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Sangue Amaro

Viale del Pianto.
Strada parallela all'ingresso principale del cimitero comunale.
Traffico di anime in vita fino al crepuscolo, dopo, trafficanti di carne svendono quelle di donne morte in vita e nemmeno lo riconoscono.
Lampioni elettrici e torce improvvisate in bidoni di latta vuoti ad ogni dieci metri. Pellicce finte in pelo di topi di fogna, coprono dal freddo esili spalle, mentre collant laceri dal troppo vesti e svesti, scoprono la mercanzia illuminata dalla luce del fuoco aizzato a materiale cancerogeno. Il fumo nero si attacca alle ossa come parvenza di calore, invece di bruciare la pelle contaminata da liquido seminale e DNA al sapore di feci.
Era un posto occupato da un'ombra figlia di quel suolo in contrasto con la concorrenza; Annaluna era l'unica italiana tra le sue colleghe dell'Est Europa. Si era aggiudicata l'assunzione al reparto disperazione per la sua bellezza mediterranea.
Prosperosa come le donne di una volta, portava con orgoglio la sua quinta di reggiseno come trofeo vinto in battaglia; almeno la natura era stata benevola, non si poteva dire lo stesso della vita che viveva in quel posto.

Era una sera d'aprile.
Era la settimana Santa della Passione.
Erano intorno all'una di notte.
Da quando era stata promossa dal suo pappone a merce di prima qualità, tutte le notti, alla stessa ora, vedeva passare a piedi di ritorno da lavoro, una ragazza all'incirca della sua età. Sembrava la sua copia sputata vestita in abiti per bene, nessun osceno messo in mostra, solo la divisa del bar in fondo alle strada sotto al cappotto che la riparava dal gelo.
Nessuna parola, nemmeno un fiato, solo sguardi incrociati su una via a dividere il buono dal deturpato.
Camminava a passo svelto per paura dei tizi che circolavano là intorno, mentre Annaluna restava immobile sui suoi passi scelti che la imprigionavano a quel marciapiede come sabbie mobili.

Si erano parlate solo una volta; un paio di mesi addietro in cui le cataratte del cielo si erano squarciate. Di ritorno dal turno, infreddolita allo stesso modo, si era affiancata al focolare di Annaluna con una tazza di caffè bollente.
"Bevi questo, non è tanto, ma almeno senti meno freddo", un gesto di attenzione, l'unico ricevuto senza richiesta di squallido in cambio, lasciò Annaluna ammutolita più della pioggia che cadendo, faceva da sottofondo al film horror girato tutte le notti.
"A chi devo un grazie?", mani tese in obbligazione a mezzo metro di distanza che divideva un mondo.
"Caterina, è così che mi chiamo".
"Annaluna ringrazia, allora".
"Gran bel nome, peccato che di luna, stasera, non vi sia ombra".
"Se è per questo nemmeno di Anna, per quel che conta".
Se ne andò frettolosamente, come se l'asfalto le bruciasse le suole delle scarpe da ginnastica.

I restanti giorni trascorserso alla stessa maniera: Caterina che passava lasciando il testimone di fine giornata lavorativa nelle mani di Annaluna. Servivano entrambe persone a pagamento; la prima, annegava i dispiaceri di uomini in alcol scadente. La seconda, naufragava il suo cuore su corpi libidinosi in cerca di godimento.
Persero il conto da quanto andava avanti quell'appuntamento. Lo persero distratte dal quotidiano; quello che si dimentica di te abbandonato in chissà quale breve lasso temporale.
Lo persero, ma tornò a presentarsi con gli interessi; dopo quell'ultima volta non furono più le stesse.
La settimana di Pasqua, una notte di un giorno che non contava poi tanto, Caterina tardò la consegna ai domiciliari per la carcerata che scontava la sua pena imprigionata all'aria aperta con la catena a un palo.

