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𝗶 𝘁𝗵𝗶𝗻𝗸 𝗶 𝗸𝗻𝗼𝘄 𝗶𝘁 𝘁𝗼𝗼 𝘀𝗼𝗺𝗲𝘁𝗶𝗺𝗲𝘀

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− Sono piuttosto certo che il mio certificato di nascita nemmeno esista. –

− No? –

− No. –

Sposto il peso indietro, la mia schiena sbatte contro il metallo della sedia, incrocio le braccia al petto.

− Da quanto ne so sono nato in casa, una vicina ha aiutato mia madre, non c'era nessuno, non siamo mai andati in ospedale. –

− È un miracolo che tu sia vivo, allora. –

− Lo è. –

Porto la sigaretta alla bocca, aspiro e lascio cadere la cenere per terra.

− Non mi ricordo molto di mia madre. –

− È morta? –

− No, ci ha abbandonati. –

Mi guarda di sfuggita negli occhi e rispondo al contatto visivo per un attimo, prima di ricominciare a fumare e schiantare le pupille verso il muro al fondo della stanza.

I suoi occhi sono troppo grandi.

Sembrano il Sole in terra quando sorride, o almeno, lo sono sembrati tre settimane fa al me che dice di ricordarselo, ma normalmente hanno una vena inquietante, strana.

Sembra che ti guardino dentro.

Non voglio guardarmi dentro da solo, Hinata Shōyō, come pensi che possa permettere a te di farlo?

− Tua sorella quanti anni ha? –

− Aveva. –

− Aveva. – ripeto.

Mi aveva detto che era morta, credo.

So che la prima volta che l'ho visto era notte fonda ed ero turbato, non stavo tanto bene, avevo dormito poco. Volevo solo una conferma che ricordassi la cosa giusta, tutto qui.

− Sette meno di me. –

− Quindi i primi sette anni li hai vissuti a casa? –

− All'incirca, possiamo dire così. –

− E non te la ricordi bene? −

Ride appena.

− Diciamo più che preferisco non ricordarmelo. −

Ho chiesto di portare qui una lampada che facesse una luce meno gialla.

Volevo vedere per bene il colore dei suoi capelli.

Sono arancioni per davvero, di quel fulvo chiaro che tende proprio al color carota, sono ricci e folti e credo che profumino d'arancia, anche se non ho ancora testato la mia teoria.

Da quando l'hanno disintossicato è ancora più attraente.

Non ha la venatura giallastra nella pelle o le labbra spaccate, non trema e non sbava quando parla, è più composto, più umano, più simile ad una persona normale che ad un animale in gabbia.

Ha le gambe corte e sottili, le mani piccole, i polsi magri, si scosta i capelli dalla fronte come se gli dessero fastidio, immagino che non sia abituato a portarli così lunghi.

Non è virile.

Non è attraente in senso virile.

Non è alto, imponente, con le spalle larghe e la mascella definita.

Non è... me.

È bello in un altro modo.

Trovarlo bello, mi spaventa.

− Cosa faceva tua madre? –

Ride appena.

− Credo che tu possa arrivarci da solo, Tobio. –

Mi chiama per nome.

Mi chiama sempre per nome.

Non sono passato spesso qui, negli ultimi venti giorni, aspettavo che si riprendesse e che smettesse di frignare per avere un'altra dose.

Non credo che abbia smesso di volerla, ha solo sconfitto la dipendenza fisica, la psicologica è un mostro ancora da affrontare, ma a prescindere dai demoni che gli corrono nelle vene, a me interessa solo che parli.

In ogni caso, mi ha chiamato per nome la prima volta che ci siamo visti, mi ha chiamato per nome le due volte che ho fatto capolino dalla porta solo per vederlo, mi chiama per nome adesso.

Non mi fa incazzare, questa cosa.

Anzi, mi piace.

Che qualcuno si ricordi, anche per finta, che non sono solo il corvo che uccide ma anche Tobio, il ventenne, il musone demisessuale coi capelli scuri a cui piace il latte al cioccolato.

Non che lui lo sappia.

È solo come mi fa sentire.

− Eravate poveri? –

− Credi che sarei nato in casa se non fossi stato povero? –

In effetti.

Stringo lo sguardo su di lui.

C'è un'altra cosa di lui che trovo attraente.

L'orgoglio.

È piccolo, minuto, sembra un fuscello sul punto di spezzarsi, potrei ucciderlo a mani nude, stringere forte le dita su quel suo collo sottile e sentirlo morire addosso a me.

Ma non abbassa mai lo sguardo.

Non cede, non chiede "scusa", non piange e non si lamenta, non si getta ai miei piedi implorando pietà, non finge di comportarsi bene solo per ottenere la mia clemenza.

Hinata Shōyō è un uomo d'orgoglio.

Anche se non è un uomo ma più un ragazzino magro.

Risponde e scherza, mi prende in giro e mi chiama per nome, mi dice che sono "antipatico" e mi fa notare le cose stupide che dico senza il minimo grado d'incertezza.

Sembra che non abbia paura di morire.

O piuttosto, che non veda l'ora.

− Era una prostituta. Storia classica per una famiglia classica dei bassifondi. – dice poi, evitandomi la complicazione di indovinare.

