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27. Io credo nell'essere umani (pt.2)

Un triangolo giallo le colorava la parte destra della faccia, tagliandola di netto dalla tempia al mento. La luce irrompeva nell'atrio dalla finestra arcuata alle sue spalle, accostata al portone di legno massello, quello che era stato l'accesso al bagno più osceno dell'intero Nord Europa.

Davanti a lei si snodava una larga scalinata in marmo scuro, troneggiata da un discutibile orologio a pendolo -pacchiano e schifosamente dorato, tipico richiamo al barocco- e un dipinto di cui non riusciva a individuare i visi dei soggetti ritratti. Ai lati della scala, disposti specularmente, c'erano due divani bordeaux coi braccioli e gli schienali in legno di noce. Su entrambi erano stati sistemati dei cuscini ricamati, due a testa.

Qualsiasi cosa fosse successa quando aveva deciso di darsi corda e seguire Testa di cervo pur di non rischiare un collasso tra la folla, non era stata un'azione pensata di sana pianta, ma tutt'altro. Nel mentre il panico e l'alcool si erano mescolati nel suo stomaco, lui si era materializzato tra i flash colorati, a pochi passi dalla dreadlock che le aveva inveito contro. Un bagliore fucsia, l'ennesimo spintone che l'aveva fatta pentire di essersi comportata come una ventenne qualunque, e lui era apparso come per magia, semplicemente.

In automatico, Lór lo aveva seguito. Non si era fatta domande, non ci era riuscita, non le aveva cercate.

Un lato positivo, però, sembrava esserci: se qualche attimo prima aveva avuto il disperato bisogno di accasciarsi sulla bocca del cesso e vomitare pure l'anima, ora riusciva a boccheggiare senza essere sopraffatta dalla nausea.

Ecco, boccheggiare. Innanzitutto si toccò il petto e schiuse le labbra, masticando di proposito una bolla di vuoto. Respirava, sapeva di starlo facendo dall'altra parte, ma la pesantezza della boccata d'aria non c'era; allo stesso modo, avrebbe potuto dire di avere sia braccia che gambe soltanto per sentito dire. C'erano, certo, lei anche, la sua immagine riflessa sul pavimento lucido e la volontà di muoversi glielo confermarono prima ancora di essere divorata dall'ansia. Sapeva tuttavia di appartenersi soltanto per metà.

Era una sensazione sfiancante dal punto di vista mentale e al contempo un qualcosa a cui era già stata sottoposta. Manco si meravigliò a pensare che, con molta probabilità, stava solo sognando... accasciata chissà dove e abbandonata a se stessa nei recessi più oscuri del Prikid - per l'appunto, sull'uscio di quello schifo di latrina. Chissà se qualche stinco di santo si era già degnato a raccoglierla da terra.

Deglutì, o almeno le sembrò di farlo. Si guardò attorno per la seconda volta e la vividezza dei colori le confermò un'ovvietà scontatissima: no, non stava facendo una gita fuori programma nel Litlaus. Niente nastro rosso attorno al polso e nessuna traccia di Ber intenta ad importunare i morti. Era sola.

Una serie di ritocchi regolari le rimbombarono nel petto, bassi e cupi, per un totale di dodici, prodotti dal discutibile orologio. L'attimo seguente una camminata arzilla la costrinse a mettere in moto il cervello per cercare un nascondiglio di fortuna - idea, però, scartata a priori.

Lór sollevò un sopracciglio quando una donna la superò senza neanche degnarla di uno sguardo. Aveva i capelli di un caldo rosso raccolti in uno chignon ordinato, tenuto alto da numerose forcine e avvolto da un nastro lucido. Portava con distinta eleganza una gonna color antracite da cui pendeva un grembiule merlettato sui bordi e il corsetto, stretto attorno al seno generoso, era privo di stecche.

L'inserviente si sporse un poco e sbirciò fuori dalla finestra. Aveva quattro nei sulla guancia, disposti a formare un quadrato, e una spruzzata di lentiggini sulla punta del naso. Nella sua semplicità, pensò Lór, era davvero bella. Peccato che fosse soltanto una domestica, speculazione confermata dal mantale macchiato sul davanti.

