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18. L'indovinello (pt.2)

Un'increspatura caratteriale. Un problemuccio esistenziale che ben si abbinava alle difficoltà di tutti i giorni che aveva nel relazionarsi, quelle tra i banchi di scuola in primo luogo. Si trattava di un difetto visibile e detestabile, per così dire, più vistoso della gobba sul suo naso: Lóreley Dubois parlava a sproposito e nei momenti meno opportuni. Sempre.

Prima o poi ti si ritorcerà contro, le aveva sbraitato contro Anaïs prima che partisse, come fosse un ultimatum di guerra, l'impulsività non ti porterà da nessuna parte, impara a contare fino a dieci prima di sparare stronzate!, aveva poi aggiunto, tutta rossa in viso e con la mano già sollevata a mezz'aria. Per una volta, dovette ammetterlo, quella montagna di femmina aveva avuto ragione e lo schiaffo mai ricevuto avrebbe potuto correggerle quel defit sociale una volta per tutte. E invece no. Lei se l'era svignata con la coda tra le gambe e il cappotto stretto sotto il braccio, ultimando l'opera con una bella pernacchia sull'uscio di casa. E che pernacchia.

Se avesse saputo dal principio che, un giorno non molto lontano, avrebbe scovato l'esistenza di una setta di pazzi scellerati, visitato una realtà totalmente grigia e sottostato alle cavolate di un albero senziente con la passione per gli indovinelli, c'avrebbe pensato due volte –ma quale, pure cinque– a darla vinta all'istinto. Un secondo punto a suo sfavore da aggiungere alla lista delle cose da non fare in un'altra ipotetica vita.

Il cuore ce lo aveva ancora, nel mondo reale, e per un momento si ritrovò a pensare a quanto forte potesse star battendo, intrappolato nella cassa toracica di un'idiota che aveva preferito dare corda a un eco interiore piuttosto che lasciare fare a chi ne sapeva più di lei.

Un attimo d'esitazione e il sorriso seghettato sul volto di Rót si allargò a dismisura, rapido come una crepa sul muro causata da un terremoto. Un secondo dopo si tuffava in avanti, amalgamandosi perfettamente al pantano ai loro piedi, e rispuntava fuori con un ampio gesto delle braccia.

Ora che ce l'aveva davanti, a meno di un metro da lei, Lór partorì l'idea di non voler morire mai, o quanto meno di non voler soggiornare nel Litlaus fino a tempo debito. Nemmeno per sogno. E mentre stillava mentalmente un elenco di probabili sepolture funebri, tra le quali spiccava in grassetto la preferenza cremazione, un occhietto vispo si materializzò sulla fronte di Rót. Due curve speculari, l'una a ridosso dell'altra, e una pupilla tanto piccola da sembrare la punta di uno spillo apparve nel mezzo.

La risatina che accompagnò la stramba mutazione fu la conferma più temuta fino a quel momento.

La non-battezzata ha vinto! Ha vinto! – esultò il mostro. – Tutto è più semplice quando si ha a che vedere con Rót e le sue radici. Appunto per questo, un patto è un patto: divorerò la maledizione.

Gíta tirò un sospiro di sollievo. "Dio, sembrava non finire più questa tortura..."

Ma prima... Rót vuole il suo compenso. La ciocca di capelli. Radice vuole i capelli che gli sono stati promessi. Ora che c'è il patto, va suggellato.

Bergljót roteò gli occhi pur di non mandarlo a quel paese e a stento avanzò verso di lui. Non appena fu abbastanza vicina sollevò una manciata di capelli, sventolandoli a mo' di trofeo: Rót, però, la ignorò.

"Ecco, prendi i miei. Tutti questi possono bastare?"

Rót si voltò appena, per nulla interessato. – Non i tuoi, Seconda, o meglio, quel che ne rimane. Voglio i suoi. Una ciocca di capelli... biondi. Chissà che sapore hanno. Radice non ne ha mai mangiati, di biondi e di eretici.

