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Cîpay

Quello strano pomeriggio di maggio la pioggia cadeva incessante; scivolava rapida sulle foglie strette e lunghe degli abeti e poi precipitava verso il basso, martellando senza sosta sul grande ombrello giallo pastello a pois rosa.
Non avesse avuto ventitrè anni di servizio alle spalle, il bambino avrebbe quasi temuto che quell'acquazzone avrebbe potuto distruggerlo.

Aumentando la stretta sul manico, il moro si strinse nelle spalle, rabbrividendo leggermente.
Più per il pensiero della strigliata che gli avrebbe fatto sua nonna se le avesse riportato l'ombrello ridotto a brandelli, però, piuttosto che per il freddo.

Si guardò intorno nervosamente, sporgendosi sul ciglio della strada e volgendo il capo prima verso destra e poi a sinistra.

Nessuna traccia dell'autobus.

Non che fosse una novità, eppure, benchè la fermata alla quale stava aspettando fosse ai confini del bosco e il suddetto bosco si trovasse ad almeno una trentina di chilometri di distanza dal centro abitato più vicino, non era mai capitato che l'autobus facesse un ritardo del genere.

Certo, qualche volta era addirittura capitato che non passasse affatto -dopotutto il piccolo paesino nel quale viveva non era certo una delle mete turistiche più gettonate del Canada- ma ormai era da almeno un paio d'anni (per la precisione, da quando sua nonna era andata di persona in città a protestare, armata di mattarello e spray al peperoncino) che non succedeva.

Il bambino stava giusto pensando che gli sarebbe toccato entrare ancora una volta alla seconda ora, quando sentì uno scalpiccio.

Subito si ridestò, prendendo a guardarsi intorno.
Inizialmente aveva pensato che fosse l'autobus, poi però aveva realizzato che nessun mezzo di trasporto avrebbe potuto fare un suono del genere.
Di sicuro si era trattato di qualche animale.

"Speriamo solo che non sia un orso".

Si ritrovò a pensare, mentre un sottile velo di sudore iniziava a bagnargli la fronte.
Ecco, solo il sudore gli mancava, ora era solo questione di tempo prima che si prendesse un raffreddore con i fiocchi.

Guardandosi nervosamente alle spalle, il moro rivolse uno sguardo assottigliato in direzione della fitta muraglia di abeti, che separava nettamente bosco e ciglio della strada.

Solo dopo aver constatato che per un orso sarebbe stato impossibile passare in mezzo a quei tronchi e raggiungerlo -erano così ravvicinati che perfino lui avrebbe avuto qualche difficoltà- riuscì a mettersi l'anima in pace e voltarsi nuovamente verso la strada.

Si era appena voltato, però, quando sentì nuovamente quello scalpiccio, reso ovattato dal terreno fangoso e nascosto dallo scroscio della pioggia.

Provò a convincersi che fosse solo un uccello o qualche scoiattolo, ma quale animale di buon senso si sarebbe messo a girovagare con un tempaccio del genere?
Giusto l'essere umano poteva essere tanto idiota da farlo.

Quel pensiero però in qualche modo riuscì a consolarlo.
Se era una persona, non c'era nulla da temere, giusto?

Prima che se ne rendesse conto, aveva infilato la mano sinistra nella tasca dell'impermeabile, alla ricerca del cellulare e dell'improbabile allarme antiaggressore a forma di gattino che sua nonna non dimenticava mai di rifilargli ogni singola mattina, insieme alla merenda per la scuola. Magari quella sarebbe stata la volta buona che avrebbe potuto usarlo, benchè sicuramente facesse ben più affidamento sul suo cellulare.

Lo scalpiccio si fermò di colpo e il moro si ritrovò a trattenere il fiato.
Non osò muovere un solo muscolo; lo sguardo fisso sulla strada e le nocche delle mani completamente bianche a causa di tutta la forza con la quale stava stringendo il manico dell'ombrello.

Poi d'un tratto sentì qualcosa di morbido solleticargli il dorso della mano, facendogli venire la pelle d'oca.

