R - Dottoressa vodka
Pubblicato il 9/07/2022
IV
Me lo scollai di dosso e lui fece lo stesso. Ancora un po' rosso in viso si alzò e prese dalla tasca della giacca, che aveva lasciato sul piano colazione, una pergamena e porgendomela riprese: « Sono qui per questa. Volevo dartela prima di morire, ma l'hai rifiutata. Credevo che barattare la mia inutile vita per la protezione di Margaret fosse il gesto più responsabile che potessi fare. Uno scambio equo: il mio clan ti protegge se il tuo protegge Margaret. »
Come suo solito fare, ci tenne a ricalcare la distanza che c'era tra noi e attese una mia risposta. Avevo tra le mani un protettorato tra due capoclan: Carlisle Cullen e Leonard Winslear. Io e Margaret eravamo merce di scambio.
Come ci si sente a essere un oggetto? Male. Merda.
« Perché? » domandai intontita rigirando tra le dita quel pezzo di carta consunto.
« Nel corso dell'Iniziazion, i primi a essere presi sono i clan delle prede, in modo tale che queste restino senza protezione. »
Ed ecco perché i miei genitori vennero portati subito via... ecco perché Nahuel, rimasto senza protezione, fu la prima preda.
« Era tutto pianificato? Il protettorato, il ballo per distrarmi e poi la fuga... »
« Non del tutto. Sarebbe andato tutto secondo le visioni di Alice se non mi avessi seguito. »
« Cosa dovrei farmene? » gliela lanciai addosso, lui la afferrò e si liberò di quel peso che teneva per sè da qualche mese a questa parte: « Quello che vuoi. La scelta è tua. In questa vita non voglio avere rimpianti. »
Quel fottuto bastardo masochista era lì per sé stesso. Nessun senso di colpa, nessun "mi dispiace". Doveva espiare i suoi peccati e io ero stata un suo peccato di gola.
Ricambiai quell'indifferenza, decidendo segretamente che l'unica cosa di cui mi sarebbe importato sarebbe stato di non aver ucciso nessuno, di non aver sbagliato.
Per la prima volta nella mia vita, non avevo commesso alcun errore. Eppure provavo ancora quell'insicurezza, quell'ansia che aleggiava attorno al mio presunto errore.
Mi spostai verso il lavello per bere. Lasciai scorrere l'acqua sull'acciaio e mi paralizzai davanti al mio riflesso: guance scavate, occhiaie e capelli arruffati.
« Hai una brutta cera. Non avevo mai visto nessuno trascurarsi con così tanta tenacia. »
Si mise anche lui a guardare il mio stesso riflesso malaticcio, poi però ci versò sopra qualcosa. Pensai acqua - sperai in quella - e invece stava buttando via il mio anestetico emotivo.
Addio anestesia.
Mi schivò e andò dritto verso il mini frigorifero accanto al piano cottura per sbirciare tra le mie scorte.
« Quanto alcol bevi, dottoressa Cullen? »
Non mi meravigliai che quel mini frigo assomigliasse di più a un minibar. Ma di ciò che Leonard si era arrogato il diritto di fare con il suo contenuto. Lo stava svuotando per intero. Liquori, superalcolici e snack, dritti nella pattumiera.
« Non sono affari tuoi. Vattene! » asciugai le ultime lacrime e mi parai davanti a ciò che riteneva spazzatura.
« ... uh del vino rosso in frigo? Che insulto. » disse disgustato spiando la mia refurtiva.
« Leonard, vattene! »
« Vorrei, ma le circostanze mi costringono a restare. Almeno finché non sei sobria. » e spostandomi afferrò una bottiglia, ne assaggiò il contenuto e lo sputò nel lavabo disgustato: « Vodka alla frutta... è dolcissima. Come fa a piacerti una roba simile? È nauseante. »
Spazientita, mi arresi. Lo lasciai curiosare nella mia dispensa per tenerlo occupato. Andai al bagno per lavarmi il viso e riacquistare un aspetto normale.
Sapevo che non avrei avuto modo di dissuaderlo. Ero troppo stanca per cacciarlo via e troppo agitata per pensare a qualche alternativa valida.
« Quando vai via chiudi la porta. » dissi sbattendo la porta del bagno.
Non potevo ancora credere ai miei occhi.
Stavo parlando con un mezzosangue.
