosa che voglio salvare.

– Non sapeva che cosa stava dicendo né a chi, gli servivano i soldi per mangiare. –

– Non per drogarsi? –

Mi mordo la lingua.

– Non è colpa sua se ha avuto una vita difficile. –

– Tutti noi abbiamo avuto una vita difficile. –

Stringo forte il pugno e sento la pelle sulle nocche tendersi, inaridirsi.

Sono sicuro che siano bianche, anche se non posso effettivamente vederle.

– Nessuno di noi ha vissuto come lui. –

– E tu che ne sai? –

La mia sedia scatta indietro, la tazza piena traballa quando sbatto la mano sulla scrivania.

– Che cazzo ne sai tu, Daichi, che cazzo ne sai tu. Quel ragazzo ha vissuto l'inferno, l'hanno rapito e stuprato che aveva dodici cazzo di anni, gli è morta la sorella davanti agli occhi, non dare per scontato che... –

– Siediti e abbassa il tono della voce. –

M'irrigidisco, abbasso lo sguardo, mormoro uno "scusa" a mezza voce e mi rimetto seduto bene, fermo.

Quando provo, mi sforzo di portare la tazza verso le labbra, mi viene il voltastomaco.

Mando giù in ogni caso.

Devo... calmarmi.

– Raccontaci la storia dall'inizio. Com'è andata, che cos'hai fatto. – interviene Suga col solito tono di voce pacato, calmo, mellifluo.

Sospiro.

– Fai quel che ti ha detto Suga. –

– Ok. –

Spiegare... spiegare qualcosa che sinceramente neppure io comprendo non è facile. Ma posso provarci, credo sia l'unica occasione che ho di dire come stanno le cose, non posso di certo lasciarmela scappare così.

– Io non sono mai stato felice qui. –

– Qui dove? –

– Con voi. –

L'aria si fa pesante.

Dura, minacciosa.

Suga si adombra, Daichi non cede di una virgola.

– Da prima che Miwa morisse. Io... io ho a cuore questo posto, ho a cuore voi, ma non sono mai stato felice. –

– Ti fa schifo questa vita? –

– No, è che... –

Il problema non è quando le cose ti fanno schifo.

Il problema è quando le cose non ti fanno niente.

– È che non mi sono mai sentito nulla. Non è che avessi un vero e proprio motivo per andare avanti, sai. Le cose succedevano e basta e io... io le lasciavo succedere. –

Suga annuisce, Daichi lo imita.

– Continua. –

– Quando l'ho visto per la prima volta ho capito che lui era diverso. Lui... mi ha chiesto di sparargli in testa senza neanche vacillare un secondo, gli ho messo la pistola in faccia e non ha chinato lo sguardo nemmeno per un secondo. Lui è fiero, è coraggioso, è forte. È come... come il Sole, Daichi. –

Mi sembra di vederlo mentre parlo.

Di vedere l'energia dentro di lui e dentro i suoi occhi, di vedere tutto quello che tiene rinchiuso in quel piccolo corpo esile.

– Sai che non è facile per me infatuarmi. Non è mai stato... facile. Se non conosco le persone non riesco, e faccio fatica a conoscerle, quindi è praticamente impossibile. Lui... mi è sembrato di conoscerlo dopo qualche ora. Mi è sembrato che mi capisse, che fosse connesso con me. –

Mi tremano forte le mani, prendo un altro sorso di tè e le mie viscere s'ingarbugliano ancora di più.

– È speciale, Daichi. Lui è speciale. –

– Speciale in che senso? –

Non so come dirlo, Daichi, io non lo so. È troppo perché possa esaurirlo con due parole e una magra spiegazione a parole.

– Mi fa sentire felice. Con voi non sono mai stato felice, con lui non riesco a non esserlo. Mi... mi fa battere il cuore e mi fa piangere e vorrei sempre vederlo e... –

Suga batte le dita sulla tazza che tiene in mano, prende un sorso e mi fissa.

– Fate sesso, no? –

Che cosa...

– Sì, anche. –

– Allora è tutto spiegato. –

Tutto spiegato?

Tutto spiegato col fatto che facciamo sesso?

Amo far sesso con lui, è vero, ma non c'entra niente, non c'entra assolutamente niente. Lo amerei anche senza il sesso, cazzo, lo amerei anche se...

– Tobio fa fatica a trovare un partner sessuale, lo sappiamo tutti. Ne deve aver trovato uno che gli piace e si è infatuato. Succede a tutti, è normale. Sarà difficile all'inizio ma avevamo ragione, lo supererà. –

Tobio fa fatica a...

