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Aliante

L'ambiente intriso di maschere carnevalesche a donare un po' di rara e sana finzione. Processione votata a festa in un posto dove da festeggiare si è ormai smesso da sempre. L'inizio del mai, che strano inverso.
Questo è mese diviso a metà; saluto primaverile, avvicinarsi di ore estive. È una serata strana, questa; nonostante sia domenica, sembra un giorno festivo eppure uguale a tanti altri. Sento nell'aria il respiro di nuovo non ancora provato.
Sarà tutta questa gente accorsa a bere e mangiare proprio qui, dove a stento c'è cibo per chi vi abita. Dove è troppo angusto lo spazio per respirare liberi, senza sentirsi un po' ladri nell'intimo, nel rubare una boccata di ossigeno al vicino di letto.

Risate sguaiate e vocio ronzante a non permettere di scindere quale sia il rumore più fastidioso e assordante.
Questa calma piatta apparente mi fa sudare proprio al centro della spina dorsale, sotto la pelle, proprio lì, tra l'attaccatura della carne e le ossa.
Sorrido a non so cosa, nonostante il fumo dei troppi avvelenati; anidride carbonica mista a foschia viziata.
Due donne anziane, vedove, si dice siano le nonne; viste di rado e amate ancor meno. Zii vicini più distanti di estranei, cugini di sangue alla lontana sono solo compagnie mai assaporate.
Quanto finto viscerale rinchiuso nel pretesto di ingozzarsi gratis, diviene come strette che non danno alcun calore. Pacche sulle spalle andate perdute chissà dove nel trasporto di un paio d'ore di recitazione.

La famiglia latitante in possesso di impronte di riconoscimento, per evitare la meschina presentazione di qualcuno a cui magari non attribuisci neanche un nome, tanto è il tempo che non lo vedi. L'ultima volta che hai pronunciato un "piacere io sono...", caduto nel dimenticatoio dei passanti che hai conosciuto nei vari anni.
Ferma, sotto l'arcata in legno ricavato dal muro maestro, attendo il turno per sedermi. Perdo le speranze ancor prima di investirci un minimo di tempo, sono troppe le anime presenti. Appoggiata alla parete, mimetizzata con la carta da parati, posso ritenermi soddisfatta; nessuno ti vede se ti fingi morta.

Il resto si sfuma nei suoi contorni lasciando nitide le figure più importanti: mamma a servire vivande proprio come lavoro non scelto anni addietro, professione imposta da autografo su registro che l'ha resa schiava senza abbandono di carriera da diva.
Papà, da bravo attore, finge serenità che non regala, meschino nel suo essere attento all'occultazione di cadaveri d'anime, sparse per sua mano nella stessa casa come scenario.
Giulia, si camuffa tra chiacchiere con un'amica infiltrata senza invito, per estraniarsi dalla folla che l'ha diseredata fin dalla culla rivestita da cenci e indifferenza.

Davide, in disparte, amoreggia con gli occhi pieni di quel tanto che non abbiamo mai ricevuto.
Luca, da brava ombra, mantiene per mano chi gli ha donato un sorriso, colei che ha domato la bestia che risiede in lui, che lo divora ad ogni nuovo tormento, quando si lacera dentro senza trovare soluzione se non masticarsi i denti.
Il pezzo mancante sono io, come sempre; e non c'è nessuna novità in fondo. Resto relegata nella parte oscura attendendo l'ennesimo tonfo sordo di chi cadrà senza volerlo, pronta a soccorrere senza richiesta d'aiuto.

La coppietta in plastica antiquata raffigurante due sposini sotto un arco fiorito, mi fissa dalla vetrinetta alla mia sinistra. Quanti anni sono trascorsi dal quel 1972 ad oggi. Almeno loro sono rimasti col sorriso di quel giorno, mentre io resto l'ultima gravidanza non desiderata, rattoppo dell'ennesima tresca paterna andata a male. Dove si era chiesto un perdono non vero nella foga di una sera targata 1984. L'assoluzione arrivò subito, la sottoscritta nove mesi dopo. Tra le continue bugie rinnovate come ceri votivi, cresceva l'ultimo miscuglio genetico tra sangue diverso a cui aveva già dato vita tre legami di uguale RH prima, positiva ironia.

Un improvvisato fotografo di turno maneggia una macchinetta usa e getta. Richiama tutti i componenti al centro della stanza. La foto ricordo non può certo mancare, sempre che non venga sfocata o bruciata dal rullino scadente al suo interno. Troppo poco buono reso indelebile, da poter ammirare sotto gli occhi attenti di chi si è vestito di indifferente una volta sedato l'ennesimo disastro.
Il pubblico sorride, stavolta senza tifare il male che non gli appartiene, lo stesso che venivano a riportare indietro come fosse stato amore perduto e non pericolo abbandonato senza distrazione per strada.
Mai nessuno che si fosse chiesto il perché del continuo perpetuare,  prima di immischiarsi senza aver ricevuto richiesta di soccorso familiare.

