Oscuro segreto
John rinvenne gemendo, la vista ancora annebbiata: scoprì di essere legato a un palo, di schiena, poco lontano da quello che sembrava essere uno spiazzo di un piccolo villaggio primitivo. Scorse, seppur a stento, delle rudimentali capanne di rami e fango. Oltre alla vista ancora offuscata, infatti, l'intero luogo era immerso nell'oscurità, illuminata a malapena da torce diffuse al centro, le cui fiamme bruciavano spandendo scintille rosse nell'aria.
Si ritrovò a emettere l'ennesimo gemito dolorante: quegli indigeni non erano andati tanto per il sottile...
Ricordava di essere stato assalito da almeno quattro di essi: le loro facce erano tinte di nero, e avevano un aspetto a dir poco inquietante. Ricordò di essersi difeso... almeno, uno degli uomini era di sicuro crollato sotto la sua lama, anche se non era stato per nulla facile parare tutti i colpi, come dimostrava una ferita ancora sanguinante sul braccio. Ma poi aveva sentito uno strano dolore sul fianco... come la puntura di una spina.
Da lì in poi, era stato il buio completo.
Sgranò gli occhi, realizzando che non vedeva nessuno, legato accanto a lui: Mary, Sherlock... dov'erano??
Certo, forse non erano stati catturati... ma ne dubitava.
Iniziò a muovere le dita delle mani e le spalle, nel vano tentativo di sciogliere i nodi: nel farlo, diede uno strattone al palo, che ondeggiò.
-... John?? John sei tu??
A quella voce improvvisa, il biondo provò un indescrivibile sollievo, nonostante tutto; cercò di girare la testa, per quanto possibile, ma non vide nulla: doveva esserci un altro palo, poco dietro il suo, anche se non riusciva a voltarsi per vederlo. Almeno non era solo in quella situazione.
-Mary! Grazie a Dio! Stai bene??
La sentì gemere piano.
-Più o meno... erano in troppi. Sherlock aveva ragione, ci aspettavano. Temo che dividersi non sia poi stata una grande idea...
-L'avevo detto, io!! Nessuno che mi dia mai retta, eh!!-sibilò lui, la voce aspra e carica di sarcasmo.
-... Potremmo riparlarne quando non rischiamo di essere ammazzati, eh?!? O qualunque altra cosa vogliano farci...
John sentì la voce della donna venarsi di paura, e dovette ammettere che era una buona idea; non era il momento per futili recriminazioni. Diede nuovamente uno strattone; ma, per quanti sforzi facesse, i nodi non si scioglievano: anche le caviglie erano legate nel medesimo modo.
Ma, di nuovo, una domanda si ripresentò, imperiosa. Se loro erano lì... dov'era il capitano??
Improvvisamente, lo spiazzo si animò, e giunsero una trentina di indigeni: erano truccati esattamente come prima, ma stavolta portavano anche delle piume sul capo e sulle vesti, e intonavano uno strano canto in una lingua incomprensibile. La luce delle torce illuminava la scena, facendogli assumere un'atmosfera terrificante e ultraterrena.
Iniziarono a disporre delle grosse pietre nel centro, impilandone alcune, approntando quello che sembrava essere un altare. Uno di loro, con indosso una maschera dalle fattezze mostruose, portava tra le mani una lunga scatola di legno rozzamente intagliata.
Strinse gli occhi, confuso da quell'agitazione e quasi assordato da quel continuo battere di tamburi, che si faceva sempre più forte e intenso, tanto da far tremare il terreno, insieme alle parole di quel canto.
Cosa diavolo stanno fa...??
Quel pensiero sparì subito, quando vide quello con la maschera tirare lentamente fuori dalla misteriosa scatola un lungo coltello dalla lama nera, che scintillò appena nell'oscurità.
I suoi occhi si riempirono di terrore, e sentì Mary trattenere il fiato.
Sherlock, dove accidenti sei???
Sarebbe proprio il momento giusto per i tuoi salvataggi dell'ultimo minuto...
John, però, non poteva saperlo, ma il suo capitano si trovava, in quel preciso istante, in una situazione ancora peggiore della loro...
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Sherlock sbatté ripetutamente le palpebre, riprendendo conoscenza con estrema lentezza. Non si stupì di non essere in grado di muoversi: si stupì, invece, del luogo in cui si trovava.
Era in una grotta scura, rischiarata appena da alcune lampade a olio.
Aggrottò la fronte, confuso: era sicuro che lo avrebbero portato dal loro capo, nel villaggio... E poi, dov'erano John e Mary?? Perché li avevano separati??
C'era una sola spiegazione possibile: il loro ignoto capo aveva ricevuto precise istruzioni da James, nel caso lui fosse arrivato sin lì.