− Avevate un uomo in casa? –

− No, ma ti pare. Eravamo io e lei, poi è arrivata Natsu e ha deciso di mandarci via. Tutto qui. –

− Perché quando è nata lei e non prima? –

− Perché di me non le importava molto. –

Si guarda le dita, le nocche screpolate e l'osso sporgente dei polsi.

È seduto contro la colonnina come l'ultima volta, le gambe incrociate e la testa in linea retta col collo. Mi guarda saltuariamente negli occhi, poi vaga con lo sguardo nella stanza come se non riuscisse a focalizzarsi su una cosa sola.

− Non siamo figli dello stesso padre. Non lo eravamo. Ma somigliavamo tantissimo a mia madre, sembravamo una la copia dell'altro. –

Nostalgia.

Parla con nostalgia.

Lo capisco più di quanto non vorrei ammettere.

− Credo che a mia madre sia arrivato l'istinto materno tutto d'un colpo quando è nata lei e ha capito che le faceva schifo avere figli. Forse che l'ha partorita in ospedale, forse che aveva più di vent'anni. –

− Quanti anni aveva quando sei nato tu? –

Si morde l'interno della bocca.

− Sedici, mi pare. Sedici o diciassette. –

− Era una ragazzina. –

Mi fissa come se volesse colpirmi. Le sue iridi diventano rigide come lame, niente più quell'aura scoppiettante del legno del camino, più una lancia dritta contro di me.

− E io non ho mai chiesto di nascere. Se hai sedici anni e non sai campare per te stessa allora non fare un figlio. Era una ragazzina, è vero, una ragazzina stupida ed egoista. –

− Non la stavo giustificando. –

− Tutti lo fanno. –

Non so perché, ma mi dispiace che mi abbia frainteso.

Mi dispiace che pensi che non sono dalla sua parte.

Mi dispiace.

Forse perché ti capisco più di quanto vorrei ammettere a me stesso.

Forse perché mi sento... connesso.

− Dove vi ha lasciati? –

Si scosta i capelli dalla fronte.

Ha le sopracciglia dello stesso colore aranciato, sono sottili ed espressive. Si muovono armonicamente col viso, si abbassano quando si arrabbia e si piegano quando ride, si distendono quando sospira e si aggrottano quando non capisce quel che gli dico.

In questo momento sono tirate su, in alto, e lievemente inclinate.

Pensa che quel che gli ho chiesto sia divertente.

Perché lo pensa?

− Lo dici come se ti aspettassi di sentirmi dire "in un ospedale" o "in una chiesa" o "all'orfanotrofio". – ribatte.

− Non è così? –

− Mia madre ci ha lasciati per strada. Ha accostato con la macchina in un viottolo in periferia, ci ha detto di scendere e che le dispiaceva ma questa vita non faceva per lei. Ha detto che saremmo stati meglio senza. Ha detto che un giorno ci avrebbe cercati. –

− Poi se n'è andata? –

− Senza nemmeno guardare indietro. –

Cazzo, non so se sia peggio questa o la mia. Non so se sia peggio mio padre che ci consegna ai mafiosi senza batter ciglio o sua madre che lo lascia per strada come se fosse un pacco che non ha intenzione di tenere in casa.

− Che cosa avete fatto dopo? −

Alza le spalle.

− Siamo sopravvissuti. All'inizio le persone avevano pena di noi e ci davano da mangiare qualcosa, ci portavano delle coperte, s'intenerivano. Non che fosse per darci una mano, per carità, era per sentirsi meglio con loro stessi. −

Nessuno ti aiuta per gentilezza, sembra saperlo meglio di me.

− Ma poi abbiamo iniziato a sembrare meno bambini sperduti e più randagi e siamo scomparsi anche per loro. Se sei carino e pulito ti do una mano, se stai crepando di fame, ti sporgono le ossa e somigli ad un animale selvatico mi sento meno in colpa a far finta che tu non esista. −

Fa male. La sua voce, la sua storia, fa male.

Non sono abituato a provare empatia ma qualcosa in lui me l'accende nel petto.

− Ad un certo punto non c'era più niente per noi in quel quartiere e abbiamo deciso di andare via. Siamo scesi verso la periferia pura e guarda caso era pieno di gente come noi. Di senzatetto e di disperati. Ci siamo uniti a loro e abbiamo continuato a sopravvivere, mi hanno insegnato a rubare e ho campato così per un paio d'anni. Non ero felice, ma ero sereno. C'erano altri bambini, almeno non eravamo da soli. −

Anche io.

Anche io mi sono sentito così.

Nei collegi spogli dove tenevano quelli come me, nei dormitori infiniti di bambini reclutati dalla Yakuza per fare questo o quell'altro.

Non felice.

In pace perché qualcuno ti capisce.

− Avevo un gruppo di amici, erano quattro, andavamo d'accordo. −

− Che fine hanno fatto? −

− Si sono dimenticati di me. −

Grandi, scuri, intensi. Ha gli occhi così belli, Shōyō, così belli davvero.

− Anche i miei amici mi hanno lasciato indietro. − mi scappa dalle labbra.

Non ne rimane colpito né mi prende in giro, non si chiede perché gliel'abbia detto o che cosa io intenda, annuisce e recepisce le mie parole, fine.

− Non riesci a biasimarli, vero? −

− Già. − rispondo.

Annuisce un'altra volta.

