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Intanto

Primavera inoltrata, la sceneggiatura perfetta ad accompagnare la smania di mesi.
Il freddo secco che brucia le narici mentre respiri: sostituito.
Il tepore che non riscalda del tutto in profondità, diveniva solletico su pelle morbida mai testata da mani a cui sentiva appartenere.
I fiori di pesco appena nati, già morivano in un tappeto fatto di colore che contrastava il grigio di chi calpestava quello spettacolo naturale.
La passerella floreale da casa alla stazione, guidava Dario al centro di tutto il suo mondo; il mondo a cui non era mai appartenuto fino allo scorso ottobre.

Era quello il mese in cui iniziò a respirare per la prima volta veramente. Viveva sospeso nel limbo del suo rammarico e dei pentimenti di cui si sentiva colpevole; era il solo a pensarla a quel modo.
Trattava tutti alla stessa maniera apatica e superficiale, quella che credeva meritare per se stesso dagli altri, lo rispecchiava non volendo su chiunque incrociasse il suo cammino.
Il proverbiale gatto non gli aveva mangiato la lingua, pareva che lui si fosse mangiato la povera bestia con tutta la coda, invece.

Nessuno gli parlava mai di buon grado, paura forse di essere prossime vittime del suo cipiglio giornaliero.
Odiava la banalità e le vite degli altri così insulse e ordinarie; lui di ordinario non aveva nemmeno la casa.
Si era costretto in un monolocale in periferia che lo rinchiudeva ancora di più nella sua spirale monotona e malinconica. Oppure erano le quattro mura che abitava, a subire i suoi continui sguardi persi in piena notte, quando neanche il sonno gli era amico intimo.

Troppe lotte da combattere contro il nulla interno, affrontate ad ogni ora. Erano anni che andava avanti quel circolo vizioso fatto di occhi spalancati e cuore rinchiuso a forza nelle proprie galere personali.
Le poche donne che si era imposto come diversivo non facevano altro che allietare l'elastico dei boxer, anche per mesi se era necessario. Il tutto si riduceva irrimediabilmente ad un "restiamo amici", a lui, che non era amico neppure della sua immagine allo specchio. Ricordava a stento i nomi di quelle che al posto di fiamme riconosceva come fiammiferi consumati da soli.

Si stava lasciando tutto alle spalle, mentre il biglietto del treno acquistato col cuore in mano mesi prima e comprato in contanti il giorno stesso, lo spingeva passo passo per quei sette chilometri di cemento mal rattoppato.
Viveva in apnea da sette mesi ormai, l'unico ossigeno gli veniva elargito da poche boccate di pronto al giorno, non bastavano più. Aveva bisogno di ubriacarsi d'aria solida, cosa che non aveva mai fatto prima. In passato troppe volte si era vestito da fautore di birre tracannate tra amici, che si tramutavano come al solito in un post-sbronza il giorno dopo.
Mezz'ora di curve e gallerie gli avrebbero presto dato tutta la pace che non aveva mai vissuto.

La pace a cui aveva dato un nome, e quello solo era stato per tutto il tempo; una voce da amare senza carne da toccare.
Aurora, era quella che stava rincorrendo da troppo tempo.
Aurora, quante ne aveva guardate dritto negli occhi abbracciato al cuscino amante da tante notti.
Chiarore che annunciava la nascita di un nuovo mattino, mentre non aveva avuto neanche il tempo di piangere le spoglie di quello appena trascorso. Tutto uguale, tutto immutato, come clessidra strozzata dai suoi stessi granelli, il tempo pareva come essersi fermato lì, tra pareti con crepe profonde tanto quanto le lacerazioni negli occhi costretti a stare troppo aperti.

Conosciuta per caso proprio nella stessa stazione in cui si stava recando. Nella libreria accanto alla biglietteria e al chiosco di giornali, tra un titolo e una copertina del più disparato genere letterario, si incrociarono.
Lui che sceglieva il prossimo libro da dissanguare nelle notti insonni, lei che nella foga di non perdere il convoglio aveva trascinato a terra decine di volumi sulla storia d'Europa; il treno che stava aspettando non l'avrebbe di certo attesa a lungo per la sua mania di annusare la carta stampata.
Lo trafisse in cerca di aiuto, Dario pur non essendo molto affabile e altruista, si perse in tutto il nero che lo investì in pieno. Occhi mascherati da pece.

Proprio come tale gli si attaccò addosso senza permettergli di sottrarsi.
Aurora gli sorrise mostrando il contrasto di poco prima; un sorriso accecante bilanciava in ugual modo col suo bianco, il nero dello sguardo.
Fu lì che si vide davvero libero dai suoi mostri, in quel miscuglio di bianco e nero che formavano il grigio dei suoi ricordi contorti.
L'imbarazzo dell'inesperto si respirava a pieni polmoni, Dario lo vendeva come fosse stato prodotto fatto in casa e non come cosa mai provata.

La solarità di Aurora invece fluttuava nel poco spazio fatto di case editrici impilate l'una su l'altra. L'astratto non esiste finché non si mostra, finché non lo incontri, fino a che non ti tocca.
Lo videro entrambi quel giorno, lui sulle guance di Aurora, disponibili come non ce ne erano mai state nei suoi confronti. Lei nelle spalle curve di Dario, quelle su cui gravava tutto il peso del suo passato. Si raddrizzò spalancando tutto ciò di cui Aurora aveva bisogno; un torace che poteva accogliere i tormenti e il cuore tradito di volta in volta.

Passarono tanti treni quel giorno con la stessa destinazione che Aurora doveva raggiungere. Li perse tutti tranne uno; l'ultimo.
Sedettero al bar che non aveva di certo il primato del miglior caffè in circolazione, ma chissà come, quelli che ordinarono avevano un nuovo sapore.
E non c'entrava nulla la miscela, la tostatura, la marca di produzione; era l'amaro a non essere più presente per i due clienti abituali reduci da anni di mancato bene.

Quello che assaggiarono fu la speranza del mai più soli.
Camminava, Dario, camminava verso la sua salvezza, quella trascorsa appeso ad un filo con soli audio come carezza.
Andava a prendersi ciò che gli spettava, proprio quello che prima di Aurora si era negato. Il tempo e la lontananza non può ammazzare chi non è mai nato prima di allora.
E Aurora aspettava, aspettava amnistia alla sua carcerazione.

Continua... ;-)

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