La Matta
Anche questa è passata: un'altra settimana a spaccarmi la schiena sotto il Sole cocente, con la pelle carbonizzata su un impalcatura.
Il grado di abbronzatura ha più a che fare con una scottatura di terzo grado, che ad un turista di ritorno dal suo itinerario balneabile; assomiglio ad uno zingaro del cazzo.
Da quando mio padre ci ha lasciati, che avevo appena compiuto sette anni, non ho fatto altro che lavorare come un immigrato senza permesso di soggiorno.
La bella vita, la fabbrica di guanti dove eravamo padroni, il piatto caldo a tavola tutte le sere mentre nelle altre case del quartiere non avevano nemmeno i soldi per comprare i giornali per pulirsi il culo; tutto distrutto.
Dopo la morte di mio zio, che si occupava della gestione, mio padre e suo fratello minore sono finiti a fare gli operai del loro stesso sudore; falliti.
Avessi avuto gli anni che servivano, avrei pensato io a tutto, quel ben di Dio non lo avrei di certo fatto pappare al primo che capitava. Invece, da semplice ragazzino con i calzoncini corti e i sandali sui calzini rigorosamente bianchi, sono finito a dover sostituire mio padre mentre mia madre ha smesso di sgobbare seduta curva al banco da lavoro solo a quasi settant'anni.
A mia sorella Rosa, la maggiore di tre figli, è toccata la stessa sorte di nostra madre: vedova troppo presto con tre bocche da sfamare, e con l'unico lavoro che in famiglia avessimo mai imparato.
Salvo è stato sempre il signorino per eccellenza, per non ripercorrere le orme genetiche, ha preferito imparare a fare autopsia veterinaria; il macellaio, per intenderci. Tutto il giorno in camice da operazione chirurgica gastronomica, mentre il sabato e la domenica si atteggiava a fare il figurino; giacca e cravatta non mancavano mai. A vederci messi l'uno di fronte all'altro, nessuno avrebbe scommesso dieci lire che fossimo fratelli, inutile che spieghi il perché. Ero io la pecora nera della casa. "Sei la mia croce", urlava mia madre dal ballatoio in legno fradicio di acqua e tempo andato. Me ne sono sempre fregato di tutto e tutti. Io, in quel posto, a pagare per la mancanza di spina dorsale di papà, non ci volevo stare. Non che la salute fisica lo abbia aiutato, costretto su una sedia a rotelle nel pieno dei suoi anni dal mal funzionamento arterioso. Una gamba amputata che non gli permetteva nemmeno di corrermi dietro per suonarmele quando ve ne era l'occasione; una sera sì e l'altra pure. Ricordo che un giorno lo feci arrabbiare così tanto, che non potendomi prendere, accecato dalla rabbia, mi lanciò contro una delle sue forbici da lavoro. Era una specie di cesoia. Per fortuna non mi prese in pieno, o dovrei dire purtroppo.
"Povera signora Lucia, quel ragazzo da grande diventerà un avanzo di galera", le cimici in sottana del vicinato parlavano alle mie spalle ogni volta che passavo.
"Buon giorno ai servizi segreti del quartiere", le deridevo in pieno volto.
L'unica cosa sensata, per loro, era darmi dello spudorato. Meglio quello che povero reietto, io la pietà l'ho sempre schifata.
Sono cresciuto per strada perché le pareti di quella casa mi soffocavano, sentivo sempre la puzza dei fiori ancora freschi dopo tutto il tempo passato dal funerale di mio padre.
Avevamo persino un sussidio che ci veniva elemosinato da oltreoceano, lo chiamavano lo zio d'America, anche se non era del parentado. Un altro povero Cristo che per pulirsi la coscienza da chissà quale peccato, una volta al mese inviava del denaro ad una vedova qualunque in Italia. Se proprio voleva aiutarci, avrebbe potuto invitarci tutti lì nel suo paese, allora sì che ci saremmo salvati.
Sto camminando verso casa rigorosamente a piedi, nemmeno una macchina, posseggo, ma non mi lamento. I miei soldi li spendo come mi pare, non certo per arricchire meccanici, benzinai e lo Stato pagando il bollo auto.
La maledetta polvere di materiale edilizio mi sta praticamente cavando gli occhi, non vedo l'ora di buttarmi sotto la doccia per lavare via ogni singolo briciolo di sottopagato momento.
Giusto il tempo di mettermi in tiro, trovare una scusa alla donna che ha avuto la sfortuna di sposarmi, e fiondarmi fuori a fare quello che so fare meglio: il giocatore incallito d'azzardo.