– Sono felice di non aver fatto una stronzata. – gli risponde Daichi.

Io passo con lo sguardo da uno all'altro in completa confusione.

Cosa hanno fatto?

Loro che cosa cazzo hanno fatto?

Loro...

– Di cosa state parlando? –

Suga mi sorride, appoggia la tazza, mi si avvicina.

Alza una mano e mi accarezza il viso.

Reprimo l'istinto di scacciarlo e rimango fermo, rigido come un pezzo di ghiaccio, lo sguardo terrorizzato, la paura che scorre nelle vene.

– Abbiamo risolto noi. Non ti devi preoccupare di niente, prenditi un paio di settimane di pausa, liberati la mente e torna quando ti sentirai pronto. –

Hanno risolto loro?

Hanno...

– Che cosa avete fatto? Ditemi che cazzo avete... –

Daichi sposta i fogli sulla sua scrivania come se parlasse di una cosa da niente, come di un evento casuale, poco importante, come se il prossimo appuntamento fosse più imminente delle cose che sto dicendo io.

– Abbiamo mandato tre uomini a torchiarlo e ucciderlo. Risolviamo noi la cosa, sei sollevato dal problema. Va' a casa e rilassati. –

Le pareti si restringono.

Il Sole scompare, il cielo diventa nero, io non riesco a respirare.

Rimango fermo immobile.

Loro...

Io non ho niente.

Non ho mai avuto niente.

Non ho mai avuto l'amore dei miei genitori che mi hanno venduto come se fossi un pezzo di carne per poter campare, che invece di sforzarsi per portare il pane in tavola hanno preferito liberarsi di me come se fossi un problema.

Mia sorella è morta per portarmi ad una stupida partita di pallavolo.

Non dormo la notte, non riesco a dormire.

Guardo il cielo sperando che cada, ogni giorno, ogni cazzo di giorno che vivo. Spero che le nuvole diventino di ferro e che sprofondino nel terreno, spero che il Sole mi faccia evaporare, spero che tutto finisca.

Non ho mai avuto nulla.

Anche voi, voi che dite di essere la mia famiglia, voi che vi arrogate questo diritto che non avete mai rispettato, io non vi ho mai avuti, siete voi che avete rubato me.

Io non ho niente.

Ho solo Shōyō.

Dovessi rovesciare il mondo, dovessi sbalzare via Dio dal suo trono per lui, io lo farei.

Non sono mai stato niente, prima di lui.

Preferisco morire da Tobio, che campare senza un volto un giorno di più.

La tazza di tè cade sulla moquette, quando mi alzo di botto.

Il mio ginocchio atterra fra i fogli, mi tiro su sulla scrivania, non esito, non rallento, prendo entrambi di sorpresa.

La mia mano cerca e trova la pistola incastrata sul retro dei pantaloni, la prende, lascia scattare la sicura.

Atterro con la canna sulla fronte di Daichi.

Fermo, immobile.

Non mi sembra neppure di star respirando.

Intravedo il mio riflesso sulla finestra, intravedo la giacca del completo aperta, la camicia che tira per il modo in cui ho messo le braccia, il nero del mio tatuaggio che si vede in trasparenza, i pantaloni scuri e le ginocchia appoggiate sul legno della scrivania, la mia testa inclinata verso Daichi, la mano che tiene la pistola sulla sua testa.

Sembro un martire, non è vero?

Io sto morendo pur di non rinnegare quello in cui credo, come un martire.

Uccidetemi.

Crivellatemi di colpi.

Farò come mi hai detto, Suga.

Ti costringerò a vivere quel che voi state facendo vivere a me.

– Digli di smettere. Chiamali e digli di smettere o pianto una pallottola nel tuo cervello, Daichi. –

C'è silenzio, quando parlo.

Mi pare di sentire solo il mio cuore che batte.

Voi lo state uccidendo, non è vero?

Me lo state uccidendo.

Il mio Shōyō.

Voi...

Sento il rumore di uno scatto.

È la sicura della pistola di Suga, non devo girare nemmeno la testa per sapere che è fra le sue mani, diretta verso di me.

– Metti giù la pistola, Tobio, o ti ammazzo. –

– Fai un movimento e Daichi è morto. –

– Tobio, metti giù la cazzo di... –

Respiro tremando così tanto che mi sembra l'aria mi salti nei polmoni, invece di passarci.

