L - La scoperta dell'America
Pubblicazione 28/08/2022
XVII
Saranno state le suorine, le parole di Suor Mary Jane, i sensi di colpa, il futuro rimprovero di Margaret o il senso della giustizia di Arthur. Qualunque cosa fosse, era bastato per farmi ripensare alle parole di Renesmee, al suo perdono e a quanto fossi meschino d'animo. Le avevo fatto da cicerone senza dirle nulla e l'avevo portata a zonzo senza rivolgerle una parola. Renesmee si fidava di me e, in qualsiasi posto la stessi accompagnando, aveva già accettato qualsiasi cosa avessi intenzione di proporle. Spinto da questo ragionamento, la guidai verso la casa del custode: lì avrei ponderato una decisione che non mi facesse battere i denti.
Non c'era niente di male nell'evitare che le mie chiappe congelassero o che lei diventasse un Freezie - uno di quelli che Abbey divora estate e inverno.
E poi aveva aggiustato l'orologio, era il minimo che potessi fare. Dovevo anche farmi un caffè per essere più oggettivo, restare concentrato e non divagare.
Varcai l'ingresso, pieno zeppo di neve e buoni propositi. Tolsi le scarpe e le lasciai sull'uscio. Lei fece lo stesso, chiudendosi la porta dietro le spalle. Presi il suo cappotto e lo posai con il mio sull'attaccapanni.
« È proprio come lo immaginavo. Anch'io ho dei nascondigli. Sì ne ho più di uno, tu sei stato in uno dei tanti. Nel mio studio a casa di nonno Charlie, ricordi? »
E Renesmee diede il via a una caccia al tesoro fatta di occhiate fugaci e colpetti lievi, esplorando ogni angolo del cottage. Dal letto disfatto ai cuscini sprimacciati, dalla libreria costruita attorno la porta d'ingresso ai manoscritti gettati qua e là, dal giradischi che sfiatava hot jazz da un banjo scordato ai trucioli di matita temperati sul bancone.
Niente poteva essere messo in salvo dalla sua curiosità.
Non avevo voglia di discutere dei miei gusti musicali o del perché avessi disposto un telo sullo specchio - di cui stava valutando la consistenza della stoffa - oppure della sua assenza di furtività.
« I miei nascondigli sono rumorosi, così gli altri non possono sentirmi e di solito c'è qualche odore che mi avvolge. Il tuo invece è silenzioso e sa di te. Tutto parla di te. Non è un buon nascondiglio. »
« Margaret direbbe casa di riposo. È solo un posto come tanti, Renesmee. »
Mi prodigai a spostarle svogliatamente la poltrona di Nubuck davanti al fuoco e stipulammo così un tacito accordo di non belligeranza: lei si sedette davanti al fuoco e io trafficai con i chicchi di caffè, macinandoli a mano per avere l'aroma perfetto.
Sentenziai che le terre a est della penisola in rovere fossero sue, quelle a ovest - la moka, il frigorifero e la cantinetta di vino - mie.
Mentre rimuginavo sulla neutralità dei nostri continenti, lei aveva preso dalla sua valigetta il cellulare ed era sbiancata: aveva una ventina di messaggi in segreteria e una decina di chiamate perse. Ripetè come una filastrocca, « Mamma. Sto bene. » e un rimprovero accorato si fece strada dalla cornetta: « Devi avvisare quando torni, te l'ho detto. Che ore saranno lì? Le due del mattino? »
Origliai e trovai la preoccupazione di Bella più che lecita. Lei era una mezzosangue, da sola, in un'altra nazione con 11 ore di fuso orario. « Lo so... l'ho dimenticato con il silenzioso... sì, come ti dicevo, sono a casa. L'uscita è andata bene. Gli umani non sono poi così male. » e riagganciò in fretta.
Ratificare quel trattato internazionale? Ormai era carta straccia. Mi addentrai in territorio nemico con la mia arma segreta, espresso e grani brasiliani, dritto verso il Nuovo Mondo: l'America, che aveva preso possesso di qualche foglio nascosto tra i braccioli.
« Sei uno scrittore? »
« È una cattiva abitudine, come il fumo o l'alcol. Quando inizi è difficile smettere. » glielo sfilai, appallottolando la carta e mettendola sotto al materasso.
« Il tuo russo è pungente quanto il tuo inglese, canuck? » si lamentò mettendo il broncio.
