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Il vento caldo accarezzava la mia pelle, mentre il mio sguardo restava rivolto al tramonto.
Vedere quella sfera immergersi lentamente nell'oceano, dando al cielo un arcobaleno di colori che andavano dall'arancio al viola, annunciando l'arrivo della notte, era uno spettacolo che non avrei mai smesso di guardare o fotografare.
Intenta ad immortalare il momento, che avrebbe fatto compagnia alle altre sue coetanee mi rendo solo dopo che nel mio sfondo c'è una figura incantata come me.
Un uomo, vestiti di nero, con pantaloni eleganti e una camicia con le maniche arrotolate verso l'alto che lasciano intravedere parti di quel che sembra essere un tatuaggio importante. Le sue spalle sono ampie e penso che sia più alto di me, nonostante io sia un metro e ottanta o l'impressione che dovrei alzare il mento per guardarlo negli occhi.
I suoi capelli sono neri, corti, ma alcune ciocche gli cadono davanti, sfuggendo al gel che li tiene dietro.
In mano stringe la giacca, e squadro il suo corpo allenato.
All'università di Harvard, i ragazzi così non mancavano, specie se giocavano nella squadra di football, ma lui era qualcosa di più, sembrava che stesse soffrendo, nonostante la postura rigida.
Volevo guardarlo in viso. Desideravo questo, e quasi mi veniva da ridere.
Era apparso dal nulla, ed era riuscito a rapirmi senza nemmeno parlare.
Quei pochi ragazzi che avevo frequentato, erano mai riusciti a mettermi in questa situazione?
I loro baci erano piacevoli, ma diventavano opprimenti e il loro cercare di più, non aspettando i miei tempi li aveva portati sempre ad allontanarsi da me.
Mentirei se dicessi di aver sofferto. Ho priorità maggiori nella mia vita, che curarmi del lato amoroso.

Avevo scattato e lui si era girato nell'attimo del secondo scatto, anche se con la luce dietro, il viso era uscito ombroso. Stava guardando me?
Sentivo l'imbarazzo salirmi dalla punta dei piedi fino alle mie guance, ma prima che mi travolgesse sullo schermo del mio telefono era uscito un avviso di videochiamata da parte di Taylor.
Salvata mi appresto a rispondere, camminando sulla sabbia per allontanarmi, anche se avevo la sensazione di avere il fuoco sulla schiena.
"Eccoti finalmente, guarda Eleonor." Sorrido, appena vedo la mia sorellina saltare dal divano per correre a prendere il telefono di Taylor. "Meeeeg!"
"Amore mio, come stai?" Sorride mostrandomi la sua dentatura, e l'assenza di un canino. "Sto aspettando la fatina dei denti, ho nascosto il dentino sotto al cuscino, ma lo terrò stretto tra le mani, così potrò sentirla arrivare."  Una piccola peste, che non si smentisce mai. "Davvero? E cosa farai dopo averla presa?" Si arrotola una ciocca dei suoi biondi capelli tra le dita e muove la testa da destra a sinistra. "È un segreto." Gonfio le guance e scoppia a ridere, ricaricandomi le energie. Vivo per questo.
"La nonna come sta?" Taylor appare nel campo visivo.
"Siamo andate a trovarla ieri, le sue condizioni sono stabili per ora, puoi non preoccuparti." La mia vicina , una donna di cinquant'anni, con folti capelli castani, uno sguardo color miele, e la bontà di un angelo. Si prendeva cura di Eleonor quando io non potevo, a causa del lavoro o dello studio.