Non esiste al mondo un posto in cui non abbia giocato, o un gioco a cui non abbia partecipato. Anzi, forse sì: la corsa degli scarafaggi. Molto probabilmente non esiste, ma in caso contrario non ho ancora avuto l'onore di provarla.
Che siano carte, cani o cavalli, poco importa il mezzo, tanto il fine è sempre quello, sentirmi Dio per un momento.
La Chiesa insegna ad essere poveri ma giusti, ed io giusto ad un povero uomo mi sono ridotto. Il decalogo è tutto personale. In quel posto di farisei vestiti a festa non ci metterò mai più piede. Le ultime volte che un parroco ha avuto l'onore di benedirmi con quella specie di acqua santa, sono state la morte di mio padre ed il mio matrimonio, anche se sempre di morte si trattava. Non la mia, per essere chiari, ma quella di mia moglie. L'ho uccisa il giorno stesso che ha pronunciato quel "sì lo voglio", e in effetti non ho nulla da biasimarle: mi ha voluto, e devo dire che ha avuto fegato, la donna. Continua a suicidarsi giorno dopo giorno da ormai vent'anni.
Più che ludopatia, io direi di esser affetto da claustrofobia: le mura di quella casa le sopporto. Non che mi facciano mancare nulla, anzi, sono io in continua omissione quotidiana. Penso sempre e solo al mio tornaconto, sono un'egoista credente e praticante. Più pio di me non esiste persona al mondo.
L'albergo in cui risiedo, è tutto lì bello e lindo, attende solo il mio ritorno. Ho ancora gli ultimi spicci, il tempo di finirli e posso ritenermi soddisfatto per la dose giornaliera di meschinità di cui ho bisogno.
La cuoca sempre allerta ad ogni mia voglia, i camerieri altro non sono che i figli avuti da questo matrimonio, per me restano quello e null'altro, uno sfogo avuto in una notte, precisamente in quattro.
La mia teoria di vita è: non dare ciò che non hai ricevuto. E devo dire la porto avanti con orgoglio, finché sono loro a lamentarsi poco conta.
Non ho avuto niente in regalo da questa vita, mio padre mi ha privato di tutto ciò che sarei dovuto essere; ho sempre badato da solo a me stesso. Perché il fatto di essere registrati su un comune qualunque come marito e padre, dovrebbe rendermi migliore?
Uomo a metà tutto d'un pezzo, lavoratore instancabile per quel che serve, marito fantasma da tormento, padre biologico donatore di sperma, giocatore incallito fraudolento, spugna allergica all'acqua a meno che non sia in gradi, e puttaniere portatore sano di sifilide a pagamento.
Quanto si può nascondere bene la propria vita ad un semplice documento di riconoscimento...
Stasera è la mia sera, me lo sento.
Lo dico ormai da quando ne ho memoria: mi sono indebitato pure l'anima, anche se la mia non vale niente. I banchieri abusivi dai quali mi fornisco, stanno impazzendo pur di trovarmi. Non mi cruccio più di tanto, lascio agli altri abitanti di quel ricovero chiamato casa, il compito di gestirli e tenerli a bada; e se proprio serve, pagargli lo scontento. Ormai sono bacato fin dentro le ossa, perduto. Non esiste cura al mondo per il male che mi affligge. L'unico rimedio sarebbe togliermi dalla faccia della terra.
La sola che ne morirebbe per la mia dipartita, è quella specie di farmacia ambulante a cui si è ridotta l'esile di mente che si ritrova coniugata con me e con le altre personalità che posseggo.
Ormai non fa altro che rimpinzarsi di pillole, non ha capito che contro il tormento vivente non esiste cura alcuna. Magari si decidesse a lasciarmi andare, invece è sempre lì che cerca di aggiustare l'irreparabile che sono sempre stato.
Il cornuto dell'ennesima donna che ho attirato coi miei modi da bastardo senza gloria, è un altro debole come lei. Conosce fin troppo bene l'adultera che allieta più il cavallo dei miei pantaloni che i suoi, ma se la tiene stretta ugualmente. Stavolta, devo dire di aver perso davvero la testa, alcuni lo chiamano amore, io non so cosa sia quella parola senza senso, è più una sorta di attrazione illegale tra giusto o sbagliato. Se proprio devo scegliere, opto per la seconda, o almeno è sempre ciò che ho fatto.
Ogni notte non torno il quel letto se non dopo aver soddisfatto la mia sete.
Dall'alcolico offerto dalla "casa", fino al tavolo verde che mi attira come sirena ammaliatrice, solo per ritrovarmi il giorno dopo gli sguardi d'odio dei miei figli che vorrebbero ripulirmi la coscienza.