Si udì un nitrito vicino. Lóreley si scansò intanto che il portone veniva aperto, finendo sul lato opposto a quello della domestica, e una coppia fece il suo ingresso nella magione.

Lei era minuta, forse un po' troppo esile, ma aveva dalla sua un paio d'occhi marroni, grandi e vivaci, incastrati in un viso tondo. A dispetto del suo accompagnatore, lo stesso che la sorreggeva per un braccio, doveva essere molto giovane - Lór pensò che fosse addirittura più piccola di lei in termini d'età. Nel suo piccolo aveva un che di affascinante, ma in mezzo a una folla non sarebbe risaltata un granché, non come l'uomo al suo fianco.

Era alto, molto alto, con le spalle larghe -la giovane, di sicuro sua moglie, sarebbe potuta arrivargli al mento solo sollevandosi sulle punte- e aveva il viso sbarbato a dovere. I capelli erano di un nero innaturale, corvino, quasi, e tirati all'indietro; l'incarnato, pallido e roseo, faceva da contrasto a due penetranti occhi scuri. Sottili nella forma, le palpebre gli cascavano leggermente all'ingiù, accentuate da un alone violaceo.

Lo sconosciuto incarnava una bellezza fuori al comune, senza ombra di dubbio. Una bellezza malinconica, sentenziò ora che lo guardava meglio, una di quelle che ti strega e non ti lascia più dormire. Che non ti lascia più e basta.

"Dio mio, pensavo non la smettesse più di parlare. Certo che è proprio tremendo. Così tanti giri di parole per un sol finanziamento... per carità. E vorrebbe fare della buona scuola a me? Che imparasse a non balbettare, quanto meno" parlò la padrona di casa, sbuffante - la domestica aveva già raccolto la giacca broccata, di un delizioso verde petrolio. "Discutiamo di affari di un certo s-spessore -grazie, Portia-, signorina Ethel, i soldi non c-crescono mica sugli alberi, gli investimenti fallimentari di suo padre, il buon Albert, dovrebbero comunque suggerirle qualcosa in m-materia... lo detesto!"

"Il vecchio Alexander non vede quel che vedo io..." fece eco lui e si sfilò il lungo giaccone, rimanendo in marsina e camicia. "Non crucciarti per questo, Ethel. Sai anche tu il motivo spicciolo che c'è alla base dei suoi comportamenti" concluse e Portia, alla stessa maniera di un fantasma, si allontanò coi soprabiti sottobraccio.

"Lo infastidisce la mia perspicacia o il fatto che io sappia contare?"

"Ciò che conta è che non osi mancarti di rispetto, con o senza di me nei dintorni".

Ethel gonfiò le guance, molto probabilmente per ingoiare un insulto di troppo, dopodiché s'incamminò verso il corridoio che si apriva sulla sinistra. Lór, ancora sospettosa, si decise a seguirli.

"Davvero non capisce quanto possa essere redditizio questo maledetto progetto? Quanto possa essere utile per la nostra terra, per la nostra gente? Non si ha bisogno di grande arguzia quando c'è di mezzo un buon investimento... perché lo è, il tuo, anche uno stupido riuscirebbe a fiutarlo".

"Ha bisogno di certezze e non lo nego, chiunque ne vorrebbe. La mia posizione può suggerirgliele, ma... sarà dura, credimi".

"È per caso un velato riferimento alle tue origini danesi, Bodvár?"

Lui le spalancò la porta del salotto. Si accomodarono davanti al camino acceso, l'una di fronte all'altro, sprofondando nelle poltroncine color crema. Nel mezzo di entrambi, un vassoio di ceramica e un bollitore ancora fumante.