– Non è per il sesso. Non è un partner sessuale con cui mi trovo bene, non è solo questo, cazzo. Non è scopare, il problema, come fate a non capirlo? –

Daichi mi guarda fisso, non parla.

– Io sono innamorato. Come potete non capirlo? Come potete voi, fra tutti quanti? Io lo amo, cazzo, lo amo. Lo amo come non amerò mai nessun altro, come voi vi amate a vicenda. Mi state uccidendo, state uccidendo lui e state uccidendo anche me. –

Spingo la canna della pistola più avanti, così in avanti che se sparassi non passerebbe nemmeno una frazione di secondo prima di vedermelo cadere morto di fronte agli occhi.

– O chiami quei pezzi di merda e gli dici di smettere di fare qualsiasi cosa stiano facendo, o qui moriamo in due. –

– Non negozio. –

– Neanch'io, Daichi. –

Deglutisce, Suga fa un passo ma alzo una mano verso di lui appena ne sento il rumore.

– Fanne un altro e sparo. –

– Tu non... –

– Credi che non lo farò? Credi davvero che non lo farò? Tu non sai un cazzo di me, Suga, smetti di fare finta di volermi bene, di capire tutto, cazzo. Sei come Daichi, sei un egoista che pensa solo a se stesso. Non voleva ucciderti, non gliene fregava un cazzo di te, a Shōyō, come non frega a me. Perché cazzo non potete lasciarci vivere? –

Sono infuriato.

Sono infuriato, spaventato, in ansia.

– Io non ho mai chiesto di essere come voi. Io non ho mai chiesto niente, niente in tutta la vita. Ora che vi chiedo una cosa, perché non potete farla? Non l'ho mai fatto prima, perché non potete rispettare una mia richiesta una volta soltanto? –

Sento Suga respirare ma inaspettatamente, Daichi lo guarda e lui si zittisce.

Poi Daichi guarda me.

Mi guarda dritto negli occhi.

– Ora prendo il telefono, non fare strane mosse. –

Mi trema la mano.

– Va bene. –

Osservo lentamente la sua mano passare fra i fogli e tirare fuori il cellulare, lo guardo sbloccare la schermata, andare nelle chiamate recenti.

Avvicina il dito ad un numero.

Non lo conosco.

Lo preme prima che possa fare domande.

Squilla.

Inizia a squillare, lo porta all'orecchio.

Squilla, squilla, squilla.

Poi...

Poi si stacca.

La chiamata si stacca.

La chiamata si stacca, il mio cuore si ferma.

Non porti dietro il telefono se vai ad ammazzare qualcuno. Devono essere già da lui, devono essere già arrivati, devono essere...

– Non rispondono. –

Deglutisco la saliva.

– Devo andare. –

Esito, prima di fuggire.

Esito perché non so se mi spareranno alle spalle mentre scapperò, esito perché temo che non avrò l'occasione di salvarlo, esito perché...

Non hai tempo di esitare, Tobio.

Non ce l'hai.

Non l'hai mai avuto, non ce l'hai ora.

Per una volta nella vita, per una, una soltanto, prenditi quello che vuoi. Se muori morirai credendo in qualcosa, se ti sparano spareranno ad un innamorato e non ad un infelice, se saranno così vigliacchi da ucciderti quando sei di spalle non te ne andrai con la vergogna di non aver mai creduto in te stesso.

Fallo e basta.

Fallo.

Ritiro la pistola, scendo dalla scrivania, corro verso l'ascensore.

Non mi spara nessuno mentre mi infilo dalle porte.

Nessuno dice niente.

Forse il silenzio non era a lutto, forse era solo il fatto che da quando Shōyō c'è, ho smesso di ascoltare il mondo, e tutto fa meno rumore.

Forse non dobbiamo morire.

Forse posso fare qualcosa.

Forse nella vita, per una volta, ho la facoltà di scegliere per me stesso.

Non so bene che cosa succeda.

Dentro di me, non so bene che cosa succeda.

So che non smetto di correre un istante.

Esco dalle porte dell'ascensore e corro, corro, corro finché il cuore non mi sembra sparire dal mio petto, finché non sento più la fatica, finché il dolore è una costante talmente presente da diventare sorda.

Ho lasciato la macchina...

Nel parcheggio.

Ho le chiavi nella tasca.

Pesano come un'incudine, nella tasca.