− Vorresti poterlo fare, ma come fai? Non è colpa loro se le loro vite sono diverse dalla tua, non è colpa loro se non riescono a capirti, non è colpa loro se sei così sbagliato. È normale che lo facciano, fanno bene a farlo. Nessuno mai rimarrebbe con qualcuno come te. −

− Si chiedono perché tu sia così e ti guardano sconsolati, vorrebbero aiutarti ma non riescono a raggiungerti, ma la colpa è solo tua, perché non sei mai riuscito a farti aiutare. − completo.

Shōyō sorride appena.

− I miei se ne sono andati uno ad uno e non sono mai venuti a cercarmi. Dicevo di poter gestire la situazione da solo perché sono troppo orgoglioso per arrendermi, ma la verità è che volevo soltanto che qualcuno venisse a salvarmi. −

Mi sporgo verso di lui.

− Io sono sempre stato il più bravo, il più promettente, il migliore delle reclute. Non mi sono mai reso conto che tutta la mia ambizione mi avrebbe fatto piazza pulita attorno. −

Ho sempre avuto bisogno di qualcuno.

Io... ero solo bravo, in fondo. Non li odiavo, non ce l'avevo con loro, non mi dispiacevano, mi facevano stare meglio. Ma non riuscivo a capire che la mia non era la peculiarità di un carattere un po' strano, quanto l'arroganza di un re che desidera sudditi.

L'ho capito, poi, che il problema ero io.

Ma era decisamente troppo tardi.

Torno indietro, contro lo schienale.

− Stare da soli è una merda, ma... −

Mi guarda sconsolato.

− Ma almeno non hai nessuno da deludere. −

Smetto di parlare, lo fa anche lui.

Non avrei dovuto, ma non riesco a costringere il mio cervello a pentirsi.

Mi dico che tanto morirà e non lo dirà a nessuno, e che forse non è un male parlare con qualcuno che mi capisce, forse...

Mi salta un battito nel petto.

No, Tobio, non possiamo permettercelo.

Non possiamo permetterci di abbassare questa muraglia, lo capisci?

Tu lo sai come sei fatto.

Tu lo sai che se permetti alle tue emozioni di comprenderlo e di essere comprese da lui, se permetti a te stesso di legarti, potresti non uscirne.

Non puoi permettertelo.

Ma forse anche se non posso, non c'è molto che possa fare per impedirlo.

Apro la bocca per fare un'altra domanda ma lo vedo piegare le gambe sotto di sé.

Flette le cosce e si mette in ginocchio, si tira su, appoggia una mano su una delle mie gambe.

− Che stai facendo? –

− Dammi un tiro, Tobio. –

Sono rigido.

Sente che sono rigido.

Non mi piace essere toccato, nessuno mi tocca, nessuno può farlo. Non mi piace mai, lo odio, lo detesto.

Non faccio sesso di frequente, in realtà non mi piace farlo, ma essendo un ragazzo ed avendo vent'anni è vero che qualche volta ne sento il bisogno. È una cosa assolutamente fisica, non mentale, la mia mente è chiusa come una serratura a doppia mandata, sul frangente.

Quando faccio sesso non mi faccio toccare.

Mai.

Mai, mai.

Medito di tirare fuori la pistola e sparargli in mezzo alla mano, sul palmo, poi su verso il braccio, di fargli pentire di averci anche solo provato.

Ma mi rendo conto con terrore che la sensazione non è poi spiacevole come temevo e che le sue dita sottili aperte contro i miei pantaloni non mi stanno facendo niente di male.

Mi lascio andare.

Tanto lo ucciderò lo stesso.

Non è un problema se gli concedo di avvicinarsi un pochino.

No?

Piego il braccio e porto la mano verso di lui, sporge il collo, appoggia le labbra contro le mie dita sul mozzicone che sporge, tira.

Non so se siano le mie mani ad essere grandi o lui ad essere minuto, forse la combinazione di entrambi i fattori, ma sembra così esile, vicino a me.

Esile, delicato.

Ed eppure assolutamente di ferro nello spirito, perché non trema e non vacilla dove persone molto più imponenti sarebbero finite a piangere per terra.

Espira il fumo ma non si allontana.

Sposta la mano sul mio polso e lo tiene fermo, si avvicina ancora, prende un altro tiro.

− Potevi chiedermi una sigaretta intera. –

− Darti fastidio è molto più divertente. –

Al terzo tiro la carta bianca scompare e rimane solo l'arancione pallido del filtro, per cui allontano la mano da lui e lancio il mozzicone dall'altra parte della stanza.

Shōyō non ritorna dov'era, però.

Rimane un attimo lì, in ginocchio vicino a me, le mani spalmate fra le mie braccia e le mie cosce.

− Perché fai quella faccia quando parlo della mia vita? – chiede di colpo.

Mi rivolgo a lui completamente confuso.

− Quale faccia? –

− Come... come se la sentissi. –

Ho fatto una faccia dispiaciuta?

Non ricordo di averlo fatto.

Forse è solo la mia faccia, forse non me ne sono accorto.

Forse...

− Non tanto la faccia, scusami, più gli occhi. Fai gli occhi tristi. –

− Io ho gli occhi tristi. Ci sono nato. Sono fatti così. –

Piega appena la testa.

− Mia sorella aveva un libro quando eravamo piccoli, uno di quelli grandi con le pagine sottili e la copertina di cartone. Non sapevo leggere ma le descrivevo le figure. –

Non so dove voglia arrivare.

So che tira su una mano e non riesco ad impormi di fermarlo.

