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Memento Iris

Un fascio di sole accecante si infiltra piano dallo spiraglio della serranda, nel pieno dei miei fondi oculari, infrangendo non tanto i sogni che non ho, quanto l'incubo di saperli mai sognati.
L'alito caldo di chi condivide insieme a me questa culla per vecchi amanti, mi sbeffeggia ancora una volta. Viva io, vivo lui.
Apro gli occhi sperando mi stia sbagliando, e perdo fiducia nell'unico miracolo richiesto. Molto probabilmente il mio Santo protettore sarà in cucina a prepararmi un caffè che non ho ordinato. Servito e annegato nei dispiaceri di liquido amaro, nero come droga dal retrogusto di quotidiano.
Respira senza movimento alcuno. Ho ancora qualche minuto per fissarlo, quest'individuo che mi ha reso estranea a me stessa, iniziando dalla testa fin dentro al corpo.
Non so più chi sono, da qualche anno a questa parte, ammesso che lo abbia mai saputo.
"Ti ho riconosciuta", promesse ammalianti per un futuro sereno di vomito spacciato per miele.
"Siamo fatti per stare insieme", inculcava suadente promettendomi il niente, ed io che continuo a crederci, atea di oggi, pellegrina scalza verso il domani, da ieri.

Il magone allo stomaco si forma, risalendo in gola, come il cibo di sera che non ho mangiato dopo l'ennesima litigata.
Penso a tutto tranne alla bile che minaccia di uscirmi dalle orecchie, sia mai sporchi il cuscino, avrebbe un altro pretesto.
Il pulviscolo danzante nella luce invadente che mi trafigge l'addome, è un ottimo rimedio per evitare il rigurgito. Lo fisso assuefatta in preda alla concentrazione.
"Hai perso la forma fisica che avevi", mi rimprovera una sera e l'altra pure, guardando schifato ogni boccone mi arrivi alle labbra e mimando il suo disgusto in una smorfia di ripudio.
Il ladro del corpo perfetto dorme beato di fianco al mio letto, beato lui che non ha ancora visto nulla della vita.
Ma chi voglio prendere in giro? Sono ignara quanto lui del mondo in cui vivo, lo abito solo perché ci respiro.

Il tempo di oziare finisce nello stesso momento in cui mi sento osservata dalla parte più forte, la destra.
Evito come la peste il posto accanto la metà di questo tetto condiviso col padrone di casa che ho sposato.
Il remake di un altro giorno uguale, vorrei lasciarlo senza scene da girare, almeno per qualche ora, giusto il tempo di indossare il trucco migliore.
Chiusa in bagno, studio la fotocopia che mi fissa chiedendomi chi sia l'originale: quella col fiato corto aggrappata al lavabo, oppure quella di fronte in rigoglioso vestito prematrimoniale.
Un colpo più forte alla porta sovrasta il tintinnio riprodotto nel petto.
"È più forte di te, quand'è che lo ammetti?".
"Mai", mimano le labbra, ma nemmeno il suono ha il coraggio di uscire da dentro, figuriamoci il tormento.

"Devo pisciare, ha finito la diva?", irrompe così, fin dentro ai pensieri che ancora non mi sono permessa di pensare. Una strana sensazione mi assale, nuova, eppure reale. Sarà stato un sentore, una similitudine, un istinto primordiale, un eco da sradicare.
Apro solo dopo dieci minuti buoni. La lotta è stata dura, ma alla fine la mano ha vinto contro l'istinto di protezione. È stato come spingere una porta dove c'è scritto "Tirare", sono contraria persino alla volontà arbitraria.

"Finalmente!", la derisione cede il posto al saluto. Se il buongiorno si vede dal mattino, allora in questo posto è buio pesto senza sosta, trecentosessantacinque dì annuali.
"Tuo figlio chiede della gran dama, quanto ancora deve aspettare?".
Meno di un metro di uomo, più uomo dell'uomo che lo ha generato, apre le sue braccia in cerca di conforto, come dargli torto.
Il caffè di cui ho sentito l'aroma immaginario, resterà in sospeso fino a domani. Il barattolo vuoto, abitato dagli ultimi granelli rimasti, mi fissa desolato. "Sarà per la prossima volta, ci hai provato".
Eccolo lì, il nuovo argomento giornaliero da affrontare: la mancanza di caffeina al sapore di sale.