« Non hai peli sulla lingua, yankee. »
Mi sedetti sul medaglione centrale del Kirman e in segno di pace soddisfai la sua dannata curiosità. Le parlai della nostra piramide: soltanto io e Sebastian potevamo interagire con i cuccioli; Margaret odiava i bambini, Arthur aveva delle difficoltà a gestire la sete.
« E il nome? I bambini non sanno come ti chiami. »
« Meglio non chiedere ai bambini di mantenere un segreto. Se uno dei cuccioli venisse preso e interrogato potrebbe fare il nome del clan Winslear e tutti gli altri sarebbero in pericolo. Conoscono solo il nome delle suore che considerano come madri. Possono vedere il mio volto o quello di Sebastian, dato che siamo stati noi a trovarli e a portarli qui. » sbadigliai senza mettermi la mano davanti la bocca, convinto che mostrarle la mia stanchezza potesse farla demordere. Naturalmente questo, come i precedenti tentativi di persuasione, risultarono fallimentari.
« Perché avete scelto delle suore? »
« Possiamo starcene per un po' in silenzio? »
« Perché? » ripetè, e io, spazientito da quei piccoli spilli di nome "perchè" la minacciai: « Appena ti sento dire un'altra volta la parola perché, giuro che ti carico sulle spalle e ti riporto nel tuo minuscolo monolocale immediatamente. Poi chiudo la porta a chiave, butto la chiave e me ne vado. »
« Ti preferivo da avvelenato. » mi acciuffò per mettermi in disordine i capelli.
« Ehi, dov'è finita la tua timidezza? »
« L'ho dimenticata nel minuscolo monolocale dove avresti voluto rinchiudermi. » scherzò cacciando fuori la lingua.
« Ficcanaso. È scortese intromettersi nelle faccende altrui. »
« Senti chi parla! Ti ricordo che sei stato tu il primo a intromettersi nella mia vita. »
Il suo tono era scocciato e il sorriso furbo. Inaspettatamente, la mia insofferenza l'aveva rasserenata. Il mio fermo proposito - probabilmente meno saldo del previsto - di darle una lezione per essersi impicciata tra me e i cuccioli era andato a farsi benedire!
Masticando l'amara sconfitta, cambiai piano e argomento di conversazione, prendermela con quel bel visino non mi avrebbe portato da nessuna parte.
« Quindi non hai un auto? »
« Non ho la patente. » risi a crepapelle. Era mai possibile che una donna, così ingegnosa da infiltrarsi di soppiatto, non sapesse guidare? A quanto pare sì.
Quando Maggie aveva raggiunto la maggiore età e doveva prendere parte all'attività di famiglia, aveva chiesto più volte a Sebastian di includere i Cullen tra le sue Sentinelle, ma lui non era mai stato d'accordo. A Sebastian non era mai piaciuto chi dava spettacolo di sè e i Cullen erano stati colpevoli di aver mostrato Renesmee ai Volturi.
Dunque, mi ritrovai in bilico tra due scelte: riaccompagnarla a Victoria, pregandola di non farne parola con nessuno, oppure inserire un altro gradino nella nostra piramide. La prima, avrebbe significato porre fine al mio interesse nei suoi confronti e contemporaneamente far incazzare Maggie. La seconda, voleva dire far crescere quel qualcosa, quel misto di attrazione e avversione che c'era tra noi, irritando Sebastian e di nuovo Maggie.
Se dovevo fare incazzare qualcuno, meglio due che uno.
« Domattina ti riaccompagno a casa. Non appena ti sarai riscaldata, andremo allo chalet. » stabilii in fretta.
Renesmee se ne stava seduta in una posizione poco confortevole: era raggomitolata su sè stessa, le ginocchia le facevano da base d'appoggio per la guancia e le sue braccia cingevano le caviglie. La chioma cannella le ricadeva sulle spalle sfiorandole la schiena.
« Grazie. » sussurrò piano e d'improvviso mi tirò per il colletto, trascinandomi come un cane al guinzaglio e posò la sua fronte sul mio capo.
Mi aveva paralizzato incatenandomi a sè. Dopo aver impudentemente immaginato cose profane sulla sua bocca in un luogo sacro, le sue labbra mi accarezzavano i capelli e il suo viso era a pochi centimetri dal mio. Piegai la testa e i nostri sguardi si incontrarono.