Bodvár si decise a risponderle solo quando Portia, sempre silenziosa, riempì la prima tazza. "Ethel, è un periodo di religioso cambiamento e a nessuno mai andrebbe di rischiare in affari con un danese. Non in Islanda" le disse e sollevò l'indice e l'anulare. La domestica lasciò cadere due zollette di zucchero nel té bollente. "È un pregiudizio che leggo negli occhi di molti sin da quando sono arrivato qui. Tuttavia le malelingue sono l'ultima cosa che temo: confido che, prima o poi, qualcuno possa accettare di buon grado... con le giuste offerte sotto mano, sia chiaro".

"Non lo tollero, è un'ingiustizia".

"Sei di buon cuore".

"No" lo interruppe e, con un gesto stizzito, agguantò la tazzina damascata. "No, no e ancora no. Possibile che non riescano a vedere oltre?"

"Non dar mai per scontato che il bene per il prossimo sia una virtù desiderata. Tutto gira attorno alla moneta, non allo sviluppo e alla solidarietà".

Nel dirlo, lui aveva contratto la mascella. Dalla sua voce Lór poté carpire una nota di ostinata delusione. Una musicalità triste che aveva già sentito... e che aveva continuato a sentire negli anni, senza mai ascoltarla veramente.

"Bodvár, non sminuire le tue intenzioni" Ethel gli afferrò la mano e la tenne stretta nella sua. Da quella angolazione, Lóreley poté notare le fedi che impreziosivano gli anulari di entrambi. "Io ci credo, io ti credo, e ho deciso di supportarti proprio per questo. Anche mio padre è della stessa idea, proprio perché nulla ti accomuna a uno spilorcio come Alexander. Un ponte sull'Ölfusá è quello che serve, non è una pazzia. Si può fare, è fattibile, e anche tu lo sai".

L'uomo stirò le labbra in un sorriso sottile, oltremodo forzato, in linea con la sua posatezza. Visibile il giusto e spontaneo abbastanza da lasciare intuire l'affetto che nutriva per Ethel.

"Non demorderò" la rassicurò. "Non lo farò, te lo prometto" e si sporse un poco.

Lór non capiva, ma percepiva. La percezione, seppur vicina all'istinto, guida e indirizza, è un dato di fatto, tant'è che chiuse gli occhi quando Bodvár lasciò un bacio sulle nocche di lei.

Come accaduto con Gaël, un moto anomalo la forzò a smettere di guardare, a chiudere gli occhi. I rispettivi due eventi, però, cozzavano inevitabilmente tra loro poiché distanti anni -o addirittura secoli- l'uno dall'altro. La prima volta lo aveva fatto per fuggire via dal senso d'oppressione, ora per... ignorare un formicolio reale nel petto, all'altezza del cuore. Era fastidioso, discontinuo, irritante, forte come una vampata di calore scaturita da una reazione ostile a livello emozionale.

Si trattava d'imbarazzo, nudo e crudo. Stava curiosando in memorie che non le appartenevano, non era giusto e non aveva alcun senso.

Riaprì gli occhi solo quando fu certa di poterlo fare. Un velo di pura calma si era posato attorno a lei. Il fuoco vivo all'interno del camino si era tramutato in brace, rossa e scricchiolante, e le due poltroncine erano adesso vuote. Sulla prima alla sua sinistra, abbandonata sul bracciolo, c'era una vestaglia lilla, debolmente illuminata dalle lampade ad olio. Gli aloni arancioni attorno alle fiammelle illuminavo a piccoli morsi un'oscurità giustificata: fuori dalla magione era calato il buio.

Lóreley si grattò di riflesso una guancia - le mancava il sole, terribilmente. Poi scosse la testa e la volontà di muovere le gambe raggiunse la macchia di essenza in cui si era stata tramutata. Gironzolò a vuoto per il salotto, ancora scombussolata dal radicale cambio di luci e ombre. Urtò col sedere lo spigolo del tavolino -e il dolore non arrivò-, curiosò nella libreria a muro e afferrò un'enciclopedia, il terzo volume di ventisei. Era scritta in islandese. Lo aveva comunque dato per scontato di trovarsi in madrepatria, anche se in un tempo non precisato: la chiacchierata tra i novelli sposi l'aveva capita e recepita; ecco i vantaggi di una lingua che non muta mai.

