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Madre

Tracolla abbandonata all'ingresso, vuota all'apparenza, carica di quel che dovrei essere, ne sono ormai senza.
Abiti di innocenza svestiti in malo modo, oltre questa soglia. Il pianerottolo, trasformato in camerino personale tra una rampa e l'altra di scale. Camice da infermiere autodidatta, appeso in modo distratto, penzola dal soffitto. Sostituta veste di spensierato essere, ipotesi di esistere pur non esistendo veramente. Divisa cucita a forza sulla pelle, punti di sutura visibili solo al riflesso, sulla pellicola degli anni.
Inevitabile cicatrice ricorda il cambio turno, cambio di testimone senza testimonianze, solo il vuoto nelle stanze, ovunque, buio sonoro, tranne in una.
Dialoghi estranei, artificiali, provengono dagli altoparlanti del piccolo televisore, invecchiato anche lui troppo in fretta.
Mobilio spettatore assiste allo spettacolo, no stop h24.

Fissato alla parete sinistra, il letto giace come reliquia per reietto, stretto al suo petto, un corpo a cui al peso netto è stato sottratto il vivere, il decidere.
Occhi inespressivi fissano il vuoto vedendoci chissà cosa; molto più interessante della propria vita, di sicuro.
Rete metallica piange cigolante, non abituata ad accogliere più di quaranta chili scarsi di donna per volta.
Raggomitolata in posizione fetale, fisso il vuoto anch'io, giusto per vedere cosa ci vede lei, giusto per fare compagnia alla sua malinconia, giusto per ricordare il ruolo del figlio tra le due.

Accompagnare ogni suo gesto di esternazione verso il mondo là fuori, come fosse un bambino che muove i primi passi. Prassi divenuta prova di forza, depressione, guscio di etereo fallimento personale. Scorza da indossare, abito subdolamente comodo che non ti chiede il permesso di vestirti, spogliandoti di quel che eri, di quel che poi perderai domani.
"Vuoi?"
"Non posso."
"Ti sforzi?"
"Ci provo."
"Mi aiuti?"
"Non riesco."
"Fallisco."
"Falliamo."

Era forte, di quella forza da far invidia alla natura più rude.
Era bella come ne esistono poche, di sicuro.
Era moglie, del male generato dal male più puro.
Combatteva, a denti stretti nel silenzio più totale; lo stesso che ora la pervade in ogni cellula, che la assale.
Cresciuti, siamo cresciuti in quattro, tra quelle mani, le mani che bacio ogni volta che posso, che stringerei fino alle ossa pur di ricevere un lieve tocco in cambio.
"Prenditi cura di me", urla dagli occhi, ora, anche se di cure ne ho il pieno bisogno, forse più di lei.
Quanta giovinezza invecchiata malvolentieri nello stesso posto.
La sua, mangiata da una fame dal sapore di digiuno. La mia, erosa come acido senza odore, scambiata per acqua incontaminata con cui lavarsi credendo fosse innocua.

La vedo solo adesso, la pelle invecchiata, mettendo a confronto le nostre vite. Guardando nei suoi occhi vuoti ritrovo ancora parte di quel che ero, fotografato nelle iridi. Ho ancora quel che lei era, marchiato sul cuore dalla forma di lapide.
Sfioro un braccio per farmi sentire, nessun viso voltato in cambio.
"Lo so che mi senti", le vorrei dire, ma non sono convincente nemmeno nella mia testa, figuriamoci nella sua.
Mi sente, lo so, anche se non sente più neppure se stessa; non posso credere che non percepisca la presenza di chi le è cresciuta dentro per mesi.
Le immagini passano sullo schermo illuminando la stanza a mo' di sirena ospedaliera.
Sul quarto canale stanno dando una commedia, fa ridere solo a guardare, chissà in parole. Alzo il volume nella speranza cambi qualcosa.
Muto prospettiva visiva in cerca di un sorriso, so che tarderà ad arrivare per non dire mai, ci spero ancora.
Pagliaccio improvvisato, divenuta innumerevoli volte cabarettista allo sbaraglio, cercavo uno spiraglio, un appiglio, il sorriso per un figlio.
Non ride più, mia madre, non ricordo neppure l'ultima volta che l'ha fatto.
Alterna momenti di consapevole tristezza a quelli come questo.
Nessun movimento per renderla illesa alla sua insicurezza, timore, morbosa inadeguatezza.
"Non cammino,
mi manca il fiato,
aiutami,
non respiro,
ho paura di morire."

Mai visto un controsenso come questo, almeno io, non so poi il resto.
Bara realizzata da mani, le sue, fatta in casa, la nostra, inquietante morte su giostra. Nessun divertimento in cambio. Solo un biglietto pagato controvoglia sottoforma di pillole.
Etichette tutte uguali, di diverso solo l'illusione, una parvenza di guarigione.
Prigioni narcolettiche, manichini e marionette tutti sullo stesso filo: la mente.
Il cartello invisibile con su scritto "si prega di non disturbare", giace ai piedi di chi di disturbi ne ha fin troppi. Strano intoppo, il destino: programmi un futuro alla cieca per ritrovarti sordomuto voluto, e inconsapevole alla stessa maniera.
La rivedo com'era, come forse non tornerà più.

Sgattaiolo nell'ombra, nei rari momenti di notte in cui dorme senza fissare il soffitto, per rubare una cornice dal suo comodino.
Una foto ritrae un passato che non vorrei fosse passato. Sorride, stavolta, di un sorriso non rubato, come a forza ho fatto io questa notte e in molte altre... e chissà quante ve ne saranno ancora.
Ho rubato mia madre, l'ho fatto, le ho sottratto un ricordo perché non voglio resti l'ultimo, quel che vedo ogni giorno in questo letto. Ho peccato, di egoismo più puro. Sono solo un'anima insicura che pretende riscatto, a dispetto di un ricatto imposto dalla psiche.
Scegli: viverla così anche se inabilitata dal nulla creato dal suo Io più profondo, oppure darla vinta al male dal sapore di niente, inesistente eppur tangibile?
Decido per entrambe.
La voglio vicina, tamponata nella psiche, fragile, piuttosto che aiutarla a costruirne due, di bare.
La sua per il poco reagire; la mia di fianco, a farle compagnia nel suo lento lasciarsi morire.

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