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q u a t r e

«Come ti senti?». Mi domandò Charles, dopo una mezz'ora dalla nostra partenza. Sapeva che non amavo molto gli aerei, avevo sempre forti attacchi di panico. 

«Sto bene». Risposi, anche se non molto sicura. Il monegasco, che mi conosceva fin troppo bene, capì che non fosse la verità. Iniziò a rovistare nelle sue tasche, fin quando non trovò un paio di auricolari, che infilò nel cellulare prima di passarmi una delle cuffiette. 

«Ascoltiamo un po' di musica, così ti distrarrai». Gli sorrisi e la afferrai, infilandola nell'orecchio. Fece lo stesso e poi premette la riproduzione casuale, attendendo che partisse una canzone. Ciò che non mi aspettavo, però, era che partisse "Let Her Go". Non che ci fosse qualche problema, sia chiaro, ma Charles mi aveva sempre deriso per le canzoni estremamente sentimentali e malinconiche e, in quel momento, vedere, o meglio sentire, che ne avesse una simile nella playlist mi fece quasi venir voglia di scoppiare a ridere, ma mi trattenni. 

«Seriamente Charles? Passenger?». Lo vidi arrossire terribilmente e spostare lo sguardo, per evitare di dover reggere il mio. Se c'era una cosa in cui non era bravo era proprio mantenere fisso lo sguardo quando si sentiva a disagio. E siccome io conoscevo questa sua debolezza, non mi lasciavo mai sfuggire l'occasione di provocarlo. Non parlò, non sapendo come rispondere senza rendere la situazione ancora più imbarazzante. Presa da un grande senso di bontà, decisi di non rincarare la dose e di limitarmi a scuotere la testa divertita. Charles, superato il tempo di realizzazione, provò a cambiare canzone, forse sperando che la successiva fosse più movimentata. Prima che lo facesse, però, posizionai la mia mano sulla sua, impedendo qualsiasi suo gesto. «Stavo scherzando, puoi lasciarla, se vuoi». Mi guardò e si passò una mano tra i capelli, per poi riposare il cellulare. Diventato, forse, più sicuro di sé, azzardò anche a canticchiare. Non parlai, in fondo l'avevo sempre trovata una cosa carina, e mi voltai verso di lui per osservarlo. Stava guardando fuori dal finestrino e aveva la testa appoggiata contro lo schienale. Forse avvertendo il mio sguardo, parlò. 

«Ti dà fastidio che stia cantando?». Scossi la testa, per poi realizzare che non mi vedesse. 

«Per nulla». Non so perché, quella volta, ad arrossire fui io, ma afferrai il cellulare e feci finta di star osservando qualcosa - non che potessi far altro se non sfogliare la galleria - così da evitare che Charles potesse notare il mio colorito. «Quanto durerà il viaggio?». Domandai e lui si girò verso di me con tutto il corpo. 

«Sei ore». Sospirai afflitta. 

«Ma perché ho accettato di venire alla gara?». Facendo sbattere la testa contro lo schienale, sbuffai, non sapendo come far passare il tempo. 

«Vuoi che te lo ricordi?». Mi provocò, spingendomi leggermente con la mano. Lo fulminai con lo sguardo. «Non guardarmi così, credevo che avessi avuto un'improvvisa perdita di memoria». Alzò le mani quasi per discolparsi, anche se sapevo perfettamente che anche in quel momento mi stesse deridendo. Roteai gli occhi. 

«Quali sono i piani per questi giorni?». Domandai, per cambiare argomento. 

«Oggi pomeriggio sono libero, così come domani mattina. Gli altri giorni sono occupato, ma riuscirò a ritagliare del tempo per farti fare il giro della città, a meno che tu non preferisca Pierre come cicerone». Charles sapeva essere rancoroso ed ero certa che per molto tempo avrebbe riportato a galla questo argomento. Era, però, anche piuttosto scaltro e quindi cercava sempre di camuffare la verità ridendo sulle sue stesse parole. Con gli altri funzionava, con me un po' meno. Lo conoscevo più delle mie tasche, non avrebbe mai avuto la meglio. 

«In realtà...». Titubai e Charles si voltò a guardarmi impaziente. «...pensavo di chiedere a Esteban». Conclusi e la mia risposta, vista la sua espressione sul volto, non dovette essere di suo gradimento. 

«Esci con Pierre». Scoppiai a ridere in una risata fragorosa, era davvero così facile deriderlo. 

«Charles, ti ho già detto che ti amo?». Fissò il suo sguardo nel mio. 

«Anche io mi amo». 

«Sai, forse le sei ore di viaggio solo valse a qualcosa». Esclamai, non appena giungemmo davanti all'albergo in cui avremmo alloggiato. Charles, che fino a quel momento aveva conversato con il tassista per poterlo pagare, si voltò finalmente verso di me, sorridendomi. 

«Sì, l'albergo è sempre la motivazione più valida per viaggiare». Approfittò della mia distrazione per afferrare anche il mio borsone e io lo guardai male, fulminandolo con lo sguardo. 

«Sai che non è necessario che ti carichi anche dei miei bagagli, i tuoi sono già abbastanza pesanti». Constatai, osservando le sue due enormi valigie, non comprendendo bene a cosa gli potessero servire. 