Eccoli tutti qui, o quasi, a fingere vada tutto bene nel circo location di tanti spettacoli. Nessun animale da sbranare dall'alto della catena alimentare, adesso. Sembriamo tutti ammaestrati ad arte solo finché si spegneranno i riflettori che ci vedono come non siamo mai stati.
La torta sulla tavola riporta due nomi legati un tempo come unico respiro, ora un po' meno.
"Vincenzo e Nina", scritto in zucchero colorato, contornato da tanti auguri in ostia commestibile.
Resto in ombra anche essendo motivo di raduno, il sacramento ricevuto poche ore fa è stato solo un compromesso tra il loro Dio ed il mio; l'apatia più totale. Il voler assaporare quelle mura cariche di promesse a cui non ho mai creduto, solo come passo in avanti nella ricerca di un credo, di una speranza per farmi deridere in piena faccia da chi ho invocato mille volte e non è mai accorso. È stato un modo per dire "sono qui, adesso; io il mio l'ho fatto, ora tocca a te". Illusa? Può darsi, intanto mi è costato solo poco tempo infrasettimanale, ed è stato anche un po' il pretesto per evadere. Perché no?
Per Davide è stato un tantino diverso, il sacramento richiesto solo per il prossimo appuntamento, il più importante della sua vita. Il mese prossimo coronerà il suo sogno, che oscilla tra legarsi alla donna che ama e lo scappare di qui, via lontano.
Al posto di gridare un "viva gli sposi", pregherò in silenzio un "ce l'ha fatta, almeno lui".

Stretti intorno al tavolo ovale in sala da pranzo, non ci siamo forse mai sfiorati tanto da vicino restando comunque lontani. Mamma e papà al centro, tra quattro figli avuti negli anni, cresciuti nostro malgrado troppo in fretta.
L'ironia di papà non adatta al momento pronuncia parole di scherno che somigliano più ad un avvertimento: "così abbiamo già pronta la foto per la lapide di famiglia". Risate riecheggiano per la stanza, tutti ridono tranne me, mi lascio sempre toccare troppo dalle parole che cozzano contro i miei sensi. Intorpidiscono persino il cuore, la stessa sensazione che provo quando sento qualcosa che non sono pronta a sopportare, fluttuare nell'aria. Nessuno la vede, la sente, resta attaccata a me e a me soltanto come allarme trasparente che ha scelto di farsi vedere solo ai miei occhi.
Maledetta sete di tormento, riesco a farmi rovinare ogni attimo; anche questo che dovrebbe avere il sapore del bello.

La canicola di troppi fiati accalcati nel ventre della casa, non mi permette di respirare come dovrei. Esco sul piccolo balcone a farmi investire da ciò che manca, lo spazio. Tutti intenti ad assaporare il dolce; la torta è diventata contrasto all'amaro in una sola ed unica sera. Chissà se riuscirà a colmare anni di ruggine trattenuta sulle papille gustative perché proprio non si riusciva a mandarla giù nello stomaco come si doveva.
Alcuni ospiti approfittano andandosene subito dopo, altri, si trattengono a godersi il raro episodio. Io che ripulisco come faccio di solito, stavolta solo stoviglie in bianco petrolio.
Luca che si congeda prima del coprifuoco all'amata, un po' troppe strade da percorrere da qui alla sua casa.
"Vado, mamma, a più tardi", così ha salutato ad è uscito.

Mezz'ora, è passata solo mezz'ora, sono bastati solo una manciata di minuti a squarciare tutto; la festa, la foto di famiglia, la torta, persino i confetti hanno cambiato sapore: si sono tinti di nero tutti insieme.
Il telefono che si sgola cercando di sovrastare il vocio dei restanti, un attimo prima cada la linea qualcuno risponde.
È stato tutto molto veloce e spasmodicamente lento allo stesso momento, ho seguito i movimenti del centralinista improvvisato solo per vederlo col volto cereo dirigersi verso mia madre. La stessa, ha assunto la smorfia della morte senza che l'avesse abbracciata.
Incidente.
Luca.
Solo queste due parole riecheggiano nella mente.
Il primo pensiero è stato quello di ricordare dove avessi visto le chiavi della sua moto abbandonate durante i festeggiamenti.
Ingresso.
Chiavi.
Torno sui miei passi come un automa, pregando ogni santo che fossero lì ancora, e in effetti erano lì, solo non mi capacito di come la parola "Luca" ed "incidente" possano coincidere nella stessa frase, se l'unico motivo con cui si sarebbe potuto far del male per strada si trova nel ricovero dietro l'angolo.

Davide e Giulia si scaraventano per le scale, mamma e papà gli corrono dietro, io che resto a far da custode al nulla dopo le parole di qualcuno rimasto per caso: "mi raccomando, pensa tu a tutto".
Pensare, pensare, pensare, pensare.
Riesco soltanto a ripetere il verbo, ma di mettere in pratica non se ne parla, anche perché l'unico pensiero che posso avere va a mio fratello che non so più se esista o meno. Al diavolo tutto, la casa, gli ultimi ospiti spettatori per l'ennesima volta della tragedia che regna sovrana in questo posto anche mentre si è intenti a fingere non vi sia nulla che non vada.
Lascio il subbuglio della stanza divenire perfetto ordine al buio, in confronto a ciò che sento dentro.

