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Njemile

Le fiamme.
Enormi lingue di fuoco che, quasi siano esseri viventi, crescono sempre di più, mano a mano che inghiottono nelle loro fauci ardenti erba, cespugli, alberi, rami caduti a terra e qualunque altra cosa finita sulla loro strada.
Non c'è più alcuna traccia di verde nel bosco, ma solo rosso.
Rosso in tutte le sue sfumature, dal cremisi al bordeaux, benchè ci sia una certa prevalenza di scarlatto.
Le fiamme gli brillano negli occhi e gli bruciano il volto.
Ma non grida, perchè ha già esaurito da alcuni minuti tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Gli occhi si fanno pesanti e le membra deboli.
Annaspa come se si trovasse in mezzo all'oceano, anziché al centro di uno dei più violenti incendi che l'Ontario avesse visto nel corso dell'ultimo secolo.
- Dominik! -
Eppure continua ad avanzare. Anzichè scappare, continua ad avvicinarsi, a farsi sempre più vicino all'"occhio del tornado".
- Dominik! -
All'udire quella voce affretta il passo, per quanto gli è possibile.
Ma poi all'improvviso sente un rumore e solleva lo sguardo.
L'enorme ramo in fiamme di un pino incombe su di lui, facendosi sempre più vicino.
Sgrana gli occhi e dalle sue labbra dischiuse esce un silenzioso grido di terrore.
Sente ancora quella voce urlare il suo nome, ma questa volta è diversa, come se improvvisamente si fosse fatta più... Reale?

- Dominik! -

Il ragazzo si risvegliò con un sussulto, sbarrando gli occhi di scatto.
Il cuore gli martellava incessantemente nel petto e mentre portava una mano proprio in quel punto, quasi temesse che potesse balzare fuori dalla sua gabbia toracica da un momento all'altro, si tirò su a sedere.

Una volta che fu riuscito a regolarizzare il respiro e darsi una calmata, lentamente si voltò alla propria destra, dove una sedicenne dagli occhi cerulei e la pelle d'ebano lo stava osservando con sguardo mortalmente serio.

- È da cinque minuti che ti chiamo. Quando sono arrivata tua nonna stava battendo sul soffitto con la scopa, ma visto che non ti svegliavi mi ha chiesto di salire. - Spiegò lei, osservandolo accigliata. - Hai fatto di nuovo quell'incubo, vero? -

- Che ore sono? -

Le chiese però il ragazzo mentre lei stava ancora finendo di porgli quella domanda.

- Le sette e cinquanta. - Rispose lei, fingendo di non essersi resa conto del suo tentativo di sviare la questione. - Io scendo. Tu sbrigati a prepararti, non posso più permettermi di fare ritardi. -

- Certo, neanche io. - Sospirò Dominik. - Dammi dieci minuti e arrivo, Njemile. -

La ragazza lo osservò per alcuni istanti senza dire nulla, quasi stesse valutando quante fossero le probabilità che il suo migliore amico riuscisse a togliersi di dosso quell'aria da zombie e aggiustare il nido che aveva al posto dei capelli in appena dieci minuti.
Quindi storse leggermente il naso, come se il risultato delle sue valutazioni non fosse stato particolarmente soddisfacente, tuttavia non disse nulla e nel giro di un istante era già uscita.

Non appena sentì la porta richiudersi, Dominik chiuse lentamente gli occhi e dischiuse le labbra per far uscire un sospiro leggero.
Aveva ancora la pelle d'oca su tutto il corpo.

Non poteva andare avanti così. Lo sapeva bene, se lo ripeteva ogni volta che faceva sogni del genere.
Ormai erano passati sei anni da quel giorno. Per quanto tempo ancora avrebbe continuato a rivivere quell'incendio nei suoi incubi peggiori?
Per quanto tempo ancora avrebbe continuato a sentire la sua voce gridare il suo nome in mezzo al crepitio delle fiamme?

Con un gesto secco si tolse le coperte di dosso e l'improvvisa folata di freddo riuscì a riscuoterlo.