"Allora? Il caffè lo prendo al bar o ci diamo una mossa?"
Arriva come un calcio allo stomaco, ma alle spalle. Non è possibile farlo a meno che non ti trafigga da parte a parte.
Respiro pesantemente facendo mente locale sulla scusa da racimolare in qualche anfratto ancora intatto di dignità che mi resta, bocciata per l' ennesima volta per non aver studiato come dovevo.
Attende impaziente una risposta appoggiato allo stipite della porta; braccia conserte e gambe incrociate godendo del disagio volontario dal suo mettermi sotto esame.

La faccio finita di ansimare come un maiale prima che venga scannato.
"È finito, ho dimenticato di comprarlo".
Ciak, si gira...
Inizia la partita che vede sempre vincente a tavolino la squadra fuori casa.
"Dimenticato? Solo questo dovresti fare e nemmeno ci riesci. Fai schifo come madre, come moglie non ne parliamo. Neanche buona a scopare, donna inutile; che campi a fare?"
La voce che sale di diverse ottave, il volto livido da animale; concitato gesticolare articola le urla che sostituiscono il semplice "tesoro, tranquilla, non ti preoccupare".
Di nuovo quella sensazione mi pervade la mente, come se avessi già sentito le stesse identiche cose pur essendo la prima volta che le sento.

Accantono la viltà per un momento, mi spoglio di ciò che non voglio, pretendo rispetto, una rivalsa, sentirmi Dio sconsacrando il suo tempio senza pentirmi di quel che penso.
Sono pronta a vomitare anni di traumi post-turbamento, la sento, la magnificenza di non voler nessun padrone nonostante senta ancora tirare la catene che stringono le caviglie legate ai muri della mia innocenza.
Tutto, in questo posto, grida di farla finita con questa vita da mite agnello. Voglio sputarci, su quest'altare che mi ha visto in un giorno legata a quest'uomo, e che è riuscito a trasformare l'oggi in sacrificale rogo. Quanto ancora dovrò bruciare prima di osare dire che fa male, che fa un male cane?

"Puoi benissimo prenderlo a lavoro", lo slancio di libero essere si libra nell'aria circostante, pur essendo trasparente si sente come un incudine che subisce i suoi colpi ferrati da materiale altrettanto resistente.
Il picchiettio su una spalla accompagna il tono di voce che da finto calmo diventa iracondo.
Alterna improperî e minacce di privarmi del nulla che già elargisce da anni senza richieste, agli occhi sconcertati dalla convinzione che forse, ha perso un po' della sua tempra da superuomo.
I colpi sempre più insistenti aizzano fiamme che vorrei bruciassero ogni singolo secondo speso a sentirmi niente. Un'altra sensazione che sa di già vissuto.

Non la accetto: la violenza non fa parte di me, e non voglio mi sporchi con mani pregne di un voler per forza aver ragione. Non è così che deve andare, non si abusa di chi è già in prigione, anche se fatta di mura domestiche in cui ci si dovrebbe sentire al sicuro.
La spinta arriva come esplosione di vetro sotto pressione. Mille falene ubriache di tempo al contrario, perdono la loro cognizione non riconoscendo il giorno e la notte. Volano libere di fuggire lontano dall'animo di cristallo opaco.
Mani guidate da rabbia repressa spintonano il male.
"Ora basta, non mi devi toccare", voce diafana urla in silenzio di non voler subire passiva, furia al borotalco solletica la bestia ancora ammansita.

