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Amelie

Taylor mi aiutò a scendere dall'auto trattenendomi per le mani, le stringeva con sicurezza, forse era quello che voleva infondermi.

Dicono che i dolori del parto si dimentichino non appena prendi tra le braccia il tuo bambino, nulla di più falso, ricordavo ogni istante, ogni sospiro, ogni gemito, ogni fitta e quel senso di disperazione e di solitudine, che diventava un dolore al petto e una stretta alla gola, ogni volta che quelle immagini tornavano alla mia mente.

Mi fermai un istante guardando davanti a me in balia di tutti quei pensieri, la paura stava facendo capolino, Taylor mi si parò davanti, intravedendo nelle mie iridi tutti i miei pensieri:

"Questa volta sarà diverso, amore mio, io sono qui con voi". E così dicendo mi cinse nell'abbraccio più dolce che io abbia mai ricevuto.

Mi lasciai trascinare all'interno della struttura ospedaliera, dove mi attendevano una coppia di giovani ostetriche. Ci mostrarono la nostra stanza, non sapevano quanto ci sarebbe voluto, sarebbero passate di tanto in tanto a vedere come procedeva, se avessimo avuto bisogno avremmo potuto chiamarle, per il resto c'eravamo noi due e l'attesa.

Con una delle due ostetriche avevamo avuto un colloquio in cui avevamo raccontato per sommi capi la nostra disavventura, se così si poteva chiamare, con la nascita della nostra prima figlia. In questi momenti era importante che le persone intorno sapessero quali erano i nostri punti deboli, per girarci alla larga il più possibile o per affrontarli in maniera delicata.

Passarono ore in cui non successe quasi nulla, mi doleva la schiena, sui lombi, ma nulla di più. Passeggiavo per i corridoi, sorridendo e chiacchierando con Taylor e con le altre donne ricoverate.

Venne la notte, in ospedale non si va mai veramente a dormire, c'è sempre qualche luce accesa, qualche persona che si muove, sussurri e lamentele. Taylor crollò immediatamente nella poltrona letto accanto alla mia e benché cercassi di riposare sapendo di dover fare incetta di tutte le energie possibili per gli eventi delle ore successive, non riuscii a chiudere occhio.

Ogni volta che la stanchezza minacciava di farmi crollare nella mia mente si affollavano pensieri oscuri.

Decisi di alzarmi, se non potevo dormire, avrei fatto qualsiasi altra cosa che non prevedesse lasciare andare la mente a pensieri ansiogeni. L'avevo imparato tanti anni fa, la mente funziona a strati e se tra quelli ve ne è uno proprio di un pensiero negativo, prende sempre il sopravvento, lasciando al resto le retrovie e la notte è il loro momento preferito per venire a galla.

Nn appena mi alzai quello che fino a poco prima era un fastidio sopportabile, esplose per la prima volta in un dolore acuto e le mie ginocchia si piegarono. Mi appoggiai alla sponda del letto con le mani restando accucciata finché il dolore non cessò.

Presi il libro dalla borsa e le cuffiette con il lettore, sarebbero andate bene entrambe le cose per distrarsi ma sicuramente adesso ero ancora sufficientemente lucida per un bel romanzo d'amore, avrei lasciato la musica per dopo.

Stavo leggendo e quando lo faccio perdo sempre la cognizione del tempo, passarono diversi minuti, forse dieci o quindici ed una nuova fitta mi colse meno alla sprovvista della precedente. Respirai lentamente in modo controllato, gli occhi socchiusi, finché non mi abbandonò completamente e lasciò lo spazio ad un senso di torpore.

Mi rigirai guardando Taylor ancora profondamente addormentato, decisi che non l'avrei chiamato per adesso, avrei aspettato la prossima contrazione.

Restai così, questa volta ad occhi sgranati ferma immobile, respirando appena, in attesa che arrivasse. La sentii arrivare da lontano, come un onda del mare, salire lentamente e irrompere con forza, quando si placò ero tesa e concentrata. Guardai l'ora, le due e quattordici.