− C'era un bambino con gli occhi blu che non piangeva mentre tutti gli altri lo facevano. –

Appoggia le dita contro il mio zigomo, le passa vicino al bordo di un occhio.

− Dicevo sempre a Natsu che i suoi occhi erano blu perché teneva dentro tutte le lacrime e non le lasciava mai uscire. Che sarebbero diventati castani se l'avesse fatto, ma che lui non ne era capace. –

Il mio respiro s'incastra nella mia trachea, la voce sembra morirmi in gola.

− Tu piangi mai, Tobio? –

− No. –

Alza gli angoli della bocca.

− Forse è per questo che sono tristi. –

Sbuffo.

− Forse solo perché sono fatti così. –

Si allontana senza che lo scacci, sembra comprendere il fastidio dentro di me, sembra capire quanto nervoso mi faccia sentire il suo contatto e si ritrae.

Torna con la schiena sulla colonnina.

− Vuoi dire che sei nato infelice? –

− Non ricordo di essere stato felice un giorno della mia vita. –

Mi mordo l'interno della bocca, a dirglielo, ma è la verità, lo è. Io amavo i miei genitori da piccolo ma non ho ricordi nitidi di loro, e della mia vita con Miwa dico ora che era serena, allora non mi sembrava così soddisfacente.

Ride piano, in un modo allegro ma sconsolato insieme.

− Allora sei come me. –

Deglutisco le sue parole con fatica.

Io non so se sia il destino, non so se sia il caso o che cazzo ne so.

Ma lo penso da che l'ho visto la prima volta.

Io e te, Hinata Shōyō, siamo così... simili.

Da me si aspettano amore che non ho mai imparato come dare e a te non attribuiscono aspettative e nessuno crede in te, ma alla fine, siamo simili davvero.

Siamo soli.

Per motivi diversi ma siamo soli.

Che il cielo mi abbia mandato qui ad uccidere la parte di me che soffre per questa cosa?

− Io e te non abbiamo niente in comune. –

Mi guarda di sbieco.

− Ne sei così sicuro? –

− Io non sto per morire e non sono rinchiuso in un capanno della Yakuza. Non sono così idiota. –

Arriccia il naso.

− Io non sono idiota. –

Non sembra che lo dica per scherzo né che lo dica per gioco. Non vuole battibeccare e non vuole far finta di niente, mi sta dicendo qualcosa che vuole io senta.

− Stavo solo aspettando che qualcuno venisse ad uccidermi. Voi, la droga, qualcosa. Non mi stai facendo un torto. −

La fascinazione che quest'esserino ha per la morte è così malsana, così morbosa. È pieno di vita, è fatto e composto e scolpito nella vita, l'energia gli scorre sotto le vene, si vede che è fatto per rimanere qui, per stare qui.

Eppure quel che dice è contraddittorio.

Anche questa contraddizione, somiglia alle mie in modo spaventoso.

E credo che lui lo sappia bene.

− Non sei forse anche tu così? −

− Come? −

Non so perché io mi ritrovi a rispondere alle sue domande quando non c'è bisogno che lo faccia. Non so perché parli con lui come se talvolta fosse un mio pari. Lo faccio e basta.

− Guardi il mondo e parli di te come se non vedessi l'ora di smetterla con tutto. −

Prendo aria per parlare ma non lo faccio.

− Hai le occhiaie sotto gli occhi e ti ho sentito lamentarti che dormi male. Ma dormi male davvero? −

Io...

Dormo tanto.

Ma non dormo bene, io dormo...

− O forse ogni volta che dormi speri di non riaprire gli occhi e "male" per te significa che ti sei svegliato un altro giorno in questo mondo di merda, Tobio? −

Mi s'irrigidisce la spina dorsale, un brivido percorre piano ognuna delle mie vertebre.

− Penso che i nostri problemi siano diversi, Tobio, ma le nostre storie sono simili. Io e te, siamo simili. −

È come se vedessi qualcosa che non c'è. È come se apparisse un filo sottile e quasi trasparente che si lega a me e a lui, è come se ci connettessimo, in quest'istante.

Vai via, Tobio.

Lo sai cosa ti fanno le persone che si connettono a te.

Lo sai cosa potrebbe succedere se ti fai coinvolgere da qualcuno.

Vai via.

Vai...

− Non credevo che avrei mai trovato qualcuno in grado di capirmi. − conclude.

Io non ti capisco.

Io non...

Ma è vero? È forse vero, questo?

O forse hai ragione tu?

Alla fine guardiamo in faccia la realtà.

Sei esattamente come me qualcuno che tira avanti anche se sembra non averne più voglia. Sei esattamente come me qualcuno che non cede, che vive d'orgoglio e che non teme la morte e anzi quasi ne è affascinato, sei esattamente come me il frutto degli errori degli altri, che paghi e pagherai per tutta la vita nonostante tu stesso non li abbia commessi.

Scommetto che lo so, come continua la tua storia.

Scommetto che ti hanno costretto, ti sei trovato costretto a fare quel che facevi. Scommetto che guardavi il mondo cambiare e vivere senza di te e speravi che qualcosa sarebbe esploso, che avresti potuto ricominciare daccapo, essere qualcun altro.

Forse io e te siamo davvero uguali.

Forse siamo davvero due facce della stessa medaglia.

Forse tu capisci davvero chi sono.