"Cosa...?" Lór masticò una manciata di lamenti a mezza bocca. "Io ho solo risposto, non-"

Non ho mai detto che avrei preso i capelli della Seconda e nemmeno quelli dell'uomo. Non ho mai scelto, Rót non l'ha fatto. Tu hai risposto e Radice mangerà i tuoi, è nei patti.

"Sei un bugiardo!" s'intromise Gíta, battendo i piedi. "Cristo, sei un maledetto bugiardo!"

"Faccia di merda, ti ho detto di prendere i miei!"

Radice ha scelto e prenderà i suoi.

Lóreley indietreggiò di un passo, gli occhi incollati all'unica iride che la fissava con ingordigia, e solo allora Ber decise a intervenire. Intervento che fu stroncato sul nascere: si avventò contro il mostro, mirando alle spalle scoperte, ma venne scaraventata via, sfiorata per miracolo da un'artigliata che sarebbe potuta risultarle fatale. Intanto che ruzzolava tra la melma il bastone le scivolò di mano, inabissandosi qualche metro più avanti.

"Ber!"

Le grida di Gíta e Björn la sfiorarono a malapena. Lór arretrò di un paio di passi ancora, l'ombra che troneggiava sulla sua misera figura e la forza di volontà ridotta in poltiglia. Non rispondeva delle sue azioni. Era ipnotizzata dal frenetico zig-zag prodotto dalla pupilla, tanto da seguirne attentamente ogni spostamento: Rót le leggeva dentro, stava scavando a fondo nella carne della sua anima, senza nemmeno preoccuparsi di smembrarla con gli artigli. 

Sezionarla con l'occhio, per lui, doveva essere la cosa più facile del mondo e trovare il suo centro più puro fu un gioco da ragazzi. Quindi la esaminò senza smettere di sorridere. Attraverso le sue memorie ebbe modo di conoscere Marcel, Anaïs, Gaël e Ían. La assaggiò e al tempo stesso ascoltò ciò che la sua essenza aveva da dire, perché Radice aveva capito fin da subito cosa aveva avuto la fortuna di trovare quel martedì, tranne lei. Tranne lei che ancora si ostinava a fare di testa sua e a fuggire dalle sfuriate di sua madre. 

Ber provò a rialzarsi, senza successo. "Non vedo – non vedo niente" borbottò, strofinandosi ogni parte del corpo fino allo sfinimento. La sua faccia era una maschera monocolore. "Cercate il bastone, non vedo niente!"

Nel frattempo il Litlaus si popolava a dismisura, chiazzato qua e là da ombre che avevano una vaga forma umana. Gíta inghiottì una parolaccia, consapevole del fatto che i padroni di casa non parevano aver gradito tutto quel chiasso. Impastò per l'ennesima volta le mani nella fanghiglia, ormai giunta al limite. Björn si divincolava invece verso destra nel tentativo di scampare alla presa di una mano... una delle tante che adesso fuoriuscivano dalla bruma spettrale: una folla placida stava tornando alla vita.

Rót era decisamente a suo agio in quel pandemonio di cui lui stesso ne era l'artefice. Si abbassò fino a poggiarsi sui palmi aperti, cedendo a un'apparente riverenza che aveva del mostruoso. Le corna di cervo non smettevano di crescergli sulla testa, espandendosi verso l'alto come rami spogli. Erano fitte e nere, uguali in tutto e per tutto alla maledizione apparsa sulla schiena di Edith.

I patti vanno avanti, avanti e indietro, e non si fermano mai. Come la vita, come la morte, come il giorno, come la notte. Tutto torna e infine tutto è tornato a Rót, perché era scritto nel cosmo. Ma quando sarai di ritorno tu, bambina, ricorda queste mie parole – la bestia dispiegò un artiglio verso di lei, così affilato da dare i brividi, e tagliò di netto un singolo capello. – Avremo modo di rivederci. Tu che hai il dono e il peso di due anime, sta' attenta... guardati allo specchio e chiediti chi sei.

"Ber, l'ho trovato!"

Ascoltati e ascoltalo.

