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Capitolo 1 - Burrascosi Inizi

Jean camminava lentamente lungo la stretta viuzza che aveva deciso di percorrere, con il viso basso e le mani strette davanti alla bocca, cercando inutilmente di generare un po' di calore per scaldarle. C'era davvero freddo quella sera, avrebbe dovuto portarsi dei guanti.

Rifugiò il viso nella sciarpa rossa che indossava, chiedendosi per l'ennesima volta perché avesse deciso di indossare proprio quella. Era morbida, e profumava di pulito. Era un profumo dolce ma deciso, che ricordava quello degli alberi. Era l'odore della persona che gli aveva regalato quella sciarpa.

Gli alberi nei dintorni erano tutti salici, afflosciati verso il basso come se la loro disperazione e la loro solitudine stessero trasudando dalla corteccia e dalle foglie stesse, facendone partecipe il mondo esterno.

"Si chiamano salici piangenti proprio perché hanno questa forma, idiota", si rimbrottò mentalmente. "Sono solo normalissimi alberi, non provano gioia, tristezza o solitudine."

Jean continuava a camminare, seguito dal suono delle foglie secche che scricchiolavano al contatto con i suoi scarponi. Ad alcuni avrebbe dato fastidio, ma a lui no. Lo scricchiolio gli teneva compagnia, forse perché gli faceva notare di non essere solo al mondo. In quel posto sperduto e solitario aveva bisogno che qualcuno glielo ricordasse.

Era quasi arrivato, intravedeva la figura tanto cercata in lontananza. Jean accellerò, sentendo improvvisamente un tiepido calore farsi strada nel suo petto. Forse era stata una buona idea andare lì, forse si sarebbe sentito meglio.

Stava correndo ora, ma all'improvviso la figura si fece più distinta, meno vaga, e il calore nel suo petto scomparve del tutto, lasciando il posto a un freddo cadaverico e alla sensazione che quel calore non ci fosse mai stato.

Jean era solo, completamente solo, lo sapeva bene, ma iniziava a sentirsi osservato, mentre rallentava fino a fermarsi.

Il rumore delle foglie secche che si sbriciolavano non gli sembrava più un conforto. Sembravano urla.

«Guardaci», sembravano urlargli pian piano che lui le calpestava. «Perché tu sei vivo e noi no

Il posto era sgombro, non si vedeva muoversi un'anima viva. Persino gli animali sembravano essersi pietrificati. L'aria della sera era pungente, e gli faceva pizzicare terribilmente il naso.

Le lacrime agli angoli dei suoi occhi erano dovute al freddo, soltanto al freddo.

«Dicci, perché tu e noi no?». Ora anche i salici lo fissavano, incolpandolo. «Perché sei vivo? Qual è il tuo scopo?»

Jean si guardò intorno. Fino a poco prima sentiva il dolce canto di un merlo accompagnarlo in quella passeggiata, ma ora il silenzio era assoluto. Forse se non si fosse mosso...

All'improvviso udì uno scricchiolio. Sporse il busto verso destra, per cercare la fonte del rumore e capire se la sua immaginazione non gli stesse giocando brutti scherzi, ma perse l'equilibrio in una radice che spuntava dal terreno e quasi cadde. Dovette spostare repentinamente il piede per evitare la caduta, e fu allora che le foglie e i salici ripresero a gridare. «Diccelo, diccelo

Jean tornò indietro da dove era venuto, iniziando a correre dalla parte opposta a quella dove aveva voluto recarsi quella sera. Era stato un folle a pensare di riuscire ad andare , in quel posto dove lui non avrebbe mai potuto mettere piede.

«Cosa fai qui? Cosa vuoicontinuavano ad urlare in coro le foglie che calpestava e quelle dei salici che frusciavano al contatto con il vento che aveva iniziato ad alzarsi. Il vento stesso ora gridava, sibilando. Si stava formando, era un'orchestra completa, un coro di voci che, coordinate, innalzavano il loro polifonico canto.

«Non puoi venire qua! È tutta colpa tua

«Non è verogridò Jean, tappandosi le orecchie con le mani mentre correva. «Non è così

«E allora dicci...» urlavano le foglie.