Con un gesto secco richiuse il tomo quando la porta si aprì cigolando. Stette immobile per diversi secondi, in attesa. Nessuno varcò la soglia e la smania di avere tutto sotto controllo ebbe il sopravvento. Quindi gettò il libro sulla poltrona e, mogia, accettò il silenzioso invito a uscire.

Non appena Lór si affacciò, rimanendo sulle punte per non sporgersi troppo, un nero assoluto e denso la fece raggelare. Si armò di tanto coraggio e con gli occhi si aggrappò all'unica fonte di luce presente, che spezzava la fine del corridoio in due e la incitava a tornare nell'atrio. Così fece. S'incamminò tenendosi le braccia legate al petto, senza però voltarsi mai e accelerando di proposito il passo.

Una volta giunta al cospetto del quadro che raffigurava la coppia, la ragazza guardò l'orologio, rimanendo interdetta: il pendolo non oscillava più e le lancette scandivano un tempo scoordinato e contro natura. Andavano avanti, tornavano indietro di una manciata di ticchettii, avanzavano all'unisono, si fermavano. Era come se fossero state private del loro scopo primario. Quasi giustificò una follia simile, in quanto neanche lei avrebbe potuto considerarsi reale all'interno di quelle reminiscenze, perché era sbagliato anche il solo pensare ci fosse finita per sua volontà.

Perché Bo' la obbligava sempre e forzatamente a guardare?

Si morsicò il labbro. Bocciò l'idea di rimanere a vegetare al piano di sotto e salì le scale a due a due che ancora si abbracciava. Optò per l'andito di destra, evitando, per amor proprio, quello contrapposto, ancora più scuro del precedente.

Conteggiò le porte per tenere a bada l'ansia e spesso tornò sui suoi passi, indecisa sul da farsi. Allora, stremata, provò ad aprirle tutte, una ad una, più di una volta. Intanto che litigava con una maniglia incastrata in una rosetta a forma di bocca di leone, nell'aria vibrò un click, secco come uno sparo.

Una stanza era stata aperta. La seconda a partire dal fondo, collocata sul muro di sinistra, la sua sinistra.

Lóreley ci si fiondò all'interno subito dopo pur di non udire più il tictactactactic. A giudicare dall'infinità di tele abbandonate sotto strati di polvere e lenzuola, quello in cui si trovava doveva essere lo studio di un pittore.

Molte opere, strano il caso, erano state lasciate incompiute. Più nello specifico si trattava di ritratti, paesaggistica e una quantità non meglio identificata di nature morte.

Lóreley, a tal proposito, si avvicinò alla scrivania, l'unico mobile apparentemente pulito e ricoperto di pastelli rossi e verdi. Ne scansò un pugno e recuperò un foglio ingiallito, piegato in quattro.

Sketch preparatori, si disse, e riconobbe all'istante il volto di Bodvár al suo interno, composto da linee grossolane e frettolose in alcuni punti. Poté contare ventidue studi differenti, tutti uguali tra loro. Per ventidue volte era stato ritratto allo stesso modo, sempre a tre quarti e con le orbite bianche, prive di iride.

Sul fondo, proprio sotto uno scarabocchio verde, la firma dell'artista: Ethel.

Forse l'ha dipinto lei il quadro all'entrata.

Sì. Sì, è stata Ethel a dipingerlo.

Un battito di ciglia, un maledetto battito di ciglia e tutto mutò intorno a lei. Come successo durante il sogno delle stelle di carta, ecco che ogni cosa s'infittiva all'improvviso, che i mobili si scioglievano come neve al sole e il buio la stritolava viva.

Lóreley si voltò in direzione della voce che aveva ancora il foglio tra le mani. A parlarle era stato Testa di cervo, ribattezzato Bo' nella sua infanzia e Bodvár prima ancora che lei nascesse. Nemmeno ricordava il perché di quel ridicolo soprannome.