Esplorò l'ambiente circostante con lo sguardo ancora annebbiato: scorse la sua giacca nera e il cinturone con la spada - aveva, probabilmente, perso la pistola durante lo scontro con gli indigeni, nella giungla- ammucchiate in un angolo della caverna, poco lontano: aveva indosso solo i pantaloni e la camicia bianca.
Era di certo legato, ma non riusciva a spiegarsi perché sentisse il suo corpo così dolorosamente... tirato. Alzò gli occhi e, subito, ebbe la risposta: era, infatti, appeso ad un anello di ferro inchiodato sul soffito della caverna, per i polsi, imprigionati da pesanti manette di ferro, con le braccia tese al di sopra della testa.
Guardò verso i suoi piedi e notò un altro dettaglio inquietante: anche le sue caviglie erano state ammanettate e, in aggiunta, vi pendevano dei voluminosi pesi di piombo, tirando dolorosamente il suo corpo verso il basso al più piccolo movimento. Avvertì infatti una improvvisa e dolorosa fitta, tanto da fargli stringere i denti.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. Ciò che collegava i suoi polsi all'anello di ferro era una corda, e quest'ultima
si allungava fino a una parete della grotta, tenendolo sospeso. Ma non sul pavimento, come gli era sembrato all'inizio, bensì su un tunnel profondo almeno una trentina di metri, colmo d'acqua: quest'ultima era talmente cristallina da riuscire a vederne, ora che la sua vista era di nuovo nitida, il fondo ricoperto di fine sabbia.
Tutti questi dettagli lo portarono ad un'unica e inevitabile conclusione.
Volevano farlo annegare.
Insieme a questa ovvia conclusione, capì anche subito l'identità del sadico che aveva progettato quella morte apposta per lui.
James era l'unico, infatti, a conoscere quel segreto, che lui era stato così poco accorto da rivelargli.
Il suo più oscuro segreto...
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Aveva un amico, da bambino, molto tempo fa. Aveva i capelli rossi e gli occhi verdi.
Il suo nome era... Victor.
Ed era il suo migliore amico.
Suo fratello, Mycroft, non aveva mai capito il suo desiderio di diventare pirata, un giorno.
Ma Victor sì.
Innumerevoli volte avevano girovagato insieme nel porto, intrufolandosi sulle navi, subissando di domande tutti i marinai che gli capitavano a tiro, sognando il momento in cui avrebbero avuto una nave tutta loro.
Avevano già deciso i loro nomi.
Sherlock sarebbe stato il capitano, e si sarebbe fatto chiamare Barbagialla.
Victor, invece, Barbarossa, e sarebbe stato il primo ufficiale.
Ogni giorno si lanciavano in imprese temerarie: come quella volta che salirono su un mercatile come clandestini, all'insaputa di tutti; ci vollero due giorni, perché i loro genitori li ritrovassero...
O quando vollero provare a bere un barile di rhum che avevano trafugato, e gli venne un gran mal di stomaco...
Ma, un giorno, la loro temerarietà si spinse troppo oltre.
Mentre girovagavano per il porto, come sempre, trovarono una piccola scialuppa abbandonata.
L'occasione era troppo ghiotta per farsela sfuggire!
Pieni d'entusiasmo, presero subito il largo.
Sfortunatamente, una tempesta li colse: tentarono di tornare indietro, ma la corrente li spinse contro gli scogli, scaraventadoli in acqua e frantumando la piccola imbarcazione.
Sherlock riuscì a salvarsi, aggrappato a una delle assi.
Ma Victor non fu così fortunato: per quanto Sherlock lo chiamasse e volgesse lo sguardo nel mare, con le lacrime agli occhi, lui non c'era.
Il suo migliore amico era annegato.
Ed era stata colpa sua.
Lui aveva avuto l'idea di prendere quella scialuppa.
Se non l'avesse fatto, lui sarebbe stato ancora vivo.
Era tutta colpa sua...
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Anche dopo anni, quel ricordo provocava nel capitano un dolore sordo nel petto. Ma, strano a dirsi, il suo sogno di diventare un pirata non era svanito, nonostante quella tragedia. Era riuscito a superare quel trauma, a nasconderlo nei più profondi recessi della sua mente, in un'ala- la più buia- del suo personalissimo Palazzo Mentale.
Una cosa, però, non era mai riuscita a reprimerla del tutto: la paura di annegare. Sembrava illogico, per un pirata: in più, sapeva nuotare benissimo. Tuttavia, avrebbe preferito cento volte morire trafitto da una spada, o da un colpo di pistola, piuttosto che sommerso da un'enorme massa d'acqua.