«...dicci!», gridavano i salici.

«Se non è colpa tua, perché sei sologli sibilò il vento all'orecchio, beffardo.

Le tre voci infine si unirono in una, proprio mentre Jean stava per svoltare l'angolo che l'avrebbe portato fuori da . «Perché tu sei vivo e io no

«Non è colpa mia...», ripeteva Jean sussurrando, continuando a correre via come un fulmine, con il viso basso. «Non è colpa mia...» sussurrò, fino a quando non arrivò a casa, salì le scale e la negazione si trasformò in un'affermazione.

***

Jean scese a perdifiato le scale di casa, rischiando di rompersi l'osso del collo. Era il primo giorno di scuola, e lui rischiava di arrivare in ritardo.

«Stai più attento mentre scendi le scale, potresti farti male!» lo rimproverò sua madre, una donna grassottella ma con il viso dolce, che in quel momento era impegnata ad armeggiare in cucina. Sapeva che sua madre era solo preoccupata per lui, ma Jean non riusciva proprio a sopportare lei e le sue continue attenzioni. Lo mettevano in estremo imbarazzo.

Attraversò la piccola cucina rapidamente, schivando sua madre che aveva tanto l'aria di volerlo sobissare di attenzioni, e agguantò il sacchetto per il pranzo. Veloce come un fulmine, si diresse verso la salvezza, costituita dalla porta di casa.

Jean sospirò, proprio mentre sua madre gli gridava: «dovresti fare colazione!», e chiuse velocemente la porta dietro di sé, attutendo i rumori che provenivano da casa sua.

A volte si sentiva come in uno di quei videogiochi in cui il protagonista doveva schivare nemici fin dall'inizio, se voleva giungere alla tanto agognata destinazione.

Jean si incamminò, ma subito dopo alzò gli occhi al cielo. Aveva dimenticato lo zaino. Dandosi dello stupido, silenziosamente riaprì la porta di casa, cercando di non farsi scoprire, ma trovò lo zaino poggiato proprio lì accanto. Era una cosa strana, era praticamente certo di non averlo lasciato lì il giorno prima.

Sentendo un rumore provenire dal salotto, rimandò a dopo ulteriori spiegazioni e afferrò prontamente lo zainetto, con l'intenzione di andarsene da lì il più velocemente possibile. Qualcosa però lo bloccò proprio mentre stava per chiudere la porta d'ingresso.

I rumori che sentiva erano singhiozzi, per la precisione quelli di sua madre. Stava piangendo.

Jean abbassò il viso, chiudendo la porta. «Ho diciassette anni, non sono più un bambino», borbottò, giustificando il suo comportamento.

"Questo ti autorizza a trattarla male?", gli chiese una vocina nella sua testa.

Jean non rispose alla domanda, non aveva niente da dire. Si mise lo zaino sulle spalle e iniziò a correre, diretto verso quello che sapeva essere il suo destino.

***

Erano passati tre anni dalla morte del padre e due da quando lui e sua madre avevano deciso di trasferirsi. Ora abitavano nel Distretto di Trost, nell'isola di Paradise, acquisita cento anni prima dal multimiliardario Reiss allo scopo di riunire i cosiddetti “Giganti”, quelle che si dicevano essere le migliori risorse del mondo, e contribuire allo sviluppo tecnologico e militare.

Jean non sapeva se i Giganti esistessero o meno, ma non gli importava più di tanto.

Il padre di Jean era un tecnico, e sebbene non fosse assolutamente uno di quei Giganti, era stato considerato idoneo alla cittadinanza. Non era necessario essere qualcuno di troppo geniale: bastava eccellere nel proprio campo lavorativo, e se questo era ciò di cui la collettività necessitava in quel momento, allora sarebbe stato abbastanza semplice riuscire a passare le prove.

Suo padre aveva infatti passato le selezioni che si tenevano annualmente per poter entrare nell'isola come abitante. Per la famiglia, che versava in una terribile situazione economica, era stata una manna dal cielo.