Dopo la morte dei miei genitori, Nana, mia nonna, si era presa cura di noi, dato che altri parenti ci guardavano come la peste. Ricordo ogni loro singolo sguardo al funerale, mentre tenevo in braccio una Eleonor neonata piangere senza sosta. Le mie lacrime si era esaurite quel giorno, e mi ero ripromessa di essere forte, di non crollare mai più nel dolore, costantemente presente.
Peccato però, che un bel giorno degli strozzini si presentarono alla porta di Nana, dicendo che il figlio aveva con loro un debito di duecentomila dollari, con tanto di interessi. Il mondo mi era crollato di nuovo addosso. Nana aveva dato loro tutto ciò che aveva di valore, ma non bastava. L'avevano picchiata e il mio corpo aveva agito prima della mente. Mi ero frapposta tra loro e gli avevo urlato che avrei finito io di pagare il debito.
Ovviamente per loro era una proposta ridicola, pensando che avrei ceduto il mio corpo, ma non sarei mai caduta così in basso.
Avevo iniziato con piccoli lavori, e ciò che guadagnavo andava direttamente nelle loro mani.
Nel frattempo dovevo prendermi cura di Ele, e studiare, perché mi ero posta un obiettivo, diventare chirurgo.
Quella notte d'autunno, in quella macchina, travolti dal temporale, ricordavo il sangue, la puzza di benzina e la voce di mia madre. Non era morta sul colpo, ma si era spenta lentamente davanti ai miei occhi.
Se i soccorsi fossero arrivati prima lei...
Se mai fossi stata di nuovo in pericolo, o qualcuno che amavo fosse stata ferito, io lo avrei salvato.
Ora Nana doveva essere salvata.
Cancro al seno, secondo stadio. Aveva intenzione di tenermelo nascosto e morire lentamente, io l'avevo costretta a ricoverarsi. Diceva che aveva vissuto abbastanza e che avrebbe lasciato il piccolo appartamento che avevamo a Boston a me, ma io non ero pronta a perdere qualcun altro.
Oltre agli strozzini, dovevo fare fronte anche alle spese ospedaliere. Non era coperta dall'assicurazione, questo era il vero motivo per cui insisteva a lasciar perdere.

"Sono felice di saperlo." Grazie a questa donna, la mia mente era più leggera. "Vedo che a Los Angels il tempo è da Dio" Grazie alle vacanze estive, mi ero potuta allontanare. I lavori part time che avevo a Boston, uno come cameriera, e l'altro come cantante ad un piano bar del vecchio Louis, amico di mia nonna, pagavamo abbastanza bene, ma qui riuscivo per pochi mesi a racimolare qualche extra. Avevo risposto ad un annuncio come donna delle pulizie e per una volta, fortuna ha voluto che la cantante si assentasse e mi ero fatta avanti, svolgendo anche al Luxury Hotel, doppio lavoro.
"Per caso sono tornati?" Sa a chi lo riferisco.
"Si."

Accettare che mio padre avesse il vizio del gioco, era stato difficile, e Pit e Bull, gli strozzini di Will Dorch, capo di un brutto giro di gioco d'azzardo, mi rammendavano sempre del debito.
Ora che ero cresciuta sentivo il loro sguardo viscido sul mio corpo.
Oltre ad essere alta, per il costante movimento avevo un fisico abbastanza asciutto, il seno non molto prorompente, ma nemmeno scarso. Lunghi capelli ondulati castani, una carnagione olivastra e occhi grigi. Dicevano che così ci avrei messo meno, e sarei stata più "appagata" del mio lavoro. Li avevo mandato a farsi fottere ovviamente.