Noi ci incontrammo.
Provai l'irrefrenabile impulso di baciarla, incollare le mie labbra su quella parentesi allegra senza il timore di dissanguarla. Avrei sfruttato tutta la mia sfrontatezza per ottenere le sue tenere attenzioni. Se fosse stata Gènevieve, Heidi o qualsiasi altra donna, non avrei esitato. Ma Renesmee era quella da cui avrei voluto un bacio bianco, non un bacio rosso. Un bacio casto, timido, come quello che avevo beccato tra Mei e Xavier.
Stranamente non impallidii ma avvampai. Di lei ne ammiravo l'imprevedibilità e la sagacia. Non c'era qualcosa che avessi previsto nelle sue scelte: rimasi di stucco quando l'avevo vista domare un licantropo imbizzarrito, furioso quando si era lasciata violare e inebetito quando aveva dato del filo da torcere ad Aro. Era questa la ragione per cui decisi di ringraziarla per avermi concesso il suo affetto.
La tirai fuori da quel nascondiglio per scrutare la sua espressione, per ricordare a me stesso che non ero in uno dei miei sogni in cui Renesmee si prendeva cura di me.
« Che posto è questo? »
Un posto difficile da spiegare. Una città vecchia, una landa desolata, un'accozzaglia di rovine fantasma. Con un tocco, che avrei voluto durasse secoli, le raccontai di vampiri di nobile stirpe mossi da un ideale: edificare una casa per tutte quelle sanguisughe disinteressate al sangue umano. Sebastian e altri membri della corona britannica, approfittando dell'imperante colonialismo del diciottesimo secolo, avevano aderito alla spedizione esplorativa dell'Isola di Vancouver. In quella che venne soprannominata Leechtown avevano deposto le fondamenta della comunità vampira della British Columbia. Negli anni, vampiri d'ogni parte del globo si erano uniti alla comunità, tra cui anche Vladimir e Stephan - i predecessori dei Volturi di origine romena. Perfino Carlisle ed Esme avevano abitato tra quelle valli innevate prima di costruire un proprio clan.
Come tutte le città cadute in disgrazia, una guerra aveva devastato quella ridente cittadina: si era riaccesa la faida millenaria tra il clan dei Romeni e i Volturi. Gli italiani avevano vinto e Sebastian era stato uno dei tanti soldati bottino di guerra.
Da quel momento, da uomo d'affari e d'azzardo, Sebastian divenne il più temuto Cacciatore di immortali dell'epoca vittoriana.
Tuttavia, un'incarico, una taglia, aveva stravolto l'avidità di gloria e fama eterna. La ricerca di una creatura contemporaneamente mortale e immortale, delicata e forte, figlia dell'inverno e della primavera. Sebastian si era messo sulle tracce della fanciulla di neve delle fiabe russe. Aspettandosi di trovare un mostro, al suo posto aveva trovato una compagna di vita: mia madre. Al pari di un gioiello prezioso quella donna era diventata il suo pezzo d'inestimabile valore. Egoista e innamorato l'aveva nascosta dai Volturi per decenni, finché lei non lo aveva convinto a smettere di vivere da latitante e a metter su famiglia. La nostra nascita era stato un momento di svolta. Mio padre era stato costretto a viaggiare e a proseguire la caccia per un ideale di giustizia a cui aveva smesso di credere da tanto tempo, intanto che mia madre allevava due gemelli trasferendosi di paese in paese senza sosta.
Negli ultimi anni, Margaret aveva addolcito Anjia che, memore dell'infanzia da orfana e disgustata dalla caccia ai mezzosangue, aveva chiesto alla sua burbera metà di dare rifugio a quelle prede che non avevano scelto di esser tali.
Quel desiderio non potè mai essere esaudito, finquando io e Sebastian non ci accorgemmo che, più passavano gli anni, più mezzosangue venivano alla luce. Allora, perché non rendere il capriccio di Anjia realtà? Perché non sfruttare tutte quelle tecniche apprese da Cacciatori per proteggere quei bambini destinati a morte certa? In fondo, io e lui non avevamo niente da perdere. Lui aveva perso l'amore della sua vita e io avevo perso la mia vita.
« Sei malinconico. » e con dita gelate diresse il mio collo sulla seduta della poltrona.