Sposto il polsino della camicia e guardo il quadrante dell'orologio.

Sono le sei e mezza del mattino, devo essere da Sawamura per le sette, sono già in ritardo.

Mi alzo di scatto e porto indietro la sedia con me.

− Ci rivediamo presto? – mi sento chiedere.

− Probabilmente. – rispondo.

Cerco di guardarlo il meno possibile ma è difficile, difficile staccargli gli occhi di dosso e difficile allontanarsi da quest'aura così attraente che lo circonda.

Mi concedo di allungarmi verso di lui, arruffargli i capelli.

Sorride di nuovo come se il Sole fosse dentro di lui.

Rimango senza fiato.

Devo costringere le mie gambe a muoversi per evitare di cadergli in ginocchio di fronte pregandolo di sorridermi a quel modo ancora, ancora e ancora.

Mi porto le dita verso il viso, mentre attraverso la porta.

Sanno di arancia.

Ora, i suoi capelli, sanno decisamente di arancia.

Non sarei dovuto tornare così presto. Quattro giorni dopo, di fronte alle catene spesse che chiudono il casolare dove l'abbiamo infilato, mi dico che non sarei davvero dovuto tornare così presto.

Non esiste un manuale dei rapimenti, cazzo, no. Ma esistono delle cose che t'insegnano quando fai questa vita, e quelle prevedono che più li lasci là dentro, più gli stronzi che devono parlare si sentiranno alienati, stanchi e soli, e più facile sarà di conseguenza tirar fuori da loro le parole che hai bisogno di sentire.

Almeno dieci giorni.

Se tutto fosse andato come previsto, quindici.

Ma io...

"Ci rivediamo presto?"

"Probabilmente."

Mi sembra di aver tradito la sua fiducia anche in queste novantasei ore che sono rimasto lontano da lui.

Non gli devo lealtà, non gli devo correttezza, non gli devo niente.

Ho una barca di lavoro da fare, ho un sacco di posti in cui andare, un sacco di persone da vedere e un sacco di stronzate di cui occuparmi. Questo non è una priorità, alla fine l'abbia preso, non può far male a nessuno ed è più una vendetta per conto di Daichi che altro.

Non riesco a stargli lontano.

Non riesco a non pensarci.

Non riesco a fare a meno di credere che ultimamente, mi sembra di essere stato in pace solo seduto su quella cazzo di sedia di metallo a guardarlo sorridere.

La mia sessualità non è un argomento di discussione in generale, da una parte perché non è affare di nessuno, dall'altra perché fa parte di uno spettro ampio che le persone normali non capiscono.

Finché dici di volerti scopare qualcuno, anche se la cosa fa ribrezzo, la gente empatizza e comprende.

Quando invece spieghi che non vuoi farlo e che non volerlo fare fa parte di te, tutti si confondono, perché non hanno né la sensibilità di capire, né la voglia di fare uno sforzo e aprire i loro orizzonti verso qualcosa che non hanno mai provato.

Io sono nato così.

Sono fatto così.

Sono... sono così e basta.

Riconosco il bell'aspetto delle persone ma mai, mai, mai, se le vedo per la prima volta formulo il pensiero cosciente che vorrei fare sesso con loro. Non mi attraggono da quel punto di vista, le trovo belle ma non molto di più, mi forzo di far cose che non vorrei fare solo per dire al mio stupido corpo di star zitto e smettere di martoriarmi.

L'unico motivo per cui mi capita di pensare di voler far sesso con qualcuno è se lo conosco bene. Se sono emotivamente connesso, se mi sento compreso e capito e se io stesso comprendo e capisco. Provo attrazione sessuale per persone con cui mi lego emotivamente, se no, zero.

Il problema di essere demisessuale e un mafioso allo stesso tempo, è che legarti emotivamente in un mondo fatto di spari, minacce e crimini violenti, è pressoché impossibile.

Mi è successo un paio di volte.

Ma è stato prima che diventassi questo, prima che rendessi la mia persona un muro di ferro inespugnabile che non dà accesso nemmeno agli amici di anni.

Hinata Shōyō mi attrae.

Sessualmente.

Me ne sono reso conto ieri sera.

Lo conosco bene? No, non lo conosco bene, non so tutto di lui e non siamo mai stati in una di quelle situazioni dove puoi conoscerti con qualcuno. Non abbiamo preso un caffè insieme, non siamo andati al cinema, men che meno siamo stati seduti a cena a chiacchierare fra di noi.

Però mi coinvolge emotivamente.

Mi entra nella testa.

Mi somiglia.

È decisamente connesso alle mie emozioni, al mio cervello e a tutta la parte più sensibile di me.

Non so come sia successo.

Non so che cosa glielo abbia permesso.

Forse ho abbassato la guardia perché era solo un prigioniero, o forse ho ammirato così tanto la sua forza d'animo e il suo coraggio che gli ho permesso di arrivarmi dentro, non saprei dirlo con certezza.

So che mi attrae.

Questa cosa mi terrorizza.

Ero seduto sul divano di casa mia con la sigaretta in bocca e il telegiornale di sottofondo.

Pensavo che sarei dovuto andare a dormire, che avevo passato tutta la notte a lavorare e che ero stanco, stanco morto, che volevo solo chiudere gli occhi e lasciarmi andare.

È passata alle notizie una foto di una ragazza morta in un incidente stradale, aveva i capelli neri, sembrava giovane.