Ovviamente gli era già capitato di trovarsi sbalzato in acqua dopo una tempesta e costretto a nuotare con tutte le sue forze per salvarsi la vita.
Ma questa volta non avrebbe potuto nemmeno tentare di salvarsi, legato com'era. Moriarty aveva preparato la morte perfetta per lui: l'avrebbe annientato sia nel corpo che nell'anima.
Il capitano, senza volere, si ritrovò a rabbrividire dal dolore e dalla paura, incapace di trovare un modo per sfuggire a quella morte orribile.
Tutte quelle riflessioni vennero interrotte dall'ingresso di un uomo nella caverna. Un individuo abbastanza basso, con i capelli giallo paglierino e il volto butterato, che gli sorrise, mostrando dei denti storti e ingialliti.
-Piacere di conoscerla, Sherlock Holmes. Il mio nome è Culverton Smith... Anche se, in realtà, è già stato mio ospite, qualche anno fa... si ricorda?-disse, la voce stridula e maligna.-Mi avevano avvertito che sarebbe venuto, prima o poi.
Fece un gesto circolare col braccio.
-Ah... Jim Moriarty le manda i suoi saluti. Tutto questo è opera sua. Ha preparato per lei una morte alquanto... inusuale, se posso dire... Sebbene molto creativa.
Il capitano fissò con odio quell'individuo disgustoso, mentre ricordava: l'aveva imprigionato quando lui e John cercavano il medaglione. Poi lo scrutò: non sembrava aveva la chiave, con sè: James doveva averla nascosta altrove... Tentò dunque un bluff, nella segreta speranza che gli sarebbe tornato utile. Se fosse sopravvissuto, beninteso.
- E immagino che lei non sia qui solo per la mia... esecuzione... ma anche per fare la guardia alla chiave.
L'altro agrottò la fronte, chiaramente confuso.
-Non so di cosa lei stia parlando. Mi hanno solo incaricato di assicurarmi che lei sia davvero morto, stavolta. James mi ha detto che lei ha la tendenza a resuscitare...-ridacchiò maligno; ma Sherlock lo ignorò, sentendo, nonostante tutto, un leggero moto di soddisfazione e compiacimento.
Come immaginavo.
Non sa nulla.
Improvvisamente, Culverton tacque, e si portò una mano a coppa vicino all'orecchio: come se cercasse di sentire qualcosa.
Anche lui sentì, in effetti, degli strani rumori in lontananza: sembravano dei tamburi, misti ad uno strano canto.
-Signor Holmes, mi rincresce, ma devo lasciarla un momento: è iniziata la cerimonia. E i suoi amici sono gli ospiti d'onore...-disse, e scoppiò in una risata colma di malvagità.
Sherlock sgranò gli occhi, capendo all'istante.
Quella tribù faceva sacrifici umani.
John.
Mary.
- Osi toccarli e io l'ammazzo!-ringhiò il capitano, negli occhi una furia omicida, dimenandosi inutilmente, parendo quasi, legato a quel modo, un pesce preso all'amo.
Culverton ghignò, per nulla intimorito, e godendo della sua impotenza.
-Non credo che lei sia nella posizione di minacciarmi, mio caro-replicò infatti.
E, subito dopo, si avvicinò alla parete, vicino alla corda: estrasse poi un coltello dalla tasca, tagliandola fin quasi a metà, sotto gli occhi del corvino, che rimase come pietrificato.
-Tra non molto, questa corda si spezzerà, spedendola sul fondo di questo tunnel. Mi chiedo quanto ci metterà ad annegare...-aggiunse Culverton, con pigro interesse.-Le suggerisco di prendere un bel respiro...
E, con un'ultima risata, uscì dalla grotta.
Sherlock rimase perfettamente immobile, gli occhi fissi sull'ultimo appiglio che ancora lo legava alla vita.
Ma la corda, complice i pesi di piombo, si stava logorando sempre di più, e sempre più velocemente.
Il suo ultimo pensiero fu rivolto a John e Mary, che sarebbero certamente morti.
No. Non fu il suo ultimo pensiero.
L'ultimo lo rivolse a Molly.
Sperò che riuscisse a salvarli... Almeno loro...
Una lacrima sottile gli scivolò sul volto e chiuse gli occhi, un attimo prima che la corda cedesse di netto, facendolo precipitare in acqua.
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Buio.
Il capitano non vedeva altro che questo.
Poco importava che l'acqua fosse limpida. Lui non era in grado di vedere alcunché. Il panico lo aveva assalito contro la sua volontà, ottenebrando i suoi sensi.
C'era voluto poco perché i pesi a cui era legato lo mandassero contro il fondale: e ora giaceva lì, immobile, incapace di liberarsi o di provare a riemergere.
Era completamente impotente.