« Il tuo corpo? Ti fa male da qualche parte? » negai.
Non sentivo nulla ed era la verità. Non c'era esagerazione nelle mie parole. Non percepii il solito prurito alla cicatrice sulla schiena, quando il cotone della maglia si strofinava sulla ferita, o il bruciore di quella al petto.
« Hai più pensato a... » si interruppe, vergognandosi dei suoi stessi pensieri.
Conoscevo la fine di quella frase: Hai più pensato a... toglierti la vita. Ma non la completò e la rassicurai: « Ho pensato ad altro. »
"Ho pensato a te." Se fossi stato impavido lo avrei detto, ma avevo altre doti, come sviare il discorso: « Tu, come stai? »
Fece una pausa, si concentrò sul fuoco e dichiarò con voce sottile mentre mi accarezzava i capelli con attenzione: « Sto meglio. »
Forse avevo fatto qualcosa di utile per lei. Di sicuro lei stava facendo qualcosa per me: mi afferrò la nuca e rimosse con delicatezza un po' di brina, indugiando un po' troppo sui riccioli o sui miei lineamenti.
E una vocina o la mia coscienza mi rincuorò "Te lo sei guadagnato. Te la sei guadagnata, lei. Puoi prenderla, quando vuoi."
Blyad! Non avevo fatto niente per meritare il suo tocco o la sua compagnia. Niente per quell'affetto sincero. Non l'avevo aiutata quel pomeriggio, l'avevo abbandonata lì con il suo lupo, l'avevo quasi uccisa... me ne stavo approfittando. Ero un opportunista.
Sussultai e mi ritrassi quando l'anulare si fermò in prossimità del lobo dell'orecchio. La guardavo dal basso, la mia testa era sul bordo della poltrona e lei premeva le ginocchia appuntite sulle costole.
« Mi dispiace, Leonard. Non te l'ho chiesto. »
Ero prostrato ai suoi piedi, in ginocchio davanti a lei, come se fosse una regina o un esercito vincitore. In me c'era rispetto, onore, resa e sottomissione. Ma questo lei non lo aveva capito. L'avevo spaventata e ne trasse: impertinenza, incuria e disobbedienza.
« Questo... non lo merito, Renesmee. »
« Avvicinati. Non faccio mai il bis. » e mi imitò con dolcezza, senza malizia. E ormai era più che vicina, il suo fiato di cioccolata era sulle mie palpebre.
« Dimmi la verità, perché? » borbottai.
Mise in pausa il suo tocco e domandò: « Mi piace, a te? »
Grugnii qualcosa, una specie di assenso e chiusi gli occhi. Le fronde sbattevano sulle finestre e il suo respiro era lento come quello del vento bianco alle sue spalle.
Mi rilassai, sdraiandomi e liberando la mente da tutto. Fantasticai sull'America, approdai sull'Atlantico e mi accampai sull'isola di San Salvador. Salpai verso il mondo moderno, gli Stati Uniti e mi credetti le Hawaii o il 51° stato.
Ah, come concilia bene il sonno il sogno americano!
Quando li riaprii, volevo renderle omaggio così come le pieghe plissettate della gonna, che mi sembrarono fatte apposta per lei, costruite in onore delle sue gambe. Però lei non mi guardava neanche, ma continuava a sfiorarmi; il suo tocco leggero aveva raggiunto un nuovo traguardo: la fronte, poi un altro e un altro ancora, una svolta alle sopracciglia e uno sprint verso gli zigomi.
Le pupille erano grandi e il focolare ne scuriva le iridi che erano caffè tostato. L'altra mano era alla base del collo, poi sotto il mento. Guardava qualcosa nel carbone, forse le fiamme erano troppo alte o la legna non era sufficiente.
Il dorso della sua mano raggiunse il mio zigomo e le punte delle dita la curva delle labbra.
Non potevo trattenermi. Non potevo stare fermo mentre lei...
« Non dirlo più che non lo meriti. A volte me lo dico anch'io, non fa bene. » e allungò il collo nella mia direzione, inspirando il mio odore e io il suo.
I suoi polpastrelli viaggiavano percorrendo la strada delle vene verdognole, finché non schiacciò l'impronta del morso sul mio collo. Lì, replicai. Provai a essere discreto quanto lei, ma il mio movimento fu rozzo e ne uscì fuori uno strattone. Tra pollice e indice avevo il suo polso e l'argento del morso che le avevo lasciato rifletteva il fuoco del camino.