"Non puoi entrarmi nella testa come e quando ti pare" scandì Lór. Ora che poteva parlargli, doveva andare in fondo alla faccenda. Ad ogni costo. "Soprattutto quando sono a una serata evento del sabato. In condizioni precarie".

Era il momento giusto per farlo. L'alcool rende malleabili.

"Il momento giusto? Diavolo, ma sei serio? Molto probabilmente mi avranno già pisciato addosso".

Pochi drammi, sei al sicuro.

"Oh, vero, certo. Sarebbe stato meglio trovarsi dall'altra parte, hai ragione. Lo avrei preferito. Lì sì che sarei stata davvero al sicuro".

Testa di cervo accusò il colpo. - Non sono io la vera minaccia, Lóreley.

Lei cadde preda di una risata nervosa. "Ah, no? Allora spiegami una cosuccia: come hai fatto ad avere il mio capello? Perché Radice te l'ha dato?"

Segreto professionale.

"Segret-cosa? Tu non sei normale!"

Neanche tu. Hai tanti problemi d'autostima.

"Cazzo, da che pulpito. Sei tu il mio problema. Tu non mi fai essere normale" gli disse tutto d'un fiato. "Sei tu che mi entri nella testa e mi fai vedere cose, cose di cui potrei benissimo fare a meno, tipo... ah. Ricordi per caso di un bambino di nome Ían? Così, tanto per sapere".

Ho commesso un errore, non avrei dovuto obbligarti a vedere.

"Per te è stato solo un errore?"

Sono morto da centovent'anni, Lóreley, è già tanto se rammento il mio aspetto da vivo. Quello che ti ho appena mostrato, ad esempio, è l'unico ricordo concreto che mi è rimasto - lui avanzò di un passo e Lór, come se stessero danzando, indietreggiò nello stesso istante. - Quando si è morti non si ha più una reale concezione dell'umanità e presto, molto presto, anche quel frammento svanirà. Ho bisogno di te prima che accada.

"Ma fammi il favore" lo rimproverò. "E non ti avvicinare. Ho bisogno dei miei spazi".

Nell'inclinare il capo di lato, le gemme incolore che gli circondavano il cranio fatto d'osso tintinnarono una volta sola.

Sei arrabbiata?

"Ho la faccia di una persona che non lo è?"

Non ricordo cosa voglia dire essere arrabbiati.

"Anni fa eri tu a fare la scuola a me".

Era importante.

"No, Bo', non lo era per un cazzo!" sbottò Lór. "Non credere di avermi impietosita, ma neanche per sogno: sono piena, piena così, piena delle tue stronzate, delle visioni, della Cerchia, degli incubi, dei ricordi. Piena tanto così, hai capito?" gli urlò contro, curvandosi in avanti e sbracciando come una forsennata. "Vaffanculo a te, a questa casa del cazzo, alla domestica apatica e a me che sto ancora qui ad ascoltarti!"

Ecco, glielo aveva detto -strillato come una bambina capricciosa-. Finalmente. C'era riuscita dopo anni passati a rodersi il fegato in religioso silenzio, a subire inutili disagi sociali, a sentirsi vuota.

Lóreley sapeva che i legami, quelli veri, insidi nell'anima, fatti di odio e amore, non li recidi con un vaffanculo solamente. No, continui a cercarli. Con insistenza, con senso di colpa, involontariamente e con peccato. Lei lo aveva fatto, sapeva al cento per cento di averlo sempre fatto. Subito dopo la morte di Ían, quando sua madre la spediva per intere settimane dai vicini per correre da una parte all'altra dell'Islanda, oppure fino a quel momento, che manco un giorno addietro si era accorta dello strambo rito della sedia accanto a letto.

Perché Bo', per fattori di cui ignorava ogni scopo, era parte del suo essere. Un granello microscopico, eppure il più significativo: quello che la componeva nella sua interezza.

Testa di cervo ancora la fissava -per modo di dire- di sbieco.

Poi, d'improvviso, mentre tornava ritta, le ritorse contro la sua arma mina-rapporti preferita: il parlare senza pensare.

Sì, i tuoi sono dei seri problemi di autostima.

... Continua

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