«Abbiamo due gare in Austria, penso di rimanere qui». La sua risposta fece aumentare il mio sospetto che avesse occhi anche dietro la testa. «A meno che tu non voglia tornare a Monte Carlo, a quel punto sai che ti accompagnerei». Scossi la testa. Non ero molto sicura, avevo da studiare per il successivo esame, ma per fortuna ero stata abbastanza previdente da portare con me i libri. Nessuno dei due parlò ulteriormente, quindi entrammo nella hall. Iniziai a girarmi intorno, osservando ogni minimo dettaglio. Nel frattempo, il mio migliore amico si era avvicinato al receptionist e gli stava domandando le chiavi delle nostre stanze. Non gli prestai molta attenzione e fu proprio per questo motivo che sobbalzai quando sentii la sua voce. «Ecco a te le chiavi». Me le porse e io le afferrai prontamente. 

«Ma Andrea?». Domandai, ricordandomi solo allora del suo preparatore atletico. 

«Mi ha chiesto di prendere l'aereo successivo perché aveva degli affari di famiglia da risolvere. Ho acconsentito, almeno avrò un po' di tempo per me». Mi sorrise, continuando a camminare verso l'ascensore. «Mi era mancata la Formula 1». Sospirò, mentre premeva il pulsante del piano. 

«Oh, lo so». Rise e iniziò a rovistare nelle tasche, quasi stesse cercando qualcosa di molto importante, forse il cellulare. «Pierre mi aveva scritto di avvertirlo non appena saremmo arrivati. Ha detto di avere in mente di fare un giro, non ho ben capito per dove». Si lasciò andare a un breve sospiro, mentre digitava un messaggio al francese. «Sai, non credo a un destino già scritto, ma se dovesse capitarmi la stanza accanto a Pierre inizierò a sospettare che non sia più una coincidenza». Disse mentre si rigirava le chiavi tra le mani. 

«Che numero è la tua stanza?». Diede una breve occhiata. 

«109». Le porte si aprirono in quel preciso istante e Charles afferrò nuovamente i bagagli e attese che uscissi prima di poterlo fare anche lui. «E tu sei 111, io so per certo che la 110 è di Pierre e questa cosa mi terrorizza». Iniziai a ridere. Era davvero così melodrammatico. 

«Non fa per nulla ridere, è da quando sono arrivato in Formula 1 che mi capita sempre la camera accanto alla sua. O è Pierre che decide le stanze o è decisamente inquietante. Sembra quasi che debba subire per il resto della mia esistenza i suoi rimproveri per il mio disordine». 

«Non potrebbe che farti del bene». Mantenni un'espressione del volto seria. 

«Il bue che dà del cornuto all'asino». Lo guardai con un cipiglio sul volto, non capendo la sua frase. Era una metafora? Scoppiò a ridere. «Stando in Italia ho imparato questo modo di dire, è carino, non trovi?». Annuii, non molto convinta. «Comunque, da parte tua non mi aspetto una critica sul mio disordine. Da Pierre sì, da te no, sei addirittura più disordinata di me!». Feci un movimento con la mano come ad allontanare le sue parole. Provò a continuare il discorso, ma fu interrotto da una voce. 

«Ce l'avete fatta». Entrambi ci voltammo e ci ritrovammo Pierre davanti, sorridente. Mi avvicinai a lui per salutarlo, quando Charles si pose tra noi due. 

«Prima di tutto, qual è la tua camera?». Mi diedi un leggero schiaffo sulla fronte. 

«La 110, perché?». Il monegasco si voltò verso di me, quasi mi avesse dato la prova che gli alieni esistessero. 

«Che ti ho detto?». Roteò gli occhi. «Comunque, ciao Pierre, vado a posare questi bagagli o tra un po' perderò gli arti. Inés il tuo bagaglio è in camera mia». Annuii e lo vidi allontanarsi. Tornai a guardare Pierre, che cercava di trattenere le risate. 

«Si è svegliato con la luna storta?». Scossi la testa esasperata. 

«Forse con tutta la Terra e il Sole». Arricciò il naso divertito e allargò le braccia per stringermi a sé. 

«Sei pronta al miglior fine settimana della tua vita?». Lo guardai negli occhi. 

«Non farti sentire da Charles o potrebbe lanciarti la prima cosa che trova contro». Iniziò a ridere e il mio cuore perse un battito a quel suono. 

«Guardate che vi sento!». Esclamò l'oggetto della nostra discussione. La sua testa fece capolino dalla porta. «Ora che ci siamo Pierre...». Il francese si allontanò da me per avvicinarsi a lui. «...sappi che i migliori week-end li organizzo io, mi dispiace». Riferì, per poi ritornare all'interno della stanza. 

«Vivi davvero con lui?». Sporgemmo la testa per osservare meglio ciò che stesse facendo. Charles era intento a disfare la valigia e a sistemare i suoi vestiti nell'armadio, mentre canticchiava una canzone che poi compresi essere "C'est la vie" di Khaled. 

«Sì e onestamente è la cosa migliore che potesse mai capitarmi». 

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