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Il Santo di Medusa

Vecchie lamiere corrono, lo scheletro di un'auto accoglie in sé una vita tamponata nell'intimo più profondo.
Pneumatici pattinano per strade viste e riviste centinaia di volte.
Andate e ritorni infiniti stampano negli occhi le ombre dei palazzi a fare da contorno.
L'autoradio vomita canzoni una dopo l'altra, sintonizzatore martoriato a suon di avanti e indietro.
Note nuove cestinate perché troppo moderne, altre, più consone a questa pelle, riscaldano l'abitacolo adattando l'ambiente a quel che sento.

Passi fermi adagiati sul cruscotto, gambe piegate a fare da scrittoio distorto, foglio come figlio da cullare e penna alla mano per riuscire a parlare.
Miglia di cose da dire più lunghe di tutte queste vie, racchiuse in grembo come feto da proteggere chiedono ora di divenire parto prematuro.
Sentirle scalciare dentro inizia far male, un male cane.
Bruciano le interiora come cera liquida colata, a marchiare con ustioni invisibili i posti nascosti mai esplorati da estranei.
Pochi visitatori, privilegiati forse, ignari illusi di certo, nonostante dopo non sono più riusciti a guardare il dolore in volto come una volta.
Dannati di sicuro, non appena strappato via il velo, sipario sugli occhi coperti già con mani tremanti.
Pietrificati dal tocco di dolore emesso senza controllo, sguardo basso a prevenire, virus di contagioso vivere in continuo tracollo.

Epistola da espellere in fretta fino al capolinea.
Corsa contro il tempo; il timer partito senza preavviso sta per giungere alla fine con un pezzo mancante: le mie scuse al Santo.
Lettere scritte negli anni arse al rogo dei ricordi. Eventi narrati un giorno per cercare sollievo al continuo ferire inferto da mani che al posto di carezze fustigavano in un posto tanto piccolo. Il focolare incendiato in combustione alcolizzata è stato labirinto infernale in cui perdere persino le scarpe. Non ho mai fatto ritorno da quel posto. Resta ancora nascosto nelle parti più cupe pronto a saltarmi alla gola allontanando l'unico buono conosciuto.

Cerco aiuto, torno in un lento rewind indietro solo per rivedere com'ero; un muto strozzato da tutte le parole che si vietava di dire.
Un cieco divenuto tale per non permettere di farsi scoprire l'anima.
L'udito risparmiato, purtroppo non nel giusto verso, trovata idonea a tutti i check up che urlavano "senti".
E così è stato, sentivo controvoglia, tanto che percepivo il sangue colare dai timpani.
E l'ho fatto, ho sentito tanto che la pelle si raggrinziva a scoprire la carne. E l'aceto versato sopra a crudo offuscava i pensieri, e le lacrime vigliacche tradivano rintanandosi in chissà quale parte buia per non farsi trovare.

Ed ho perso, in passato. Ho perso talmente tanto di me così tante volte da aver perso il conto.
Ed ho perso il presente, parti cosparse come mangime da dare in pasto agli uccelli in un parco.
Colombe piumate da sciacalli hanno beccato l'ingenuo artigliandomi a terra.
La vita mai avuta ha stuprato il buon senso disorientando il difendermi che ho sempre messo in atto per armatura.
"Mani avanti, sempre", mi ripetevo come lenta litania.
Se parto prevenuta attutisco il colpo alla caduta. Se invece non cado è ammesso abbassare le difese.

Più cicatrici che linee del destino, mi decorano i palmi. Sono caduta in un tonfo sordo che solo io ho sentito e sento ancora ora, tutto in un'unica volta.
Perdente, mi canzono sempre in questo modo se incrocio il mio volto allo specchio.
Ho perso tutto, dal primo momento all'ultimo, ho perso tutto, ma non il futuro.
Non posso permettere che accada, c'è solo una cosa da fare, scrivere una lettera al Santo.