Si irrigì e lentamente si voltò a sinistra.
Non c'era nessuno.
Perplesso chinò il capo verso il basso e fu allora che per poco non si prese un colpo.

Un cerbiatto dal manto chiazzato e due grandi occhioni scuri se ne stava seduto accanto a lui, con lo sguardo rivolto verso la strada, beandosi del riparo dalla pioggia costituito dall'ombrello del bambino.

In un primo momento quest'ultimo fece come per ritirarsi, ma alla fine ci ripensò.
Era solo un cerbiatto, non correva alcun pericolo.
E poi non se la sentiva proprio di scansare l'ombrello e lasciarlo sotto la pioggia.
Così senza fiatare tornò a rivolgere lo sguardo verso la strada, in attesa dell'autobus che l'avrebbe portato a scuola.

Nel corso dei dieci minuti seguenti, l'animale non mosse un solo muscolo, tanto che il bambino avrebbe quasi temuto fosse imbalsamato, se solo un pensiero del genere non fosse stato così assurdo.
Il cerbiatto si mosse, rimettendosi a quattro zampe, solo nel momento in cui si iniziò a udire in lontananza il rombo di un motore.

Il bambino sussultò, non riuscendo quasi a credere che l'autobus fosse finalmente arrivato.
E a quel punto si voltò a sinistra, in direzione del suo improbabile compagno d'attesa, ma quale non fu la sua sorpresa quando si rese conto che del cerbiatto non c'era più traccia.

"Dev'essersi spaventato per il rumore del motore." Pensò con una leggera alzata di spalle. "Sarà tornato nel bosco".

E pensando ciò, si voltò nuovamente verso la strada.
Ancora cinque secondi e avrebbe visto spuntare il muso del veicolo da dietro la curva.
Un'altra decina e avrebbe parcheggiato davanti a lui.
O meglio, forse anche una ventina. D'altronde non sarebbe stato affatto facile per l'autista parcheggiare con quel cerbiatto piazzato proprio in mezzo alla strada...

- Ma che fai!? -

Esclamò il bambino. Gli occhi quasi fuori dalle orbite dallo spavento.

E intanto il rombo del motore dell'autobus aumentava.

"Ma perchè non si toglie?"

Pensò, sempre più agitato.
Era impossibile che non si fosse accorto dell'arrivo della macchina, considerando che aveva il capo rivolto proprio in quella direzione.

"Ne ho viste di cose strane da queste parti, ma il cerbiatto aspirante suicida mi mancava".

E fu con questo assurdo pensiero per la mente che abbandonò a terra zaino e ombrello e si gettò a capofitto in strada, senza sapere lui stesso cos'avesse esattamente intenzione di fare.

L'autobus svoltò proprio nell'istante in cui il bambino raggiunse l'animale, ma l'autista del suddetto non ebbe modo di capire cosa stesse accadendo davanti a lui per strada. Nel vedere quella strana macchia scura rotolargli rapidamente davanti e poi scomparire ruzzolando giù per il fosso che stava giusto oltre il ciglio della strada, ipotizzò che si fosse semplicemente trattato di qualche animale che stava attraversando e non potè che essere grato del fatto che avesse fatto in tempo, così da evitargli spiacevoli contrattempi.
Voltandosi a sinistra, in direzione della fermata dell'autobus, però, l'uomo si accigliò.
Riconobbe all'istante il grande ombrello giallo a pois rosa abbandonato per terra e non potè fare a meno di chiedersi che fine avesse fatto il suo proprietario.
Non poteva certo immaginare che quest'ultimo al momento si trovasse proprio in fondo al fosso, immerso nel pantano in un intrico di gambe e braccia con il cerbiatto più idiota dell'intera foresta.

Il bambino si rialzò in piedi tutto dolorante, rischiando più volte di scivolare a causa del fango, nel quale era immerso fino alle caviglie, in parte pensando a quanto fosse fortunato ad essere ancora tutto intero e in parte considerando che in realtà questo non cambiava proprio nulla, dato che al momento del suo ritorno a casa, vedendolo tutto sporco di fango e bagnato fradicio, ci avrebbe pensato sua nonna a farlo fuori.