Ci avevo visto giusto, la mia intuizione era corretta. I mezzosangue erano umani: vulnerabili e guaribili seppure immortali. Io ero stata la prima a venirne a capo.
Mi guardai allo specchio e mi vidi in uno stato pietoso. La felpa sporca con la manica macchiata di ketchup da due settimane e i pantaloni della tuta che avevano avuto un destino simile. I capelli erano così disordinati che appena ci infilai una mano dentro, rimase incastrata e poi... gli occhi rossi, lucidi e spenti, ipnotizzati dall'abbozzo di donna che avevo davanti.
Ero magra come un chiodo e me ne ero appena accorta.
Tolsi la maglia e segui le clavicole sporgenti. Mi voltai e scoprii di poter studiare addirittura i margini delle vertebre e delle sorelle costole.
Ero pietosa, vomitevole... tanto che trattenni un conato di vomito dato dalla mia immagine.
Non avrei dato a quel narcisista dalla battuta pronta la soddisfazione di vedermi in quello stato.
Strofinai con forza il viso, il collo, le braccia e raccattai dal cesto della biancheria qualcosa di più pulito di una felpa sudicia: una t-shirt scolorita e un jeans strappato.
Avevo tutto sotto controllo. Sarebbe andato tutto bene adesso. Leonard si sarebbe stancato di commentare la mia cantina di pseudo-vini, sarebbe uscito da quella dannata porta e io avrei potuto riprendere la mia grigia routine.
Uno squillo.
E pensai ingenuamente che non avrebbe mai risposto al telefono. Era un alcolizzato. Era ovvio che mettesse le mani nel mio frigo, ma non era un impiccione.
Due squilli.
Almeno non lo era mai stato fino ad ora.
« Io e mia moglie non possiamo rispondere al telefono, ma se lasciate nome e numero vi richiameremo non appena avremo finito... oh... dottoressa Girard. »
Candy? Candy! Merda.
Mi precipitai fuori dal bagno lanciandomi verso Leonard per acciuffare il telefono. Lui si sottrasse alla mia presa mentre con una mano faceva roteare la catenella del suo orologio con l'altra reggeva il mio cellulare per ascoltare meglio.
« Riattacca! Non ci sono. » gli bisbigliai facendo qualsiasi gesto che gli facesse intendere intendere che riagganciare era la scelta migliore.
« Sì sono il marito. Mi dica... vuole rimandare la seduta di venerdì a domattina? Okay. A che ora?... mi libero volentieri. Sì. Capisco cosa intende, potrebbe esserle utile... »
« Leonard, ti prego. Non intrometterti! »
« Non le ha parlato di me? Strano, lei parla sempre di me. Sono il suo unico pensiero... alors ça va sans dire, dottoressa Girard. A presto. »
Riattaccò e mi chiese stralunato: « Vai da uno strizzacervelli? Sei proprio matta. »
« Cosa hai fatto?! Ti avevo detto di non rispondere! »
« Ormai ho risposto. Quel che è fatto, è fatto. »
Si ostinò a ignorarmi e a continuare a frugare tra i cassetti della cucina in cerca di qualcosa: un grande sacco nero. L'intento? Gettar via qualche formaggio ammuffito, frutta marcia e i miei anestetici emotivi superstiti dalla prima razzia avviata da Leonard.
Cazzo... mi stava sfuggendo di mano. Quella era violazione di domicilio con l'aggravante di pulizia coatta!
« Ehi! Adesso è troppo. Va via! » mi parai davanti a lui per sottrargli il bottino.
« Adesso è troppo? Dovrei dirlo io. Ancora con il digiuno volontario? » disse guardandomi con aria interrogativa, come se quella strana fossi io.
« Non sono andata a fare la spesa! Va bene? Puoi andartene? »
« Lo facevi anche a Forks. Lo fai ancora per il tuo lupo? Oppure hai cambiato destinatario? È un modo per esprimere il tuo affetto? »
« Chi ti credi di essere? Tu non ne sai niente del mio lupo e del mio corpo! Non ti sopporto... sei peggio di prima, sei più stronzo di prima! Vattene! »
Era lui quello strano! Quello che si era intrufolato di nascosto in casa mia dandomi il lieto annuncio della sua nuova vita, incasinandomi ancora di più di quanto già non fossi.