"Gli ho dato i soldi che mi hai fatto arrivare, non hanno detto niente e se ne sono andati" sospiro
"Se tu mi dessi ascolti Megan..."
"Cosa? Sono andata alla polizia più di una volta, nessuno mi ha dato ascolto. Chiedere soldi alla banca è come chiedere a un muto di parlare. C'è la faccio. Non perderò la borsa di studio, provvederò a Ele, mi prenderò cura di mia nonna ed estinguerò questo maledetto debito. Abbi fiducia in me Taylor."
"Ne ho, vorrei solo aiutarti di più"
"Fai già più di quanto chiunque altro abbia fatto per me e te ne sarò eternamente grata." Ha gli occhi lucidi, ma io di certo non mollerò anche se nuoto costantemente contro corrente.
"Ora vado, tra poco devo attaccare al piano bar. Eleonor?" La sua testolina appare in camera, mentre stringe tra le braccia l'orsacchiotto che le avevo comprato per il suo ottavo compleanno. Quando ero fuori casa, dormiva sempre con Teddy, anche se adesso aveva dieci anni.
"Si?"
"Fai la brava, e quando torno ti porto un regalo"
Mi fa un sorriso. "Mi manchi Meg."
"E tu manchi a me, altre sue settimane, finisco qui, e torno da te per riempirti di baci"
"Tanti tanti?"
"Infiniti."
"Allora torna presto" le mando un bacio di camera, saluto anche Taylor e lo schermo diventa nero.
Prendo un profondo respiro. Chiudo gli occhi e lascio che il vento accarezzi il mio viso, scostandomi i capelli indietro, facendo alzare leggermente il leggero abito di cotone che arriva fino al ginocchio.
Mi godo gli ultimi raggi di sole. Prima di fissare il mare, ignorando l'ombra che poco più distante ha seguito i miei movimenti, silenzioso come un ghepardo in attesa della sua preda.

"Megan sei pronta?" Chiudo l'orecchino e mi alzo dalla sedia del piccolo camerino vicino alla sala bar.
Liscio la stoffa dell'abito nero. Semplice, ma con la schiena scoperta. I capelli sono acconciati solo da un lato, e porto un trucco leggero, quei pochi che mi congedo per coprire le occhiaie.
"Arrivo."
Cantare, era la passione della mamma. Ripeteva sempre che era nutrimento per l'anima e le evitava di fare brutti pensieri.
Cantò, anche quel giorno.

Salgo sul palchetto, sotto lo sguardo dei presenti. Persone facoltose, in cerca di relax e svago. Probabilmente il loro unico pensiero la mattina era come spendere soldi. Nulla incontrario con i benestanti, una mia amica lo era, ma la maggior parte di loro...
"Buonasera a tutti, benvenuti al Luxury Hotel. Godetevi il relax, il mare, il sole e un buon cocktail, si consiglia quello della casa."
Il signore che lo accompagna al piano inizia ad accennare ad una melodia, seguito dal sax, dal basso e dalle vocalist.

[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]


Prendo il microfono, chiudo gli occhi e lascio uscire la mia voce sulle note di I say Little prayer, dell'unica Aretha Franklin. La mamma amava le sue canzoni e le cantava continuamente.
Sorrido al pubblico che apprezza la scelta di brano e cerco di guardarli, nonostante le luci frontali. Avere un contatto visivo era essenziale per me, dato che gli occhi erano lo specchio dell'anima.
Alcuni si alzano, i più anziani, dei veri gentiluomini, per chiedere alle loro signore di ballare un lento. Il più vicino a me sussurra qualcosa a sua moglie, che si mette a ridere. Anche i miei genitori erano così e forse avrebbero continuato ad esserlo.
Io con l'amore non andavo molto d'accordo.
Avevo avuto alcune relazioni, ma si erano concluse dopo due settimane. Il tempo di scambiarsi qualche effusione, prima di capire che per loro non c'era spazio nella mia vita, o almeno, ero io che non glielo concedevo. 
Avevo bisogno di sicurezza, qualcuno che capisse ciò che provavo, che accettasse la mia situazione, ma i giovani al giorno d'oggi questo peso sulle spalle evitano di prenderselo.
Cantavo ancora e ancora, fino a quando al bancone, illuminato dalla calda luce delle lampade, mi era sembrato di intravedere una figura familiare.
Sentivo il suo sguardo addosso, ma la distanza mi rendeva difficile riconoscerlo.
La sensazione più strana era che sentivo il cuore battermi più veloce nel petto.
Restava solo da capire se era per eccitazione o paura.

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