Bergljót afferrò il manufatto, lanciatole da Björn.

Non patteggiare più, non ce n'è bisogno. I patti sono per chi ha tanto da perdere... ma tu hai già perso.

Prima caldo, poi freddo; un tepore che andava e veniva a intervalli regolari. Lóreley abbassò gli occhi, rintronata: due mani erano aggrappate alla sua avvolta nella garza sporca, in una morsa inconsistente e disperata. Mani di donna, forse, di bambino o di uomo, chi poteva dirlo... non aveva la testa. Fatto stava che qualcuno alle sue spalle era riuscito ad afferrarla.

Tornerai al Litlaus, viva, perché il Litlaus vuole te, da centovent'anni. E finalmente... ci sei.

Uno zampillo, due, tre e lo scricchiolio del legno incastrato nelle orecchie. Un capogiro la sorprese e il sorriso di Rót svanì, lasciando spazio al dolore di un respiro di troppo e ai colori spenti della mansarda, allo scorrere del tempo, alla polvere sulla pelle e alla stabilità delle ossa.

Fu come cadere dalle montagne russe. Lóreley spalancò gli occhi e la forza di gravità la schiacciò verso il basso, costringendola a una rovinosa caduta all'indietro. Istintivamente si portò la mano sana sulla fasciatura, restando supina: il soffitto era reale, il suo respiro anche... il tocco glaciale che tutt'ora sentiva sulla pelle un po' meno.

Sfarfallò le ciglia. Bergljót e Björn la guardavano dall'alto.

"Stai... bene?"

Lei scosse la testa, poi annuì. "Sì, ah... sì. Forse è solo questione d'abitudine..." continuò in un borbottio intanto che il ragazzo si adoperava a tirarla su. "... Credo".

"Mi dispiace" Bergljót si morse il labbro. "Davvero, mi dispiace. Giuro che..."

"Sto bene, tranquilla. Radice non mi ha fatto nulla".

"... Nulla? E la ciocca?"

Un grido attutito dalle pareti, poi un altro, stavolta più graffiato del precedente. Gíta strabuzzò gli occhi chiari e il nome di Edith le morì sulle labbra con un rantolo. L'attimo dopo si fiondò fuori dalla mansarda, il cuore che le batteva all'impazzata e i piedi ancora sporchi di terra.

Seppur desiderasse rimanere stesa a maledirsi su quanto accaduto, Lór si accodò ai rimanenti due nella folle discesa delle scale, nonostante la debilitazione fisica. Tra le ombre del primo piano, ecco far capolino il corpo di Edith, abbandonato su un tappeto persiano accanto alle scale. Piangeva e strillava, la pelle increspata da spasmi terrificanti e le guance striate dalle lacrime. Si feriva la schiena con le unghie rotte, si graffiava affinché potesse acchiappare l'ematoma nero che gliela occupava per intero. Stava impazzendo dal dolore e anche la voce andava e veniva: chissà da quanto tempo stava gridando...

Gíta cercò di afferrarla per le spalle, ma Edith si dimenò un'ultima volta prima di cadere a faccia in avanti.

La più grande sbarrò gli occhi e un affanno morì tra le pieghe del tappeto. Rimase immobile intanto che il bianco latteo tornava a smacchiarle la pelle venata di rosso.

Rót aveva divorato la maledizione, come pattuito.


✖ Nel prossimo capitolo, "Rispettare ciò che è morto":

"L'estrazione sarebbe risultata comunque difficoltosa. Chiedere aiuto a un Auditore è stata la scelta più appetibile per i nostri ranghi".
"Ce n'erano di altre, per caso?"
Bergljót storse il muso. "La meno invasiva richiedeva un cadavere in buono stato, preferibilmente ancora caldo e lontano dal rigor mortis, o la carcassa di un animale nelle stesse condizioni. Giudica tu".
Lóreley ebbe un sussulto. "Un cadavere?" domandò, quasi balbettando.
"Uh-uh. Beh, bisogna pure appiccicarlo a un'esca provvisoria, no?"

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