« Ci siamo guadagnati un po' di calma. Non trovi? »
Mi circondò per abbracciarmi e le alzai le maniche del maglione. Mentalmente contai quanti bocconi avesse dato alla sua pelle lattea dall'ultima volta che l'avevo vista. Sul destro c'era il mio e, a seguire, alcuni più piccoli e bianchi e due grandi e grigi. Il sinistro era quello messo peggio: tre cicatrici secche, rosse e nuove e delle vesciche grigie che aveva provato a grattar via.
Nei morsi era insito qualcosa. Ancora una volta chiamarlo dolore mi sembrò effimero, come se non le dessi la giusta importanza. Lei era vittima e carnefice. Era sangue e veleno. Ed era splendida nella sua oscurità.
Presi quelle braccia tra le mie e rimasi lì a esaminarne il calore e la morbidezza e le sue guance si tinsero di rosso. Instintivamente, domandai ai suoi occhi se potesse concedermi quel gesto. Lei mi scrutò accettando, autorizzandomi a chinarmi e, sollevando garbatamente la sua mano, a sfiorarle il dorso con le labbra. Però, mosso dalla sua approvazione, feci una cosa stupida, una di quelle che mi avrebbe reso difficile starle accanto senza provare nulla: le baciai le bianche nocche.
Infransi tutte le regole del baciamano: tenni il mio sguardo fisso sul suo e desiderai trattenerla a me. Centellinai ogni bacio, ogni lembo di pelle scoperto, ogni taglio e ogni ferita. Lesinai il tempo che mi aveva dedicato perché se me ne avesse dato dell'altro lo avrei sperperato.
Il mio era uno smanioso desiderio che Renesmee scambiò per un'impacciata gratitudine lasciandosi accarezzare docilmente. Mi fece un cenno e scattando in piedi disse: « Fa troppo caldo. »
Aprì le vetrate brinate ed entrò una vampata di Burley.
Fottuto Kentucky, fottuto Sebastian! Era lì, ci stava spiando fumando la sua pipa del cazzo.
« Temo che faremo tardi. Prendi le tue cose. »
E lei rimase stranita e perplessa mentre io avevo già indosso un maglione asciutto.
« Leonard, possiamo restare qui? Un altro po'. Dovrei parlarti. »
« Non qui. »
« Qualsiasi posto va bene. »
« Non ora. »
« Non mi muovo di qui, finché non parliamo! » tuonò tenendo saldi i piedi al pavimento. Le accarezzai la fronte e: "Avrai tutto il mio tempo, fidati. Dobbiamo andare."
Lei approvò e distaccandosi quanto le bastava si sincerò che quella non fosse l'ennesima bugia.
Note:
Freezie: un tipo di ghiaccioli, simili ai nostri polaretti.
Canuck e Yankee sono due soprannomi con valenza dispregiativa che utilizzano rispettivamente gli americani nei confronti dei canadesi e viceversa.
Nubuck: pelle pregiata estratta dalla parte alta dell'animale.
Kirman: tipologia di tappeto persiano.
Burley: tipologia di tabacco di cui il Kentucky assieme al Tennessee è il maggior produttore.
Ispirazione:
Sneguročka, Nevina o Fanciulla di neve: personaggio del folclore russo, presente in fiabe e leggende della trazione. Il primo a parlarne è stato Ostrovskij, considerato dalla critica letteraria lo Shakespeare russo.
Scoperta dell'America: Cristoforo Colombo, 12 ottobre 1492, la prima terra sulla quale approda è San Salvador, Bahamas.
Trattato di Tordesillas, 7 giugno 1494: divise le rotte commerciali extra-europee tra impero spagnolo e portoghese.
"The reason they call it the American Dream is because you have to be asleep to believe it.": "Il motivo per cui lo chiamano il sogno americano è perché devi dormire per crederci". - George Carlin
51° stato: ipotetico stato che doveva essere annesso alla federazione statunitense. Ci sono varie teorie e terre di cui si sia sospettata l'annessione. Tra queste: l'Inghilterra, il Canada, la Groenlandia e anche la Sicilia.
Americanization of California, Dean Cornwell, 1932 (quadro presente come copertina del capitolo)
Flaming June (1895) - Frederic Leighton
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