Le tiro fuori mentre corro, sento qualcuno chiamare il mio nome, chiedermi cosa stia succedendo, ma la pazienza non è mia amica e non la sfrutto, anzi, lascio perdere qualsiasi cosa non sia il pensiero fisso che ho nella testa.

Non devono toccarlo.

Nessuno deve toccarlo.

Nessuno può toccarlo, nessuno può farlo soffrire, nessuno deve permettersi di alzare nemmeno un dito su di lui.

Apro la portiera che mi sembra di poterla sradicare dal telaio, m'infilo e me la richiudo al fianco, non m'importa che la macchina tremi quando lo faccio, non m'interessa.

Faccio partire il motore e premo il piede fino in fondo sulla tavoletta.

Hinata non deve soffrire.

Io devo salvarlo.

Devo...

Io, uccidete me, prendete me, eliminate me.

Torchiatemi, impiccatemi, picchiatemi, sparatemi, uccidetemi.

Fatemi qualsiasi cosa vogliate.

Ma non togliete i raggi al Sole, non rendete una stella nient'altro che una pietra spenta e cadente, non rubate al cielo la luce di cui gode.

Sono infuriato.

Incazzato, disperato.

Non toccate Hinata.

Non toccatelo.

È mio, mio, solo mio, solo e sempre mio, sarà mio per sempre, voglio che sia mio.

Ho davvero puntato una pistola in testa a Daichi? Sono arrivato davvero al punto in cui non m'interessa più neppure di obbedire a chi mi sta sopra, al punto in cui non c'è più niente?

In questa landa desolata di tutto, vedo solo te.

Ma tu devi esserci, o sarà il nulla, e non vorrò mai vivere nel nulla senza di te.

Supero le macchine anche se non potrei.

Non faccio nessuna strada secondaria, non mischio, non confondo, vado dritto per dritto verso il casolare, senza guardarmi indietro, senza rimpiangere.

Non ho rimpianti, davvero.

Non so se avremo pace, quando ti avrò salvato.

So che però io non posso sopravvivere a te.

Non posso vivere senza di te.

Non posso vederti esangue a terra come l'ennesimo cadavere da mangiare.

Volevano che andassi a casa per riprendermi?

Per cosa?

Per guardarmi allo specchio e rendermi conto che senza di te non sono niente?

Per osservare nella sua completezza il disastro che sono, la nullità del mio essere, la pochezza che ho nel petto quando tu non ci sei?

Io non voglio vivere senza di te.

Lo senti?

Lo capisci, Shōyō, lo capisci?

Io non posso vivere senza di te.

Non un minuto, non un istante, non un attimo in questa terra.

Non lasciarmi.

Non andartene.

Rimani con me.

Aspetta un attimo, un attimo ancora.

Arriverò a prenderti.

Sto arrivando a prenderti.

Resisti.

Hai resistito una vita intera a tutto quello che il mondo ti ha fatto, hai superato l'inferno in terra, hai combattuto fino allo stremo delle tue forze ancora e ancora.

Ti salverò.

Ma devi resistere ancora un minuto.

Mi dimentico completamente di qualsiasi regola stradale mentre supero una macchina dietro l'altra, mentre brucio i rossi e sento le persone suonarmi dietro la schiena.

Non sei forse sopravvissuto finora per questo?

Non sei forse sopravvissuto sperando, nonostante il dolore, che finalmente qualcuno vedesse quanto dolore tu hai, tu provi, e che ti venisse a salvare?

Io ti vedo.

Ma tu devi vedermi di rimando.

Fidati di me.

Ti amo, non permetterò che questo cambi mai, mai, mai nella vita.

Dovessi rovesciare il mondo, Shōyō, lo rovescerò solo per offrirlo a te.

Intravedo il casolare in lontananza.

Accelero ancora, ancora.

Non provo più nemmeno ansia, ma vero e proprio dolore fisico.

Fa male, fa malissimo.

Non posso immaginare come ti senta tu, quel che provi tu.

Fa male il cuore, fa male il petto, la testa le dita.

Soffro con te.

Permettimi di soffrire con te.

Permettimi di soffrire per te.

Inchiodo di colpo, il mio corpo si sbalza in avanti e la cintura soltanto m'impedisce di volare direttamente fuori dal cruscotto. Non esplode l'airbag, grazie a Dio, ma so che un istante di più, una frenata appena più forte, e sarebbe andata a finire in quel modo.

Forse davvero il destino vuole che viviamo.

Forse davvero posso decidere io, una volta in questa vita di merda, di me stesso e di noi.

Scendo col fiatone.