E ormai spintonarlo mi veniva naturale. Ero troppo nervosa, il mio tono era stridulo anche per me. Mi squadrò dalla testa ai piedi per qualche secondo finché non fece cenno di no con la testa e riprese la sua mansione: ripulirmi casa.
« Ti senti in colpa? Bene, ti perdono. »
« Noi due abbiamo una questione in sospeso. Sono in debito. »
Più mi avvicinavo, più mi schivava. Direzionò la sua attenzione su qualcos'altro: la libreria in noce accanto al letto. Come se nulla fosse, si mise a sfogliare curiosamente i miei libri e appunti.
Figuriamoci se aveva bisogno del mio perdono. Era lì difronte a me solo per appagare il suo ego, per non avere rimpianti che rovinassero la sua nuova vita.
« Debito assolto, sei libero! »
« Credi davvero di riuscire a cacciarmi via? Sei proprio stupida, lo sai? »
« Questa è casa mia, è la mia vita. Non sono affari tuoi. Non lo erano prima e non lo saranno adesso! »
« La tua vita non era così prima di Volterra. Guarda come ti sei ridotta. »
Non sbagliava, ma non aveva alcun diritto di decidere per me. Lo avevano già fatto Carlisle e Sebastian per entrambi e tentare di fare lo stesso con me... no!
Non poteva farlo, non glielo avrei permesso.
Doveva andarsene via da casa mia e dopo essersene andato avrei potuto finalmente cambiare aria.
Mi venne in mente di fare le valigie in quell'istante, fuggire, scappare e andar via da tutto e da tutti. In cerca di una nuova casa, di un nuovo Jacob e di un nuovo lavoro.
Mi ero scelta una vita che non faceva per me. Una vita non adatta a una debole mezzosangue e Leonard era solo uno dei miei tanti errori. Un errore per metà russo e per metà inglese con una ottantina di anni di differenza.
« Sono io che mi occupo della mia vita. Non venire qui da me a redimerti della tua vita passata. »
Lo trascinai verso la porta e la sua testardaggine sfidò la mia con un gesto assai semplice: mi prese quel polso. Il polso maledetto dal suo morso, quello da cui aveva bevuto, dal quale era rinato e dal quale rimase ammaliato. Alla luce, il morso d'argento spiccava sulla pelle chiara come un gioiello prezioso. Era come se mi fosse stato cucito addosso, ricamato sull'epidermide di grigio e argento. Pareva una voglia ed era come se quello sfregio ci fosse sempre stato.
« Quella notte volevi morire tanto quanto me. Me lo ricordo... so cosa hai fatto. Puoi darla a bere alla tua strizzacervelli, ma non a me. »
Tenne il polso con sè, gli passò sopra le dita che saltellarono rapide tra le lentiggini e i nei. Ricalcò i contorni delle vene verdognole, ne tratteggiò il decorso risalendo fino all'avambraccio dove i polpastrelli ruvidi arrivarono a destinazione, raggiungendo il marchio che mi aveva impresso.
Tentennò per qualche secondo, poi si inumidì le labbra come per dire qualcosa, ma quando alzò più su la manica, cambiò strategia. Le parole gli morirono sulla sua lingua, davanti ad altri morsi più piccoli, ferite e graffi che mi ero autoinflitta.
Mi aveva scoperto. Avevo provato ad assaggiarmi per capire cosa ci fosse di tanto attraente nel mio sangue da rendermi succulenta anche per un mio simile.
Abbassai lo sguardo, convinta che lui avrebbe fatto lo stesso, che non avrebbe indagato ulteriormente.
« Guardami. »
Era un ordine che mi sembrò una richiesta. Ero al corrente del suo modo di fare: chiedere il permesso per poter eseguire. Ricambiai il suo sguardo senza domandarmi dove volesse andare a parare, perché Leonard era un vecchio e innocuo mezzosangue. Cosa avrebbe potuto fare di male? Terrorizzarmi a morte.
Senza scollarmi gli occhi di dosso, posò le labbra sulla pelle scarificata, accennando lievi baci miti sulle impronte dei denti, sulle cicatrici e sulle escare. Quell'operazione fu intervallata dai suoi brevi sospiri.
Ma in mezzo a quei soffi ci trovai il fuoco e mi ricordai di Jake. Mi scottai e la pelle d'oca lo fece desistere, trasalendo tanto da farlo vergognare per quel gesto: « Perdonami, sono stato... avventato. »
Si grattò le tempie. Si tormentò le labbra con un dito e si ricompose in fretta, cambiando discorso e distraendomi dal mio terrore.