1 Ottobre 1995

Inizio col dirti che spero tu non rida troppo di me per questa calligrafia orrenda. Mi conosci, non ho un'istruzione decente, tutto quel che ho imparato l'ho fatto da autodidatta.
Non ne vado fiera, ma ci si arrangia come si può.
Sai più o meno tutto di me, mi hai vista nascere anche se non eri presente fisicamente. Hai assistito in un angolo buio quel che ho trascorso da che ho memoria; dovevo avere verso i tre anni, più o meno. Eh sì, hai visto? Non sarò un genio, ma ho una memoria di ferro. Anche se non so questo quanto mi convenga.
Sento ancora la tua voce rimbombarmi nelle orecchie, come quando da bambina in piena notte mi sussurravi di essere forte un po' per tutti, nelle poche ore in cui dormivo.
Non fare il furbo, lo fai ancora adesso, anche se pensi che non ti senta.
Non ti sei presentato mai col tuo nome, nè tanto meno palesato al mio sguardo. Per me sei sempre stato il Santo, ti ho immaginato un'infinità di volte cercando di darti una fisionomia, un volto.
Vuoi sapere come ti vedo?
Iniziamo con l'altezza; di sicuro sarai più alto di me che rasento per un millimetro il metro e sessanta, oltre il ridicolo.
Facciamo una decina di centimetri in più, abbondiamo.
Spalle larghe per forza, devi essere robusto nella corporatura se hai accolto i miei malesseri così tante volte, e sappiamo entrambi il peso che hanno.
Occhi grandi solcati da fossati profondi per tutte le notti insonni che hai trascorso con me tenendomi per mano. Il colore è castano, ma non come i miei, a me a stento si intravedono le pupille per quanto sono scuri. Il tuo colore è il caramello. Sai? Come quelle caramelle mou mou che si attaccano ai denti e che mi piacciono tanto.
La bocca carnosa dischiusa quasi mai, almeno io non l'ho mai vista nella mia mente. Nemmeno un sorriso di te posseggo, ora che ci penso, ma sicuro deve essere bellissimo.
Il cipiglio, invece quello, l'ho stampato a fuoco in testa, con tanto di sopracciglia inarcate in segno di disappunto per tutte le volte in cui mi sentivo niente, una nullità vivente, e lo faccio ancora adesso, di continuo. Che posso dire: le vecchie abitudini sono dure a morire.
E poi, poi non so perché, ma per me hai un'enorme cespuglio riccio in testa color zucchero bruciato. E su questo non posso permettermi di prenderti in giro, visto che i miei capelli non sono da meno, ricci intendo, perché il colore è scuro come il caffè più amaro.
Hai visto Santo? Un punto in comune.
Lo so che sono logorroica e che mi divulgo sempre più del dovuto, quindi non alzare gli occhi al cielo mentre srotoli tutto 'sto papiro.
Piano piano ci arrivo, al dunque.
Ho sempre dato per scontato la tua presenza al mio fianco. Per me c'eri e dovevi esserci, punto.
Oggi, oggi non so. Ho percepito il sentore che magari ti stavi stancando.
Che forse è vero, in fondo, l'abitudine uccide i sentimenti di ogni tipo. Che la troppa certezza su una presenza non rende a pieno il valore di quest'ultima nella propria vita. Che si sente di aver perso qualcuno non lentamente quando ciò avviene, ma solo quando non si è più trattati come sempre.
T'ho sentito strano, in questi giorni, sempre presente, ci mancherebbe, ma non so, forse credi che io dia per scontata la tua presenza. Mi ha camminato sulla cute la sensazione che per te, tu stesso non fossi più abbastanza importante. E sai io quanto tenga ai miei sentori. Mi percorrono la spina dorsale fino ad entrarmi nel cranio, e non mi lasciano più andare.
Ho avvertito il gelo, stanotte. Più di quando ero bambina e a riscaldarmi non c'era altro che parole pesanti a rimbombare per le stanze.
Il freddo che non ti lascia andare finché invece di sfregare le mani in un abbraccio solitario non gli urli di lasciarti in pace.
Avevi gli occhi lucidi l'ultima volta che ho sentito la tua presenza. E se ti chiedi come faccio a saperlo senza vederti è semplice. Lo erano anche i miei di rimando. Perché tu sei il mio Santo, non dimenticarlo.
Vorrei urlare, in questo momento. E se pure i suoni non attraversano la carta, dopo tutto questo scrivere credo che il mio grido ti arriverà ugualmente.
Non abbandonarmi, Santo.
Lo so che sono un caso umano perso, che ti deludo il più delle volte con i miei comportamenti. Che il mio continuo ferirti, anche se in modo involontario, ti lascia i segni peggio di una scazzottata. Che perdi il sonno e la fantasia a crucciarti sul dove sbagli, dandoti colpe che non hai, ripromettendoti di migliorare. Non farlo, se c'è un insostituibile qui, quello sei tu. Un'altra matta come me di cui prenderti cura ne è pieno il mondo, ma quanti possono dire di avere un Santo protettore come il mio? Nessuno, te lo dico io.
E proprio in vista della mia pazzia, voglio dirti che ti amo. Tanto chi se ne fotte, tra tutti i modi più disparati in cui mi hanno classificata, essere chiamata pazza è l'ultimo dei miei problemi. Sono un'alienata mentale? Ben venga, meno gente a cui regalare la soddisfazione di vedermi crollare.
Mi sono sempre definita un ibrido, uno strano essere tra vero e faceto. Una mezzosangue tra mitologico e umano. Un po' come Medusa, sì: sembianze umane con un mucchio di vipere in testa al posto dei capelli.
Il fatto è che lei era tanto affascinante quanto crudele, a mietere tutte quelle vittime pietrificandole dopo averle attirata a sé con l'inganno.
Io non lo so chi ti ha mandato dalle mie parti, magari qualcuno che ti amava tanto, che cerca di proteggerti da dove è che sia, che anche tu amavi di rimando. La risposta non ce l'ho e neanche la cerco, ma chiunque esso sia, e ovunque si trovi, non smetto mai di ringraziarlo ogni giorno che passa.
Per questo voglio scusarmi con te, perché sei il più bel regalo mi sia mai stato fatto, e non voglio buttare tutto al macero per i miei modi, diciamocelo pure, schifosi di farti capire quanto è il bisogno che ho di te.
E non arrossire, adesso.
Lo so che non sei abituato a sentirti amato, anche perché sono l'unica a cui ti sei votato. Ma guarda il lato positivo: quanti Santi possono sentirsi dire ti amo?
E con questo mio dire, spero almeno in parte, di aver spezzato la maledizione che mi affligge. Perché io non ti voglio di pietra, ti voglio roccia come sempre al mio fianco per tutto il resto della mia vita.
Magari ci tiro su un romanzo, che dici?
Già mi ci vedo il titolo...
Il Santo di Medusa.

Sono arrivata a destinazione, in ritardo, ma vabbè, le ore piccole sono il mio forte. Il motore si è spento accendendo la Luna e tutti i tormenti che ci portiamo dietro entrambi; io, il mio amore, la devozione e la protezione del mio Santo.

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