"Vedi di farla finita, prima che...", minaccia velata senza una fine.
"Prima di cosa? Termina la frase", un'altra spinta arriva per chiedere assoluzione, il gusto di vedere dove saprebbe arrivare.
Occhi innocenti guardano entrambi in cerca di fare il tifo per il vincente.
Li fisso di rimando perdendomi nella sua espressione. Sta soltanto attendendo il knockout finale.
Ci risiamo ancora: dov'è che ho già visto quella speranza che tutto taccia, senza per forza dover stare a guardare? La distrazione mi coglie di sorpresa nell'attesa del fine enigma.
Un violento strattone mi spinge all'angolo senza corde astratte a cui aggrapparmi; solo un pilastro in cemento come trono su cui subire.
Lingue di fuoco serpeggiano in iridi azzurre sprizzando odio, mentre le mie si tingono di lacrime.
Color cemento tramutato in pianto.
Tanti, troppi colpi si susseguono senza sosta. Pugni di uomo si abbattono su cranio di donna stordendo tutto: i valori, i principi, l'amore, il rispetto, gettati al macero come dispetto.
Braccia alzate in protezione a tentar di proteggere almeno il volto per non dover trovare troppe giustificazioni.

"Con chi credi di parlare?", e ancora mi assale, ed io accecata da me stessa, tra fiumi in piena autoprodotti più per delusione che per il male.
Urlo lancinante e acuto, spezza tutto ciò che resta, persino le ossa ancora intatte. Piange disperato quel bambino, chiamando la mamma in preda alla paura, cercando un motivo a tanto orrore.
Fingo un sorriso misto a veleno per fargli credere che tutto vada bene.
E ancora dolore arriva violento, il pugile povero di carattere e ricco di ignorante alterigia, si sfoga contro il suo manichino personale.
"Non sei più sua moglie, adesso, sei solo il suo rivale", la coscienza mi deride laddove sono stata appesa a questa parete come foto ingiallita da tempo e cancrena.

Polvere alla polvere, violenza alle parole, è questo il mio nuovo credo con chi non riesce ad avere uno scontro civile, e preferisce tapparmi la bocca benché sentirsi dire fallito.
Invece lo è stato, macchiando gli occhi di suo figlio del più infimo peccato, lo stesso che sento appartenermi da tempo in questa sensazione che scava all'interno non trovando via di fuga, non donando pace a questa mia lacuna.
Affanna stanco e soddisfatto come dopo un paio d'ore di rapporto; nessun orgasmo per me, solo il sesso debole, ed io sono divenuta un suo aborto.
Ritorno allo specchio a cui prima non riuscivo a dare un volto, spettinata, rossa in viso, in lacrime e distrutta da chi decanta di amarmi. Chissà se gli credono almeno queste mura.

"Ecco dove ti avevo già vista!", esclamo in preda al delirio più totale.
Mia madre, è dall'altra parte del riflesso, non sono mai assomigliata a lei come adesso, sembriamo le stesse.
Un sorriso triste, il suo saluto nel guardare come sono conciata. Tento maldestra di sistemarmi alla meglio, ma fallisco miseramente come poco fa ho fatto al di là di questa porta.
"Come sei cresciuta, piccola mia", mi dice tra un misto di orgoglio e rimpianto.
Inizio a grondare dagli occhi, anni, ricordi, smarrito amore che credevo di aver finalmente trovato.
"Che bello tuo figlio, ha lo stesso tuo sguardo", il pezzo mancante del mio ricordare mi viene gettato in faccia dagli scherzi psicoemotivi.
Sbircio da uno scorcio di legno per capire se è vero ciò che dice.
Ha la morte negli occhi, il bambino. È proprio vero che mi somiglia.

Le sorrido accondiscendente con un pizzico di nostalgia per lei.
"Vedi, che ti dicevo? È uguale a te, ha lo stesso terrore tuo stampato in volto da piccola. In quanto a te, sei uguale a me dopo qualche bicchiere in più di tuo padre. Ricordi? Adesso non l'hai solo visto, l'hai anche provato, il male".

Adesso ho capito: tutte le percosse di papà, e i pugni avuti poco fa, dovevano pur servire a qualcosa. Il mondo gira, il tempo passa, ma ciò che siamo destinati ad essere, arriva a noi come una sorta di eredità genetica: è tutto un circolo vizioso, è solo un circo avuto in dono, è solo vita, ed io la soluzione ai suoi errori.

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