Non riesco a sentirmi in colpa, e questo li istiga ancora di più.
Nemmeno mentre rubo lo stesso denaro che mi guadagno solo un attimo dopo. Mentre sfilo qualche banconota dal portafoglio martire che mi capita sotto mano, che preciso, non è il mio. Quando li costringo a mangiare pane e uova ogni sera, basta non mi manchi la dose giornaliera di rosso o bianco scadente che mi aiuta a sentirmi più uomo quando mi guardo allo specchio. Per non parlare di tutte le volte che porto mia figlia minore a giocare coi figli della mia puttana personale, mentre nell'altra stanza io gioco con lei in un modo non molto pulito.
Ed anche quando incazzato per le troppe rotture di palle miste alle ingenti perdite del giorno prima, mi riduco con gli occhi iniettati di mosto andato in acido, imprecando tutto il sacro che esiste al creato pur di far smettere la litania paternale della prole coniugale.
Smettere, voglio che la smettano di parlare, non mi serve sentirmi dire che sono un fallimento. Gliela faccio vedere io chi è il fallito. Vediamo se messe all'angolo mentre urlo per intimorirle prima, e mentre sfogo i miei palmi incalliti e le suole delle scarpe sui loro corpi dopo, la smetteranno di sfracellarmi il cazzo.
Adesso sì che sono soddisfatto. Frignate, frignate pure, basta lontano dai miei timpani. Se proprio devo, lo scotto lo pago domani con i due mezzi uomini che fino a vent'anni fa erano relegati nel mio scroto.
Ho la mia dama che mi aspetta, e se mi va bene, stasera verrò baciato come non mai, sono anni che le do appuntamento fisso, mai una volta che mi abbia scopato come si deve.
Ti pareva che non venivano a richiedere il conto ancor prima della consumazione?
Eccoli lì, in perfetto orario, a dire il vero ero in pensiero.
"Orgasmo post-contratto matrimoniale" e "orgasmo in un momento di defaiance", entrambi ad attendermi all'entrata della sala biliardo.
Che diamine vorranno adesso? Sicuro vogliono sfilarmi il mio denaro per dar da mangiare la madre e la sorella.
Almeno penso sia questo, sono talmente ubriaco che non ricordo neanche come mi chiamo, una cosa è certa, non mi spilleranno un centesimo.
"Adesso cosa vi manca, sentiamo?", credo di aver detto proprio questo, ho la lingua troppo impastata da quel vino schifoso, devo cambiare enoteca di rifornimento quanto prima.
"A noi veramente niente", risponde orgasmo numero due. Ha un sorrisetto che non mi piace, di solito è sempre schifato quando mi guarda.
"E allora che cazzo volete? Ho da fare."
"Veramente anche noi, ci mettiamo giusto cinque minuti, guarda.", in effetti c'hanno messo davvero poco.
Uno mi prendeva e l'altro mi ripigliava a turno, nemmeno il tempo di capire per cosa mi stavano picchiando. È stato tutto molto rapido, ma purtroppo indolore per niente.
Ricordo solo di aver detto, almeno così mi pare: "come vi permettete, io sono vostro padre".
Ho sentito le loro risatine mentre si allontanavano dicendomi: "certo, come lo sei stato mezz'ora fa con nostra sorella e tua moglie che ancora piangono".
Mi hanno lasciato a terra come una cicca calpestata, ho l'occhio destro talmente gonfio che non riesco nemmeno a guardare in modo nitido.
Una cosa però la intravedo, l'insegna del biliardo che si sta spegnendo.
Striscio sull'asfalto con la bava che mi esce da bocca, riesco solo ad urlare "aspettate, non potete chiudere proprio ora. Stasera è la mia serata fortunata, me lo sento".
Altre risate canzonate da quei quattro coglioni che stanno uscendo, almeno loro si sono presi il loro divertimento.
"Serata fortunata?", mi fa il padrone della bisca occultata in altre stanze.
"La stessa che dieci minuti fa ti ha pestato a sangue? Guarda, tornatene a casa da tua moglie e dai tuoi figli, che una fortuna come quella, io, non l'ho mai avuta".
"Per stasera me ne vado, ma domani torno. Abbiamo un conto in sospeso da una vita io e la matta."
"Fai un po' come ti pare, Gennà".
Allora è così che mi chiamo...
"Sono fortunato io fanculo tutto e tutti fortunato fortunato fortunato fortunato fortunato fortunato ma fai che quella stronza della matta mi ha baciato già e non me ne sono accorto per quanto ero mbriaco?".
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