Doveva smetterla di pensarci, ormai quel giorno apparteneva al passato.
Avrebbe anche potuto passare ore intere a rifletterci, a rivivere con la mente quei momenti, ma questo non avrebbe cambiato proprio nulla.

Piuttosto, gli conveniva mettersi subito a pensare al presente. Ciò che Njemile gli aveva detto era vero: non potevano assolutamente permettersi un altro ritardo a scuola.

Mentre si affrettava a raggiungere il bagno, il ragazzo non riuscì a fare a meno di pensare a quanto Njemile nel corso di quegli ultimi anni fosse diventata una parte fondamentale della sua vita. Una costante.
Ormai quando stavano insieme aveva quasi l'impressione che si conoscessero da tutta la vita, come se fossero fratelli, eppure si erano conosciuti solo cinque anni prima...

Il loro primo incontro era avvenuto in prima media, quando entrambi avevano undici anni.
Quel giorno intorno alle otto del mattino, come anche tutti gli altri giorni intorno alle otto del mattino, Dominik Pelletier era a scuola, nel pieno della sua maratona mattutina, o forse sarebbe stato meglio dire: corsa al "tana libera tutti", dove la tana era la sua classe e la libertà in palio era la sua.
"Altro che selezione naturale", avrebbe pensato anni dopo, studiando Charles Darwin, "è questa la vera guerra per la sopravvivenza!".

Nonostante fosse di costituzione minuta, specie se messo al confronto con i suoi aguzzini, Dominik era sempre stato molto agile e così anche quel giorno era riuscito a distanziare Zack, Jacob, Ethan e Mathis di parecchi metri.

Raggiungere la classe non sarebbe stato un problema per lui se solo, soltando l'angolo, non si fosse ritrovato davanti niente meno che Zack. Senza pensarci due volte Dominik era tornato indietro, riuscendo fortunatamente a raggiungere le scale prima che gli altri tre raggiungessero lui.
"Proprio come in un film horror."
Si era ritrovato a pensare, riferendosi a quell'assurda tendenza dei protagonisti a salire sempre ai piani superiori quando volevano scappare dal mostro o carnefice di turno.

Sentendo le loro voci alle sue spalle, il bambino aveva subito affrettato il passo, percorrendo l'intero secondo piano come una scheggia, fino a raggiungere i bagni in fondo.
Non ci aveva pensato due volte prima di entrare in quello delle femmine, pensando che sicuramente lì non sarebbero mai andati a cercarlo.

E così, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle ed essersi buttato di peso su di essa -nel caso in cui uno di loro lo avesse visto entrare-, aveva improvvisamente fatto caso a qualcosa, o meglio, a qualcuno: c'era infatti una bambina nel bagno, che lo osservava da circa due metri di distanza con uno sguardo a dir poco perplesso.

Il sangue gli affluì violentemente al viso e senza dire nulla portò l'indice davanti al volto, per farle segno di rimanere in silenzio.
Non che ci sperasse particolarmente, in realtà. D'altronde benchè fossero solo quei quattro a manifestare apertamente il loro disprezzo nei suoi confronti, in realta era la scuola intera, o meglio, il paese intero a detestarlo.
Ormai era da un anno o poco più che le uniche persone a rivolgergli la parola erano sua nonna e i maestri durante le interrogazioni. Oltre ai carabinieri e qualche poliziotto, ovviamente.

La bambina però non aveva fiatato, continuando ad osservarlo con quei suoi grandi occhi azzurro pallido, che risaltavano come gemme per contrasto con la sua pelle di cioccolato fondente.

- Dov'è andato? -

Aveva sentito dire a Ethan dal corridoio.

- Magari si è nascosto in bagno. -

Aveva suggerito Zack, facendolo pietrificare dal terrore.

- No, non c'è! -

Aveva risposto Mathis, che probabilmente aveva già controllato in quello maschile.

- Sarà sceso dalle altre scale. A quest'ora sarà già arrivato in classe. -

Aveva concluso a quel punto Jacob, prima che Dominik sentisse i passi e le voci dei quattro farsi sempre più distanti, fino a scomparire completamente.