Tutti coloro che passavano le selezioni, grandi o piccini che fossero, potevano poi stabilirsi con la propria famiglia nell'unica città dell'isola, che garantiva protezione e alloggio gratuitamente. L'unico pagamento era contribuire con le proprie abilità al miglioramento della città.

Oltre alle tasse, sia chiaro. Quelle non mancavano mai.

C'era da dire però, che solo i ricchi godevano appieno di tutti gli agi e servizi che offriva Paradise, in quanto diretti discendenti dei primissimi abitanti. Per loro non era necessario fare alcuna selezione, rientravano di diritto come cittadini, andando contro l'ordinamento di Reiss, soprannominato il Primo Re, che voleva che in città almeno un membro di ogni nucleo familiare si desse da fare attivamente per raggiungere lo scopo ultimo di quell'enorme progetto, il Perfezionamento.

Ormai però non era così per tutti, le classi sociali più abbienti poltrivano beatamente servite e riverite da quelle di rango inferiore.

In ogni caso, dopo che il padre di Jean era morto, la madre aveva disperato dal potersi trasferire a Paradise, e già si era rassegnata allo sfratto. Jean aveva tentato il tutto per tutto, e aveva fatto domanda per entrare nella scuola più prestigiosa della città. Straordinariamente, dopo alcuni test, era stato ammesso alla sezione speciale, il 104° Corso di Addestramento Reclute.

Non era proprio quello in cui Jean aveva sperato, dato che la sezione era sperimentale e un fallimento da parte sua avrebbe comportato l'espulsione dalla città, ma almeno era qualcosa.

L'anno precedente la sezione non era ancora stata riaperta, dunque Jean aveva frequentato eccezionalmente la Mitras High School come un alunno normale, ma quell'anno era diverso, la sezione riapriva. Francamente non sapeva che aspettarsi da quella sezione speciale, ma a quanto aveva intuito vi entravano a far parte solo i ragazzi che provenivano dall'esterno.

Aggrappato a uno dei manubri della metropolitana con le cuffiette nelle orecchie, Jean sospirò. Non si era fatto nessun amico tra i suoi vecchi compagni di classe, a malapena ricordava i loro nomi.

Ricordava solo che erano tutti dei grandi ipocriti, e sentiva ancora chiaramente il disgusto che provava nei loro confronti. Del resto, la Mitras High School era una scuola per ricchi, che altro avrebbe dovuto aspettarsi?

Per tutto il tempo che aveva passato in quella scuola si era sentito come un pesce fuor d'acqua, ma del resto non c'era nulla da fare. Mentre aspettavano che la sezione riaprisse il nuovo preside, la cui identità era sconosciuta, aveva predisposto che anche gli alunni della sezione speciale venissero riconosciuti come veri allievi della Mitras, e dunque nell'attesa dovessero frequentare normalmente le lezioni.

Mentre Jean ascoltava la musica, completamente perso nei suoi pensieri, avvertì con la coda dell'occhio un movimento strano dietro di lui. Si voltò, appena in tempo per vedere due ragazzi — un energumeno e una biondina — allontanarsi da un terzo ragazzo, che a causa della spallata dell'energumeno era caduto per terra. Il suo zaino si era aperto, e tutte le sue cose si erano sparpagliate sul pavimento.

Tutti guardavano il ragazzo affrettarsi imbarazzato a rimettere le sue cose dentro lo zaino, ma nessuno pareva intenzionato ad aiutarlo. Quando allungò la mano per prendere un libro che era scivolato vicino a due ragazze e quelle lo spostarono via con un calcio, iniziando a ridere di lui, Jean decise che ne aveva abbastanza.

Guardò male le due tipe, che al suo sguardo imperioso smisero di ridacchiare per iniziare a torcersi i capelli, nervose, poi si chinò e raccolse il libro. Il ragazzo lo guardava stralunato, con gli occhi spalancati. Teneva la faccia bassa, imbarazzato, ma Jean riuscì comunque a notare delle lentiggini sul suo viso.

«Tieni», gli disse, porgendogli il libro che aveva appena raccolto.

Il ragazzo era titubante, e sembrava aspettarsi qualcosa da parte di Jean, come se pensasse che volesse giocargli qualche scherzo. Si guardò intorno, poi decise che forse voleva solo aiutarlo.