Apro la portiera, la spalanco subito e la richiudo con un calcio, tengo la pistola fra le mani, i denti stretti.

È aperta.

La catena è aperta.

Qualcuno è entrato nel nostro posto.

Qualcuno ha violato il nostro santuario.

La furia che provo non l'ho provata mai in tutta la mia vita.

Percorro il vialetto praticamente correndo, arrivo alla porta di metallo, appoggio una mano e faccio per aprire.

Ci uccideranno entrambi, fra qualche giorno?

Ci troveranno e ci uccideranno?

Sappiamo di non poterci nascondere.

Sappiamo che niente e nessuno potrà salvarci quando la furia dei cieli si libererà su di noi.

Ma dobbiamo morire insieme.

Se dobbiamo farlo, che sia insieme.

Non l'avevamo calcolato, che potesse finire così.

Ma sinceramente, o tutto o niente, non è sempre così che vale per te?

Apro la porta.

Sento la sua voce prima di vedere.

Dice...

Lui dice...

– Vi ammazzerà quando lo saprà. Lui vi ammazzerà tutti e non potrete fare niente per evitarlo. Lui... –

Lui vi ammazzerà tutti.

È vero.

Lui sono io, ed è vero.

Non potete vivere più.

Non avete più il diritto di passare anche solo un minuto qui, con me, con noi.

Non ti bruci quando tocchi il Sole?

Lo fai.

Sono io che brucerò voi per il mio.

L'hanno legato.

Con le braccia tirate in alto e le spalle piegate in modo innaturale, la faccia piena di sangue, le cosce appoggiate sul pavimento, il collo che non regge più.

Non ha la maglietta.

Gliel'hanno tolta.

Quella maglietta era la mia, gliel'avevo lasciata io.

Come...

Il sangue gli esce dalla bocca, dal naso.

È ancora vivo?

L'hanno picchiato al punto che morirà di fronte ai miei occhi?

Quanto male deve fare prendere colpi da tre uomini che sono il doppio di te? Quanto forte devi essere per continuare a rivolgere a loro quello sguardo così fiero che sembra bucare persino il cemento dei muri?

Sono tre, gli uomini.

Alti, vestiti di nero.

Hanno le nocche spaccate, uno tiene in mano la pistola, uno sta dietro, uno ha la mano e il braccio tesi oltre il viso di Hinata, come se...

L'ha colpito.

L'ha appena colpito.

Lui l'ha...

Shōyō è l'ultimo che si volta verso di me.

Sorride.

Mi sorride come fa sempre, mi sorride fino alla fine, mi sorride fra il sangue e le lacrime e il terrore di lasciarci veramente la pelle, là, appeso sul soffitto di un posto dove pretendevamo di sentirci al sicuro.

Sorride e basta.

Sorride e parla.

Non intendo quel che dice perché ormai non lo guardo più.

La mia mano lascia scattare la sicura e non esito, non esito più.

Tiro su la pistola.

Sparo.

Sparo a quello con l'arma in mano, sparo a quello defilato indietro, punto al terzo, quello che l'ha toccato, quello che ha osato toccarlo, le mie emozioni si liberano.

Tu, figlio di puttana.

Tu, tu, tu.

Chi ti ha detto che potevi?

Chi ti ha fatto pensare che fosse lecito fare una cosa del genere?

È mio.

Hinata Shōyō è mio.

Non puoi toccare quel che è mio.

Non puoi farlo e pretendere che non ci sia tutta l'emozione che ho tenuto dentro di me per vent'anni nel modo in cui deciderò di riprendermi ciò che mi appartiene.

Gli scarico il caricatore addosso.

Un proiettile dietro l'altro, uno scoppio dietro l'altro, uno sparo dietro l'altro.

Muori.

Crepa.

Sparisci.

Tu, tutti, il mondo.

Daichi, Sugawara, il Karasuno, me stesso, il mondo, il destino, la sorte.

Sparite.

Io non ho bisogno di niente.

Non chiedo niente.

Solo di non toccare ciò che conta per me.

Solo di lasciar stare l'unica cosa che conta.

Non mi sembra di essere egoista, nel chiederlo.

Ma lo fossi, lo sarei ancora.

Che il mondo cada, si rovesci o scompaia, tutto va bene, se posso rimanere assieme a te.

Gli sparo diciotto volte.

In testa, in faccia, sul petto.

Non sapevo neppure come si chiamasse, chi fosse, se avesse qualcosa a cui tornare.

Diciotto volte.