Sentiva solo quell'immensa massa d'acqua premergli ovunque sul volto, soffocandogli il respiro.
D'istinto, all'inizio, si dimenò con forza, cercando inutilmente di risalire in superficie. I pesi alle caviglie, infatti, glielo impedirono. Anche le manette ai polsi non aiutavano, e non riuscì a trovare alcun modo per liberarsene.
Cercò di trattenere il respiro il piú a lungo possibile: ma, dopo poco, si arrese. Le palpebre gli si chiusero, mentre si accasciava sul fondale, privo di forze, ma anche di speranze.
A che scopo fare tutto ciò?
Sarebbe morto comunque.
Nessuno sarebbe venuto a salvarlo.
Nessuno sapeva che era lì.
Nessuno...
-Barbarossa! Dove sei??
Il piccolo Sherlock volge lo sguardo a destra e a sinistra, cercando l'amico, mentre le onde lo trascinano avanti e indietro con violenza, rendendo faticoso reggersi a quel pezzo di legno, povero frammento di quella che, poco prima, era la loro barca.
-Barbarossa?!? Dài, su, non farmi scherzi!!
Ride, Sherlock, ma in realtà già due piccole strisce di acqua salata sgorgano dai suoi occhi. Perché il suo animo ha già inteso.
-Barbarossa...-mormora il piccolo un'ultima volta, mentre finalmente si arrende a quella orribile verità.
Il suo migliore amico è morto. Il suo migliore amico non tornerà mai più.
E anche lui sta per morire...
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-...
-...
-... ock!!
Che strano...
Questa voce la conosco...
Il capitano, in qualche remota parte della sua coscienza ottenebrata dal dolore e dall'oscurità, percepì qualcosa, intorno a lui.
No, non qualcosa.
Qualcuno.
Qualcuno gli stava premendo con forza e insistenza delle mani sul petto.
Mani piccole... Delicate, ma forti.
Lo stesso qualcuno gli premette poi le labbra sulle sue.
Sherlock sentì dell'aria nella sua gola, e l'oscurità che lo avvolgeva parve in qualche modo attenuarsi, seppur debolmente.
-... Sherlock!!!
Di nuovo quella voce...
Ma chi è che mi sta chiamando?
- Non osare morire, Sherlock Holmes!!Mi hai sentito??? NON OSARE!!!
"..."
"..."
"..."
"... Molly???"
Sherlock rinvenne di scatto, boccheggiando e tossendo con violenza, espellendo tutta l'acqua che aveva nei polmoni, tornando finalmente a respirare. E a vedere.
Davanti al suo campo visivo in parte appannato galleggiava infatti un volto noto: un volto femminile...
Non riuscì a vederlo con chiarezza, perché avvertì la sagoma ancora sconosciuta buttargli le braccia al collo, e stringerlo con veemenza.
-Grazie al cielo... Grazie al cielo...-la sentì mormorare, mentre lo stringeva con ancor più forza, e ogni suo dubbio svanì: era proprio Molly.
Ancora stordito, non fece altro che rimanere immobile tra le sue braccia, realizzando a poco a poco di essere ancora vivo, senza più le manette ai polsi e alle caviglie. Non era più prigioniero. Non era più sotto quella massa d'acqua soffocante. Era vivo.
Per qualche istante, non riuscì neppure a dire una parola; solo qualche lacrima, ma di sollievo, gli sfuggì, mischiandosi con i rivoli d'acqua che scivolano dai suoi capelli sino al suo volto, mentre rispondeva, infine, seppur debolmente, alla sua stretta.
-Molly...-riuscì a mormorare, riprendendo fiato, la voce ancora debole e roca, mentre lei lo aiutava a sedersi.-Come hai fatto a...??
-Non ricordi, Sherlock? Avevo quello che mi serviva, per trovarti...-rispose lei, facendo ondeggiare la bussola davanti ai suoi occhi.
-Puntava dritto verso di te, se ti interessa saperlo... nessun problema di rotta...-aggiunse, con un sorrisetto.
Il corvino si ritrovò ad arrossire.
Allora sa...
Mi ha sentito...
Ma quel pensiero venne subito accantonato da un altro.
-John e Mary!!
Tentò di alzarsi in piedi, seppur a fatica, fradicio e ancora stordito: ma Molly lo trattenne per il braccio con un sorriso.
-Stanno bene, Sherlock. Li abbiamo liberati- lo rassicurò.-Non senti che chiasso, lì fuori? Dopotutto, non mi avevi mandato via proprio per questo?
Il corvino, in effetti, udì proprio in quel momento un clangore di spade in lontananza, colpi di arma da fuoco, e delle grida. E solo allora, sorrise.
A quanto pareva, erano arrivati i rinforzi...
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