« Hai rovinato la tua pelle madreperla. È un peccato che ti abbia lasciato il segno. » borbottò assorto, analizzando l'avambraccio cercò altre tracce sul sinistro.
« Non sei l'unica ad esserci passata. Tutti quelli della nostra specie ci passano. »
Fece dei risvolti alle maniche del maglione e mi mostrò i suoi, accostando le sue braccia alle mie.
« L'hai notato anche tu vero? Le ferite si rimarginano, i tagli si richiudono, le bruciature svaniscono... gli unici a restare sono i morsi, il veleno. Non sei diversa dagli altri. Non sei più speciale degli altri. »
Mi mostrò gli effetti collaterali di un'eterna mortalità. Sfiorandomi mi fece vedere quello che - senza saperlo - avevo fatto anch'io: i morsi autoinflitti, il tentativo di impiccarsi, l'asfissia... quello di San Gimignano non era stato il primo tentativo, ma l'ultimo di una lunga serie.
« Che ti importa? Sei vivo, stai bene... »
« Ma tu non stai bene. Hai bisogno di aiuto. » disse rimettendomi la manica al suo posto.
« E avere dei consigli da parte di un aspirante suicida dovrebbe fare al caso mio? »
« Dottoressa Vodka, hai bisogno che qualcuno ti aiuti ad aiutarti. »
« Perché quel qualcuno dovresti essere tu? Per il tuo debito? Non ti voglio qui. »
« Preferisci Margaret? Oh... avrei così tanto da raccontarle. Ad esempio, di come la sua stupida amica si sia gettata giù da un dirupo o come si sia approfittata della mia... condizione per lasciarsi dissanguare. Potrei anche spifferare tutto a tuo nonno o ai tuoi genitori... al tuo lupo... »
« Mi stai minacciando? Sei disgustoso. Quello che hai visto... non devi dirlo a nessuno. »
« Questa non è la prima volta che mi ordini cosa fare. » mi suggerì, ricordandomi che era lo stesso ordine che gli avevo dato per riportarmi a casa dopo Jake.
« Anche tu hai fatto lo stesso con me quando si trattava del tuo veleno. Non mi hai permesso di visitarti. »
« Allora, ti faccio una sola domanda e se risponderai sinceramente ti lascerò sciatta e sola, ignorando che sei diventata matta. Perché ti stai facendo questo? »
« Perché me lo merito? »
Rispose con un verso simile a quello di un buzzer: « Risposta errata. »
« Odio il tuo tono di superiorità! Odio questa cosa che credi di sapere tutto quando in realtà non sai niente! Senti, sono stanca di te! Sono stanca di tutto questo... sei tossico come il tuo stesso veleno. Se avessi davvero voluto ripagare il tuo debito, avresti dovuto continuare a fingerti morto! Ti riesce benissimo morire, nasconderti e rovinare la vita degli altri! È tutta colpa tua e del tuo veleno. Tutta colpa tua e del tuo protettorato! »
« Bene. Non sono gradito. »
« Infatti, non lo sei mai stato. » si avvicinò annusandomi per dirmi: « Fatti una doccia, puzzi di alcol e depressione. Ci vediamo domattina dalla tua strizzacervelli. »
« Non è la mia strizzacervelli! È una collega... necessita di una consulenza da parte mia. Appunto per domattina! »
Mentii spudoratamente difronte all'evidenza, un pò come quando zio Emmett dopo aver rotto qualcosa di caro e costoso a nonna Esme.
« Tra le tante cose che non sai fare, oltre al non saperti prendere cura di te stessa, c'è anche il raccontare balle. Dovresti imparare, potrebbe esserti utile per il futuro. » disse estraendo una busta che aveva stampato in maiuscolo e grassetto il mio nome e cognome. Era il il riesame delle mie note disciplinari e me lo sbatté in faccia fiero di aver vinto la partita.
Che nervi! Aveva perfino messo le mani nella mia buca delle lettere. Il mio viso si tinse di imbarazzo e vergogna, due emozioni che Leonard non era in grado di provare.
« Non sei nessuno per giudicarmi. »
« Non ti giudico, potevi almeno usare un nome falso. Principiante. »
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