Non c'entrava niente con Miwa, non è morta così, non le somigliava affatto.

Mi ha colpito lo stesso.

Mi sentivo a disagio e mi sentivo in ansia, volevo cacciarmi via quell'idea dalla testa, volevo tornare sereno, apatico ma sereno, rinchiuso e piatto, vuoto ma non in tempesta.

"Pensa a qualcosa che ti fa stare bene".

Di solito penso a quella volta che mi hanno mandato a uccidere un tizio in un posto fuori città, vicino al mare. Non che uccidere mi calmi, non lo fa, ma dopo averlo ucciso ricordo di essermi seduto sul patio di casa sua, di aver acceso una sigaretta, di aver ascoltato il rumore della mattina presto in campagna e di aver guardato le onde piatte della distesa azzurra in lontananza.

Non è quello che il mio cervello ha immaginato ieri.

Il mio cervello ha pensato a Hinata Shōyō.

Al sorriso, al modo in cui gli si formano una miriade di rughette adorabili attorno alle labbra quando lo fa, agli occhi che scintillano, ai capelli mossi e disordinati attorno al viso.

Alla sua voce che dice "Tobio".

Al modo in cui mi ha toccato il viso.

Ho immaginato di baciarlo.

Di prenderlo su dalle spalle magre e di stringerlo forte fra le braccia, di infilare il naso fra i suoi capelli e le mani sotto la sua maglietta, di toccare la tua fronte con la mia, di sentirlo ansimare piano contro il mio viso, di fondere le labbra con le sue.

Mi sono alzato dal divano e sono andato a dormire.

Ho finto con me stesso che i miei pantaloni non fossero più stretti di prima mentre mi addormentavo.

Ho finto che non fosse successo nulla.

Ed eppure ora sono qui.

La cosa che mi sconvolge non è l'idea di voler far sesso con lui, quantomeno, non il fatto stesso, non quella parte specifica.

Mi sconvolge che a me queste cose non succedono.

Che non è che io sia diventato meno demisessuale nel giro di un mese.

Che lui mi coinvolga emotivamente al punto che vorrei toccarlo, questo è il problema.

Lancio il mozzicone per terra e apro le catene.

È seduto a gambe incrociate sul materasso, i due uomini incaricati di rimanere con lui sono per terra messi come lui, tutti e tre hanno delle carte da gioco in mano. Sorridono fra di loro, parlottano, muovono le dita fra i segni sbiaditi sul cartoncino sottile.

Mi sale la rabbia fino alla testa.

− Che cazzo state facendo? −

Sobbalzano in due, Shōyō non lo fa, mi aveva sentito arrivare.

Evito il suo sguardo.

− Stavamo... facendo una partita, Signore. Siamo qui da giorni e ci stavamo annoiando, e... −

− Non potevate giocare fra di voi? Perché state giocando con lui? −

Uno dei due ritira le carte, l'altro si alza in piedi e china la testa in un gesto di scuse.

− Si stava annoiando e abbiamo pensato che... −

− Che avere pietà per un recluso avesse senso? Che era una geniale idea familiarizzare con il nemico? −

Mi brucia il sangue nelle vene.

Io...

Io non ce l'ho con loro perché gli hanno mostrato gentilezza.

Ce l'ho perché lui stava...

Stava sorridendo.

Ad altre persone.

L'idea mi fa incazzare come poche cose hanno fatto nella mia vita.

− Ci dispiace, Signore. Non si ripeterà. −

− La prossima volta che succede dovrete andarlo a dire a Daichi. Che stavate giocando a carte con il ragazzo che ha quasi fatto uccidere Sugawara. −

S'irrigidiscono entrambi in puro terrore.

Io sono spaventoso, so di esserlo, ma Daichi lo è di più.

Perché ama quel che fa e non ha rimpianti, la sua vita è violenta ma equilibrata, perché ha un motivo di essere felice anche se uccide per lavoro, perché non è vuoto come me, non fa tenerezza a nessuno.

− Fuori di qui. − aggiungo alla fine.

Corrono via senza fiatare, le teste basse e gli occhi chini, scompaiono dietro la porta che chiudono alle loro spalle.

L'aria è tesa.

È tesa, ma siamo da soli.

Mi concedo di guardarlo per un attimo.

Ancora sorride, non ha smesso di farlo, ha gli occhi che cercano i miei e il viso rasserenato contro il mio, gli occhi che brillano, le fossette sul viso.

Non sorridere a nessuno, Shōyō.

Non sorridere a nessuno che non sia io.

Sorridi solo a me e non smettere mai di farlo.

− Ciao, Tobio, come stai? −

Non riesco a muovermi.

Come sto?

Che ti frega di come sto?

Non dovrebbe importarti, cazzo, sei rinchiuso, io ti ho rinchiuso, stai per morire, sono qui per torchiarti e ucciderti quando sarò soddisfatto.

Come fai a curarti di qualcosa del genere?

Perché il ghiaccio che ho messo tutto attorno al mio cuore inizia un po' a sciogliersi, quando sono con te?

− Normale. Tu? −

Piega la testa e sorride ancora.

− Sono felice, mi avevano detto che saresti tornato fra più di dieci giorni ma sei venuto prima. Mi mancava parlare con te. −

Lo dice con tale ingenuità che quasi ci credo.

Sembra che non mi stia prendendo in giro.