Delicatamente toccai il suo braccio, si svegliò comunque di soprassalto:

"Ehi che succede?"

"Si muove qualcosa, mi sa che qualcuno ha deciso che vuole conoscerci".

Il suo sorriso sincero mi sorprese e gli occhi mi si inumidirono all'istante, tuttavia non piansi, ero decisa a regalargli la gioia che ci era stata portata via anni fa.

Procedeva tutto con la giusta lentezza, non tutti i bambini hanno fretta di venire al mondo, a qualcuno piace danzare a lungo, non tutti i corpi delle loro mamme si adattano a questa danza e comunque riesci ad avere il controllo della situazione solo fino ad un certo punto. L'adrenalina ti trasforma in una macchina da guerra e fintanto che riesci a non farti prendere dal panico e ti focalizzi sull'obbiettivo è qualcosa che si può sopportare.

Andò così per diverse ore, saliva l'onda, mi concentravo, respiravo a ritmo, accoglievo il dolore, lo attendevo come una benedizione.

Poi arriva il momento in cui il dolore ha il sopravvento su tutto e perdi la lucidità. E' quello il momento. Quando pensi, anzi sei certa che morirai e quasi quasi lo stai accettando come una realtà appetibile, è li che si risveglia la leonessa che è in te.

Quando nacque Loreine ero sola, nell'istante in cui la marea mi travolse persi ogni speranza, nessuna fiera si impossessò del mio corpo, nessun miracolo di forza interiore, nemmeno l'istinto di sopravvivenza.

Attendevo con terrore il ripresentarsi delle stesse sensazioni da quando avevo capito che era giunto il momento.

Il dolore arrivò dopo la quiete, sembrava volermi spaccare in due, respirai a fondo: uno, due, tre...

Non ce la faccio, non ci riuscirò mai, le mie energie sono finite e la bambina è ancora lontana.

Trattenni il fiato, la vista annebbiata, le voci lontane attutite. Tra tutte una attirò la mia attenzione:

"Guardami, amore, sono qui, andrà tutto bene, ma tu respira, fallo per me. Questo è il nostro premio, il regalo più bello che la vita potesse farci. Cancellerà tutto il dolore, tutte le bugie, sarà il nostro sole, la nostra vita".

Non ho ben chiaro cosa accadde nei momenti concitati che seguirono, c'erano solo i suoi occhi puntati nei miei, le mie mani che stringevano le sue. Il dolore era li davanti a me, cercava di sottomettermi ancora, ma io ero più forte.

Nell'istante bellissimo in cui incrociai il viso della nostra bambina, ancora sporca e a malapena fasciata in un lenzuolino verde scuro, per la prima volta in vita mia, mi sentii potente.

L'immensità del miracolo di dare la vita mi travolse in tutto il suo splendore.

Tutta quella perfezione era opera mia.

Alzai lo sguardo alla ricerca dell'unica persona con cui volevo condividere tutto questo e lui questa volta era li, in tutto il suo splendore, bello forte, solido, piantato a terra come un albero secolare. Le sue iridi color del cielo rese più lucide dalle lacrime di gioia erano quanto di più bello avessi mai visto. Non si preoccupò di nasconderle, anzi, le lasciò scorrere.

Per un attimo il mio pensiero andò a Loreine era inevitabile che nel dolore e nella gioia lei fosse sempre con noi e due grosse lacrime, calde e salate scesero fin sulle mie labbra.

Erano lacrime di gioia e di liberazione, di dolore e di mancanza, ma erano lacrime di speranza per la vita che ci eravamo riconquistati, ci attendeva un futuro insieme e questa volta nessuno avrebbe potuto impedirci di vivere tutta la gioia che ci avrebbe riservato.

Si avvicinò a me e mi pose un bacio delicato sulla fronte:

"Grazie!" sussurrò con il viso affondato tra i miei capelli.

Poi ci girammo entrambi a fissare la meraviglia che si agitava tra le mie braccia, cercando istintivamente con le labbra il mio seno.

"Benvenuta al mondo Amelie!" sussurrai, ormai sopraffatta dall'emozione.


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