Con le mani sulla pistola e gli occhi aperti, il vento che entra dalla porta aperta e mi fa muovere i capelli, col silenzio di un quartiere residenziale che attende fuori di qui.

Diciotto volte.

Continua a uscire sangue e io continuo a sparare, continuo ad avvicinarmi.

Quando premo il grilletto e niente esce dalla canna della pistola, mi ritrovo in piedi, col fiatone, il petto che sale e scende e l'aria che non sembra mai abbastanza, sfinito, esausto, in preda a tutto e a niente assieme.

L'ho salvato.

Ti ho salvato.

Hai visto, Shōyō, l'ho ucciso.

Io ti ho salvato, io ti ho...

Lascio cadere la pistola per terra e rivolgo l'attenzione all'unica cosa che ne meriti qua dentro.

Da vicino è messo ancora peggio, il suo viso si è gonfiato in alcuni punti, segno che non è da poco che lo stavano picchiando, le braccia sembrano volersi staccare dal corpo, c'è così tanto sangue che neppure si vedono i morsi che gli ho lasciato nemmeno sei ore fa.

Trovo il gancio a cui l'hanno legato in alto, sfilo la corda, sto attento quando lo guardo accasciarsi a terra.

Lo prendo dalle spalle, lo porto sul mio grembo, non m'importa che mi sporchi i vestiti, non m'è mai importato.

– Shōyō? Shōyō ti prego dimmi qualcosa. Ti prego, ti prego, ti prego, cazzo, ti pre... –

– Tobio. –

Apre gli occhi.

Così grandi, così belli.

Le emozioni dentro i tuoi occhi sono diverse, Shōyō, sono più brillanti, sono più vere.

– Che cosa ti hanno fatto? Come stai? Come... –

Tossisce ed esce sangue dalle sue labbra.

Non mi sembrava che gli avessero sparato, quindi...

Lo guardo, guardo in ogni punto del suo busto magro, e...

Non ti sparano se non parli.

Se ti tieni dentro le parole e qualcuno vuole fartele dire, ti torturano.

Per ammazzarti, ti accoltellano.

Che hai un po' di tempo prima di crepare e puoi pregare per la tua vita.

È netta, chiara, un segno scuro e non tanto grande, sul fianco, sopra lo stomaco.

Tossisce altro sangue.

– No, cazzo, no, no, no, ora... –

Mi alzo con lui in braccio.

– Ora andiamo in ospedale, va tutto bene, starai bene, vedrai, starai bene. Va tutto bene, va tutto bene, va tutto... –

Mi si rannicchia addosso, così lo sento respirare.

Respira, ti prego.

Respira.

Respira ancora.

Un'altra volta.

Un'altra...

– Non lasciarmi, Shōyō, ti prego. Ti prego, ti prego. Non lasciarmi da solo. È colpa mia, è tutta colpa mia, io non voglio che tu te ne vada, ti amo, ti amo tanto, non abbandonarmi, non so come andare avanti senza di te e io... –

Supero l'ingresso, vado verso la macchina.

– Ti amo, Shōyō, ti prego, non mi lasciare. –

Tossisce ancora.

Gli osservo il viso.

Sorride, lui sorride in qualsiasi modo, in qualsiasi momento.

Sbatte le palpebre, stringe i denti, si vede che soffre, che sta male.

Perché a te?

Perché il dolore del mondo devono darlo a te?

Tu che cos'hai fatto?

Non c'è nessun motivo per cui dovrebbe essere così, Shōyō.

Tu sei l'unica cosa bella che ci sia, qui.

Perché dovresti morire?

Perché dovresti anche solo soffrire?

Ucciderò chi l'ha scelto.

Che sia Dio o il destino, per te ucciderei anche loro.

– Tobio, io... –

Gli accarezzo i capelli, pochi metri ci distanziano dalla macchina.

C'è un ospedale vicino, so che c'è, posso...

– Tobio... –

Gli bacio la fronte con le lacrime che scendono ormai come un torrente sul mio viso.

Sai di arancia anche quando sai di sangue.

Sai di Sole, sai di luce, sai di felicità.

Sopravvivi.

Ti prego.

Ti prego, ti prego, ti prego.

Passerò la mia vita a farmi perdonare, passerò la mia vita a chiederti scusa per aver permesso che tutto questo accadesse, ma devi esserci per permettermelo, ti prego.

Sorride ancora, chiude gli occhi.

Lo bacio un'ultima volta.

– Tobio, io non voglio morire. –

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