Ma è più che probabile che lo stia facendo.

Mi giro verso il fondo della stanza e cerco la sedia su cui mi metto di solito.

È lontana, sotto l'unica finestrella.

'Fanculo, se ci si sono seduti loro, non vedo per quale motivo non dovrei farlo io.

Slaccio la giacca del completo e me l'appoggio sull'avambraccio, sbottono il colletto della camicia e mi siedo per terra, di fronte a lui, a gambe incrociate.

Sarà un madornale errore mettermi sul suo stesso piano visivo?

Non lo so.

Non me ne importa niente.

− Li hai convinti tu a giocare? −

− No, ho solo chiesto. Stavano facendo una partita fra di loro e ho chiesto di partecipare, credo che il mio aspetto li intenerisca e hanno accettato, niente di più. −

− Potrebbero morire per quello che hanno fatto. −

− Non m'interessa. −

Fisso gli occhi nei suoi.

− Io, potrei morire, se Daichi lo venisse a sapere. −

Non distoglie lo sguardo.

− Ecco, questo mi dispiacerebbe. −

Non è il mio corpo a reagire alle sue parole o al modo in cui mi guarda. Non è il mio corpo che mi dice "attraente", non è un istinto fisico, non è niente di me.

È la mia testa.

Le mie emozioni.

Vacillano e tremano, non stanno ferme, si accendono e sembrano tirarsi su da quel torpore infinto in cui le ho gettate per anni.

Mi metto una mano in tasca.

− Vuoi una sigaretta, ragazzino? −

Annuisce.

− Mi piacerebbe, sì. −

− Tieni. −

La prende dal pacchetto e la infila fra le dita sottili, le mani non gli tremano più, i segni dei buchi sul braccio che mi mostra sono sbiaditi, quasi non si vedono.

Cambio tasca per l'accendino.

− Te la ridò se devi fare il broncio. −

− Non sto facendo il broncio. −

Ride appena.

− Tu fai sempre il broncio quando fai qualcosa di gentile. Non te l'hanno mai detto? −

Gli metto l'accendino di fronte alla faccia e faccio scattare la rotellina quando infila il filtro fra le labbra, non rispondo.

Sì, Miwa me lo diceva sempre.

"Sembra quasi che tu non voglia farle le cose, ma alla fine non è che nessuno te le chieda. È come se ti imbarazzasse fare un favore, prima o poi qualcuno prenderà a ceffoni quella tua faccia infastidita, devi smettere di tenere il broncio."

Mi sgridava sempre.

Rideva, mentre lo faceva, però. Diceva che era tenera, questa cosa, nonostante non fosse propriamente educata.

− Che sei venuto qui per sapere, Tobio? Altre notizie del mio passato? −

Sì.

Assolutamente sì.

Io sono qui per questo, per...

Se mi dice tutto poi lo devo ammazzare.

Mi rendo conto che nel momento in cui le sue parole finiranno, io dovrò tirare fuori la pistola dalla fondina e dovrò piantargli una pallottola nella testa.

Dovrò...

− Cose di ora. Informazioni di adesso, del tuo passato parliamo più avanti. −

Non dirmi il tuo segreto, tienitelo, Shōyō, tienitelo fino alla fine. Non rivelarlo e non parlarne mai con nessuno, io non credo di volerti fare quello che mi è stato ordinato.

Avevo detto a Daichi che sarei tornato qui fra due settimane.

Fra due settimane... ti chiederò del tuo passato. Ora come ora non avrebbe senso anticipare le cose, no? Non avrebbe senso davvero, sarebbe inutile e frettoloso e...

Non voglio che tu muoia prima perché mi mancava vederti sorridere.

Forse non voglio che tu muoia in generale.

Forse fingiamo che oggi non sia mai successo e guardiamoci solo negli occhi in silenzio.

− Sono via dalla scena da un mese, le cose recenti non le so proprio. −

− Non è una cosa dell'ultimo mese. −

Scavo nella mia testa in silenzio alla ricerca di una scusa. Di un pretesto, di un'informazione casuale che potrei cercare, di qualsiasi cosa mi permetta di non chiederti cose che potrebbero ucciderti.

Deglutisco la saliva.

Forse una cosa c'è.

È puro gossip, ma è meglio di niente.

− Perché Iwaizumi ha lasciato la Shiratorizawa per lavorare al Seijoh? −

Non se l'aspetta, sbatte le palpebre e scosta la sigaretta dalle labbra per pensarci su.

− Soldi. Una barca di soldi. Un tizio con cui usciva ha aggredito Oikawa, qualcuno l'ha salvato ma credo ci sia rimasto davvero male. Si sentiva in pericolo e ha chiesto chi fosse la guardia del corpo più brava della città. Se poi aggiungi che avrebbe fatto un dispetto ad Ushiwaka, ancora meglio. −

Annuisco.

− Ma perché la Shiratorizawa non ha fatto una controfferta? −

− Ushiwaka ha puntato gli occhi su un'altra persona per quel ruolo. Sai, quello mezzo pazzo che ha fatto fuori venticinque mafiosi senza essere preso. −

− La guardia del corpo di Ushijima è un assassino di mafiosi? −

Stiamo chiacchierando di affari degli altri.

A me che interessa degli altri?

Niente.

M'interessa solo di poter fare una cosa normale con lui. Di poter fare una cosa che due ventenni farebbero, se non fossero nella nostra posizione.