«Guarda che non mordo» sbuffò Jean, con il solito tono menefreghista.

«G-grazie» balbettò il ragazzo, prendendo il libro da Jean. Inavvertitamente le loro mani si sfiorarono, e Jean percepì la mano del ragazzo tremare.

Consapevole di essersi tradito, il ragazzo ritirò la mano, ficcò il libro nello zaino e si rialzò in un istante, seguito da Jean che lo fissava incuriosito. Il ragazzo nascose le mani nelle tasche della felpa, abbassando gli occhi.

Non sapeva bene il perché, ma Jean sentì un tuffo al cuore. Gli faceva tenerezza. Durò solo per un attimo, ma pensò che avrebbe voluto far cessare quel flebile, mal nascosto tremolio.

Poi le porte del treno si aprirono, Jean si voltò un istante, distratto, e quando si girò verso il ragazzo la sua presenza era sparita, nascosta dal fiume di persone che entravano e uscivano dal vagone.

*Angolo autrice*
Salve, inizio subito col dire che so che per chi mi segue da tanto tempo sarà stato un vero e proprio shock: "Ma come, Emily che scrive una fanfiction?"
Ebbene , ho scritto una fanfiction. Giunge inaspettato pure a me ò

Dovete sapere che questo progetto nasce come piccolo regalo per una persona speciale, una mia cara amica, fan dell'Attacco dei Giganti, e io, seguendo attivamente il manga e la serie animata di Shingeki no Kyojin (Attack on Titan) da un bel po', ormai, ed essendone fan da tanto, troppo tempo (Hajime Isayama, so che mi odi ò.ó) mi sono detta: perché no?

Beh, all'inizio volevo creare una canonverse, ovvero una fanfiction ambientata nello stesso mondo del manga con piccole differenze, ma qualcuno mi ha convinta a creare qualcosa di completamente nuovo. Io ho accettato la sfida.

Dato che conoscete il mio gusto per le sfide, ovvero quello di creare libri e storie che facciano rivedere gli stereotipi su certi generi di libri, come i fantasy, che in Italia non sono considerati quasi nemmeno un genere, o le storie romantiche, che sono quasi sempre scritte male o le copie le une delle altre, immaginerete che questa volta io voglia scrivere una bella fanfiction, dato che queste, se scritte bene, si contano praticamente sulle dita di una sola mano.

Non sarà facile, io stessa non mi ritengo così brava, ma proprio per niente xD, eppure voglio provarci ugualmente.

Inoltre, alcuni si sarebbero aspettati che avrei scritto la storia dal punto di vista dei miei personaggi preferiti, come Eren, o Levi, ma non sarò così banale :3

Duuunque, sarà tutto scritto dal punto di vista di Jean Kirschtein (che ammetto, dopo aver letto il manga tre volte e visto l'anime quattro) ho rivalutato pienamente, insieme al personaggio che tutti voi conoscete e per cui vi disperate. , sto parlando di Marco Bodt, un bel personaggio che, se proprio doveva morire, avrei voluto fosse stato messo più in rilievo in precedenza.

E dire che la prima volta che ho visto l'anime neanche mi ricordavo chi fosse, quando l'hanno fatto vedere morto ò.ó

In ogni caso, loro due sono anche i personaggi preferiti dell'amica a cui dedico questa fanfiction, dunque spero tanto di non combinare disastri xD
Sappiate solo che eviterò stravolgimenti nei caratteri dei personaggi, perché se sono stati pensati in quel modo, un motivo c'è, e cambiarne anche solo minimamente il carattere li renderebbe automaticamente altre persone.

Spero abbiate capito quel che voglio dire, perché a momenti non lo capisco neppure io ò

Dopo questo discorso luuuungo e serioso, saluto la mia amica (che vuole restare anonima @-@, uffaccia a lei) e TheHadesDaughter che mi è sempre estremamente vicina.

E niente, spero che questa storia vi piaccia! Io ce la metterò tutta :D
Gli aggiornamenti saranno settimanali u.u

Allons-y, Alonzo! *si butta dentro il vortice del Tempo*

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