Annaluna si convinceva di non aver nessun legame da difendere con quel fantasma che vagava nei dintorni di quella fogna. Invece la preoccupazione le corrodeva il petto peggio di quando la serata era stata fiacca, e doveva temere l'ira del suo padrone.
Allungava il collo nella direzione da dove sbucava fuori sempre alla stessa ora; con il doppio del tempo in ritardo, stavolta.
Forse non era andata a lavoro, si diceva.
Forse avrà preso il posto di qualche collega, pensava ancora.
Forse avrà capito di girare alla larga da quella strada, si convinceva.
Forse l'ultimo cliente sarà stato più esigente del dovuto. Sì, magari sarà stato così, prendendosi lei la colpa.

Le alternative si tramutarono presto in flebili preghiere recitate a denti stretti col cuore in gola.
La fornace ai suoi piedi distorceva le immagini in lontananza, liquefacendo i contorni. Gli occhi già troppo stanchi, bruciavano per quanto li aveva tenuti serrati tra un rapporto e l'altro. Si odiava per com'era, ancor più se si costringeva a guardare i proprietari degli aliti fetidi che le inquinavano le vene sul collo. Meglio fingere ansimi ciechi, che subire muta a fissare la morte dritta in volto.
Era stanca, stanca di tutto.
Stanca di vivere morendo alle spalle di monumenti che piangevano lutti di chi era sottoterra realmente.
Era stanca, ma non fino a quel punto.

Fu allora che vide, la vide.
A poche centinaia di metri, sgusciare fuori da un vicoletto buio che tagliava a metà il lungo viale.
Fu allora che vide, vide ciò che non avrebbe mai voluto.
Un uomo, un tipo sulla soglia dei cinquant'anni, un cliente di una delle sue colleghe puttane, forse. Uno di quei viscidi che si sentivano eroi con le palle, svuotandosele a pagamento piuttosto che tirarle fuori per trovarsi una donna da amare e non da far martire.
La prese alle spalle, appollaiato come uno sciacallo. Di sicuro doveva conoscere il suo tragitto fin troppo bene, visto che nemmeno Annaluna riusciva a trovare risposta al suo ritardo.
La prese per i capelli trascinandola in un angolo dove sorgeva un mezzo muretto usato come cesso da chi si accampava lì tutte le notti.
Faccia al muro, mentre le urla di Caterina rompevano il suono dei motori delle auto che giravano là attorno.
Persino lo strappo degli indumenti si sentì nitido, tanto quanto la voce dell'orco che le intimava di stare ferma, tanto ci avrebbe messo pochi minuti.
Ci mise davvero poco, quel poco che per Caterina e Annaluna durò un secolo in moviola.

Tutti a guardare l'orrore in volto senza fare nulla per impedirlo. Neanche Annaluna si mosse dal suo posto, pietrificata dallo schifo più della vergogna che la assisteva ogni giorno. Quando si decise a correrle incontro, proprio in quel momento, il marito devoto di chissà qyale povera donna,si fermò con l'auto a reclamare il suo acquisto.
A nulla valsero i suoi tentativi di temporeggiare, la voce del pappone che le ricordava il suo posto nel mondo con le parole che meglio potevano riassumerla: "Fatti i cazzi tuoi, puttana". Non potè più niente, meno di ciò che aveva sperato.
Finalmente era tutto finito.
Mentre gli occhi restavano incollati al suolo che puzzava di sangue amaro, guardava Caterina, la vita pulita che lei sognava di poter avere, stuprata dall'uomo nero come la peggior prostituta esistita.

Salì col suo nuovo Caronte per farsi traghettare l'anima oltre l'Ade per l'ennesima volta, quella sera. Non avrebbe mai più trovato pace, costretta per sempre a vagare senza potersi pagare il riscatto anche se donava il suo corpo in cambio di denaro.
Uno dei tanti padroni, l'aveva inchiodata lì per farla esibire in svariate posizioni,;quando ormai il dopo era troppo tardi.
Quella settimana di Passione resterà come il peggior peccato commesso, molto più della via Crucis di Cristo e il suo calvario.
Un'altra innocente minata oltre che nel corpo, nella psiche. Perché abusi come quello, non dovrebbero esistere.
Resterà dannata in eterno Annaluna, per aver abbandonato Caterina mentre le urlava aiuto, per andare a svolgere il lavoro per il quale veniva violentata a forza controvoglia ogni notte. Lo stesso che Caterina non aveva scelto, ma aveva subito sentendosi puttana anche lei, a causa di un mostro.

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