A quel punto non era riuscito a fare a meno di tirare un debole sospiro di sollievo e subito dopo aveva sollevato nuovamente lo sguardo verso la bambina.

- Grazie. -

Le aveva detto in un sussurro.

In tutta risposta lei si era fatta avanti di un paio di passi e, osservandolo con sguardo mortalmente serio, aveva dischiuso le labbra e chiesto:

- Sei un pervertito, per caso? -

- Eh? - Aveva replicato lui sgranando gli occhi, preso alla sprovvista. - No, certo che no! -

Lei lo aveva osservato con sguardo indagatore, squadrandolo da cima a fondo, per poi dire:

- Trans, allora? -

- Che? - Aveva replicato  Dominik, che aveva presente solo a grandi linee cosa quella parola significasse. - No, io... -

- Che ci fai nel bagno delle femmine allora? -

- Scappavo dai quei quattro. -

Aveva risposto lui, mentre lo sguardo gli cadeva sulla strana bambolina di pezza che la bambina stringeva nella mano destra.

- Ah, capisco... - Aveva mormorato lei, con il tono di chi la sa lunga. Ma poi, dopo aver esitato per un istante, aveva aggiunto: - Perchè? -

- Perchè sono bulli, no?

- E perchè i bulli ce l'hanno con te? -

"Ma questa c'è o ci fa?"

Aveva pensato il bambino aggrottando la fronte, per poi risponderle:

- Come "perchè?"? Non sai chi sono? -

- Dovrei? -

Aveva replicato semplicemente lei, squadrandolo con sguardo perplesso da capo a piedi.

- Dominik Pelletier. - Aveva risposto lui a quel punto, osservando il suo volto in attesa di una reazione furiosa o disgustata che però non arrivò. - Un anno fa... L'incendio nel bosco... Non ti dice niente? -

- Ah, sì. Mi ricordo dell'incendio. - Aveva risposto lei, come se fosse possibile non ricordarsene. - Ricordo di aver pensato quel giorno che fosse un vero peccato il fatto che ormai tutti in paese avessero sostituito le loro case di legno con quelle di mattoni. -

Senza starci a riflettere troppo, Dominik aveva deciso di prendere quelle parole per una battuta, benchè il volto della bambina fosse così serio da dargli quasi i brividi.

- Tu invece? - Si era ritrovato a chiederle, facendo un breve cenno con il capo in direzione della sua bambola. - Cosa ci fai qui con quella? -

- Ma come, non sai chi sono? - Lo aveva scimmiottato lei, mentre le sue labbra scure si piegavano in un leggero sorrisino divertito. - Njemile Côté. Metà africana... Del Benin... Nel tempo libero si diverte a costruire inquietanti bamboline voodoo... Non ti dice niente? -

- Davvero costruisci bamboline voodoo? -

Era stato tutto ciò che Dominik era riuscito a rispondere.

- Sì. - Aveva risposto lei, sollevando la bambolina che aveva in mano. Il bambino si era sorpreso nel constatare che fosse una rappresentazione di Njemile stessa. - La uso per farmi i massaggi. -

A quel punto il bambino era scoppiato in una fragorosa risata e lei lo aveva seguito poco dopo.

Era iniziata in modo strano la loro amicizia. Come se con quella risata avessero firmato un qualche tipo di contratto irrevocabile. Un contratto di convenienza.

Inizialmente non era stato tanto un dare e ricevere io loro, ma piuttosto un dare per ricevere.
Dargli un abbraccio o una carezza in cambio di un pomeriggio passato a giocare in giardino con il suo cane o nella sua piccola piscina gonfiabile.
Offrirle un pacchetto di fazzoletti o una spalla su cui piangere in cambio di un'intera domenica passata nella sua cantina a giocare ai videogiochi.

Ma benchè la loro amicizia fosse iniziata in questo modo, come un continuo consolarsi a vicenda solo per poter poi approfittare l'uno dei vantaggi dell'altra e viceversa, nel giro di qualche anno si era trasformato, fino a diventare puro e semplice desiderio di volersi bene.

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