Torno ad essere non credente nonostante stamane ho mentito dinanzi a chi non ho mai creduto esistesse davvero, adesso ne ho la conferma.
Rannicchiata con le gambe al petto, striscio giù per la parete dell'ingresso, cullando fili elettrici in materiale resistente più di me.
L'attesa si trasforma in spasmi di frenesia più pura, le chiavi della moto come pongo tra le mani scavano solchi quasi pronti a sanguinare, raccolgono il centro di tutte le mie paure.
Rantolo in un angolo, concentrando tutto il mio esistere ad occhi chiusi su quel pezzo di metallo a cui mancherà il padrone, e mi sussurro che non può essere solo questo ciò che di lui mi rimane.

Passano i minuti, i secondi scavalcano le ore solo per restare dove sono a non ricevere assoluzione.
Proprio quando meno me l'avrei aspettato, il sonno si impossessa di tutto: della pelle, dei ricordi rincorsi come mai prima. Dai pochi, ma buoni; ai cattivi in uso quotidiano. Le lacrime serrano come colla gli occhi che non hanno altra colpa di non essersi mai fermate. È fuoriuscito quasi tutto da me, tranne il pensiero di lutto.
La porta che sbatte, il brusco risveglio a trovarmi ancora lì infreddolita e formicolante nonostante sia maggio inoltrato. Giulia che raccoglie quel poco di me che non è ancora grondato via sul pavimento in gres scadente.
"È all'ospedale, sta bene, per fortuna. Vai tu, chiudo io, qui".
Non le faccio ripetere due volte quelle parole, scappo per le scale rincorrendo i suoi passi, le stesse che hanno salutato Luca poche ore prima, non le ultime, questo è certo.

Barcollo tra i tanti pronto soccorso estranei, mi scuso per la poca empatia trasformata in egoismo ricercato.
Quel che resta di una famiglia, la mia, radunata all'esterno dell'ultima porta.
"È dentro con lo psicologo", dichiara mamma ad occhi bassi, con il volto dipinto dalla vergogna.
Papà risponde alla muta richiesta fatta dagli occhi, "Sta bene, ha solo un graffio sul braccio".
Torno a respirare come dovrei, senza capire il perché della visita psichiatrica alle undici quasi di sera.
Stavolta nessuno risponde, il dottore esce lasciandomi il posto.
Eccolo lì, ora sì che lo riconosco.
Testa bassa e spalle curve che ho visto troppe volte, lo sguardo a fissare le scarpe sospese fuori dalla barella, e quel poco che è riuscito a costruirsi sembra sia andato improvvisamente distrutto.

Non mi parla e già so non lo farà mai, si è richiuso nel suo guscio di mutismo imposto a forza come solo lui riesce a fare.
Riesco solo a regalarmi una carezza che sa di bene, proprio lì, tra i suoi capelli ricresciuti da un anno a questa parte, forse troppo in fretta. Rabbrividisco ancora, al ricordo, quando mi chiese di farseli tagliare tutti.
Gli lascio il tempo che gli serve non lasciandolo veramente, attendo al di là della porta in attesa di ritornare a casa con lui.
È lì che ascolto, ascolto proprio tutto.
Proprio quando i timpani dovrebbero dichiarare sciopero uditivo sono lì che assisto per l'ennesima volta a ciò che non voglio. Spero sempre sia l'ultima, anche ora che non è passata nemmeno l'una notte.

"Dottore, ma io davvero non capisco, perché mio figlio si sarebbe buttato di sotto?"

"Per il troppo stress familiare, signora. Mi ha detto chiaramente: non ce la faccio più a reggere tutto."

Non ha retto, Luca.
Non ha retto nemmeno il parapetto dall'altezza di tre piani dove si è lanciato.
Ha scelto una sera di finzione per farci tornare coi piedi per terra, proprio mentre lui giocava con la sua vita a fare l'aliante dal corpo di uomo.
È atterrato dopo la caduta libera di pochi secondi che potevano trasformarsi in un'intera vita senza di lui, sul tetto di un'auto sottostante.
Riesco soltanto a mimare un "grazie", e non so bene per cosa.
Grazie per lui perché c'è ancora.
Grazie al povero Cristo padrone dell'auto, che proprio stasera ha deciso di parcheggiare in quel posto.
Grazie alla forza di gravità che per una volta ha sbagliato, anche se può essere stato solo un intoppo.
Grazie, perché in fin dei conti, anche se uscirà da quella porta più ammaccato emotivamente del tettuccio che si è accartocciato sotto il peso del suo corpo, tornerà da me altre sere col muso lungo a ricordarmi che la morte, in fondo, anche se la sfiori, se la aggiri, la ritrovi per sempre dentro agli occhi per tutti gli anni a venire.

A te, che molto probabilmente non leggerai mai nessun rigo scritto da queste mani, è a te che dedico tutto questo mio dire nonostante ricordare abbia fatto male oggi come allora.
A te. L.

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