− Tendō Satori, è fuori come un balcone. Avvicinava i mafiosi e li ammazzava a sangue freddo, così, quasi per gioco. Quando Ushiwaka l'ha catturato pare che gli sia scattato qualcosa e l'ha assunto. −

− E si fida di una persona così? −

Prende un tiro e mi indica con la sigaretta quando la riprende fra le mani.

− Si fida? Oh, Tobio, Ushiwaka ci scopa. −

Mi strozzo con il fumo.

Tossisco per cercare di riprendermi e sento il mio viso diventare viola d'imbarazzo, la mia speranza di far finta che non sia mai successo sfuma quando sento Shōyō ridere ancora, un'altra volta, di me.

− Tutto bene? −

− Sì, un attimo, un... −

Si sporge verso di me.

Appoggia una mano sulla mia spalla e spinge indietro piano, delicatamente, come a prendermi in giro.

Le persone che ridono di me, ragazzino, di solito non sopravvivono per raccontarlo. Le persone che mi trattano come un cretino, quelle che pensano di potermi guardare dall'alto in basso, finiscono tutte allo stesso modo.

Ma tu hai una risata così dolce.

E mi fai sentire ridicolo, certo, ma così... normale.

− Ti mette in imbarazzo la parola "scopare" per caso? −

Riprendo fiato e sbatto le palpebre per rimettere a fuoco lo sguardo.

− No, mi hai preso alla sprovvista. −

− Sicuro? −

Alzo le spalle come se niente fosse, ricomincio a fumare. Gratta un po' sulla gola sensibile, ma niente di che, niente che non riesca a mandar via schiarendomi appena la voce.

− Fai sesso con qualcuno? −

La domanda mi spiazza.

Alzo il viso di colpo e lo guardo negli occhi.

Ha le guance rosse, si mordicchia il labbro inferiore e non risponde al contatto visivo.

− Scusami? −

− Tu, fai sesso con qualcuno? −

Io?

Apro la bocca e cerco di rispondere che non sono affari suoi. Ci provo, ma...

− No. No, non faccio sesso con nessuno. −

− Oh, ok. −

Il suo viso si scurisce ancora.

− Tu hai qualcuno che hai lasciato fuori? −

Anche le mie guance si scaldano, alla domanda. È questo che prova lui? Imbarazzo? Vergogna? Curiosità ma timidezza insieme?

Scuote la testa.

− Nessuno di cui m'importasse qualcosa. −

− Ok. −

Avvicina la sigaretta alle labbra e la mano, questa volta, un po' gli trema. Ma ho seri dubbi che sia l'astinenza, penso invece che potrebbe essere qualcosa di molto più semplice, molto più normale, per un ragazzo di vent'anni.

− Posso farti una domanda stupida? Poi ricominciamo a parlare di Ushiwaka o di tutto quello che vuoi sapere, giuro. −

− Dimmi. −

Abbassa lo sguardo fino alle sue ginocchia, la cenere al fondo della sua sigaretta si accumula e vedo che sta per cadere a terra.

− Tu mi guardi... mi guardi in un modo che mi fa pensare una cosa. E io mi dico "no Shōyō ma figurati se è così" però poi lo fai di nuovo e non so bene che cosa significhi e io... −

− Vai dritto al punto. −

Si morde forte l'interno della guancia, il suo viso diventa completamente rosso.

− Tu pensi... pensi per caso che io sia... bello? −

Non ha senso la domanda.

Non ha senso la risposta.

Siamo un mafioso e un prigioniero. Siamo uno Yakuza e un informatore rapito, siamo nel casolare dove io ti ho rinchiuso e dove io ti sparerò.

La prima volta che ti ho visto ti ho puntato una pistola alla tempia.

L'ultima premerò il grilletto in quell'identica posizione.

Perché me lo chiedi?

Perché mi sembra che il mio cuore batta forte dentro la mia cassa toracica? Perché batte, da quando batte, da quando funziona, da quando...

Mi sembra per la prima volta dopo anni di non essere quello che sono.

Mi sembra di essere solo Tobio.

Di avere solo vent'anni.

Di non essere il corvo che mangia i cadaveri di notte ma un ragazzo normale con una vita normale che dorme tutte le notti e non ha idea di cosa sia la sofferenza.

− Sì, Shōyō, lo penso. −

− Pe... perché lo pensi? −

− Perché lo sei. −

Che cosa mi hai fatto?

Tu, che cosa mi hai fatto?

− Anche tu sei... bello. Molto bello. So che ho detto quella cosa sugli occhi tristi e tutto ma... mi piacciono tanto. I tuoi occhi mi piacciono tanto. −

I miei occhi?

Gli piacciono i miei...

Tira su lo sguardo sul mio.

Gli trema la voce.

− Vorrei che fossero l'ultima cosa che vedrò quando mi ammazzerai. Per... per favore. −

Mi cade la sigaretta dalla mano.

Mi tiro indietro, lascio là la mia giacca e mi alzo in piedi, non mi giro quando esco dal casolare e non dico niente ai due stronzi davanti.

Una ventina di passi dal vialetto verso la strada, apro la portiera della macchina che oggi ho guidato io, la chiudo.

Ha i finestrini oscurati, e mai sono stato felice così tanto di questa cosa.

Appoggio la fronte contro il volante.

Respiro.

Scoppio a piangere.

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