- Sono proprio nei guai... -

Sospirò mentre volgeva lo sguardo verso l'alto, in direzione della strada.
Il fosso era profondo solo due metri, ma non sarebbe stato comunque facile riuscire a risalirlo.
Ormai l'autobus se lo poteva anche scordare.

Preso com'era a compiangersi e valutare quali fossero tutti i peggiori scenari possibili, il bambino quasi non considerò il cerbiatto, convinto che fosse schizzato via non appena avevano toccato terra.
Fu per questo che quasi gridò dallo spavento quando sentì qualcosa sfiorargli la nuca e al contempo iniziò pian piano a distinguere in mezzo allo scroscio della pioggia uno strano suono, come una risata.

Fu solo allora che cacciò un urlo: quando voltandosi, al posto di un cerbiatto si ritrovò davanti un bambino completamente sporco di fango. L'unica parte di lui che fosse pulita erano gli occhi, piccoli e vispi, di un verde brillante.
Dimostrava all'incirca la sua stessa età, ovvero nove anni, tuttavia aveva qualcosa di strano, che rendeva impossibile stabilirlo con esattezza.

- Chi sei tu? -

Squittì il moro, ritraendosi di scatto.

L'altro si accigliò leggermente di fronte a quella reazione, smettendo di ridere.

- Ma come... Allora vorresti dire che è tua abitudine rischiare la vita per tutti gli sconosciuti che ti passano davanti, Dominik? -

Aveva qualcosa di strano la voce di quel bambino e non era dovuto solo all'effetto distorsivo della pioggia.
Era come se fosse la foresta stessa a parlare.
Come quando ti ritrovi da solo in un posto sperduto e improvvisamente senti un suono -come il fruscio delle fronde di un albero, il soffiare del vento, lo scalpiccio o il verso di qualche animale- che in qualche modo ti ricorda il suono di una voce umana.
Al momento però, più che questa fu un'altra la cosa che sorprese il moro.

- Come sai il mio no... -

Iniziò, sempre più disorientato, quando improvvisamente si interruppe, ritrovandosi davanti la mano grondante di fango dell'altro.

- Ora che ci penso, in effetti mi sono scordato di presentarmi prima, alla fermata dell'autobus. - Disse lo strano bambino dagli occhi verdi, rivolgendogli un sorriso smagliante. - Piacere, io sono Cîpay. -

Nonostante l'assurdità di quella situazione, il bambino sentì tutta la tensione allentarsi alla vista di quel sorriso e subito si affrettò a ricambiare la stretta di mano, senza curarsi più di tanto di quanto fosse sporca, considerando che lui si trovava nella stessa identica situazione.

Al momento Dominik non ci fece caso, ma in futuro, ripensando a quello strano incontro, si sarebbe reso conto con un misto di stupore e sconcerto del fatto che "Cîpay" in Cree Moose, un antico idioma canadese che ormai lì in Ontario non veniva parlato che da poche migliaia di persone -tra le quali lui e altri membri del suo piccolo paese-, non significasse altro che "spirito".

~

E così, dopo aver tormentato il Giappone per ventidue lunghi mesi, ecco che parto alla conquista del Canada.
Tra l'altro, ci avrò messo circa due o tre ore a trovare la parola "Cîpay", ormai me li sarò imparati tutti i nomi delle lingue canadesi.
Ah, comunque si pronuncia "cipai", quella montagnetta sulla prima "i" non significa niente, vuole solo confonderci le idee.
Dominik invece ha l'accento sulla "o", non è Dominìk (e per questa conoscenza ringrazio Dominics, di un canale su youtube).
Vabbè, con questo ho esaurito le cavolate da scrivere.
Al prossimo capitolo,
Bye Bii!!!

P.S.
In questo capitolo l'influenza dello studio Ghibli si nota parecchio, vero? XD

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