2
La prima cosa che Claud notò, non appena mise piede fuori dal taxi che lo aveva condotto dall'aeroporto fino a Beverly Hills, fu il piacevole tepore di Los Angeles: non era una città fredda neanche in quella stagione e, a eccezione delle notti, dove le temperature arrivavano a segnare anche meno di dieci gradi, le giornate dei mesi invernali vantavano un clima mite e spesso il sole arrivava a scaldare la pelle attraverso i tessuti più spessi degli abiti.
"Magari faccio un salto alla spiaggia" pensò, anche se la sera era già scesa da un po' e lui non aveva ancora cenato, e sorrise mentre varcava la soglia del grattacielo in cui si trovava il suo appartamento. Avrebbe potuto vendere tutto ciò che possedeva quando era rimasto senza un soldo sul suo conto bancario, ma Claud aveva preferito chiudere tutto e trovare un mezzo alternativo per riequilibrare le cose: avrebbe sempre avuto tempo per vendere il proprio appartamento o la casa dei suoi genitori, se proprio ciò si fosse rilevato necessario, ma, lasciando tutto in asso e sparendo, si era anche assicurato un eventuale "salvagente" che, per fortuna, quella volta non era stato costretto a utilizzare.
Il portiere del palazzo rimase come paralizzato nel trovarselo davanti dopo che era sparito per quasi cinque mesi. Claud non era nuovo a quei suoi viaggetti improvvisi e, fino alla sua ultima scomparsa, si era sempre ripresentato nel giro, massimo, di un mese. Era la prima volta che mancava tanto a lungo da casa. Tuttavia, il portiere non si fece sfuggire alcun commento, dissimulò velocemente l'espressione sorpresa che gli aveva illuminato il viso, nascondendosi dietro un perfetto, impeccabile e asettico sorriso professionale, mentre si prodigava per recuperare i bagagli del signor Blake, per poi accompagnarlo fino alla soglia del suo appartamento, lasciando i bagagli nell'ingresso.
Claud si guardò attorno, preferendo lasciare le luci spente, aspettando che gli occhi si abituassero all'oscurità parziale che avvolgeva il suo loft. Come un gatto fece appello alla propria memoria, muovendosi per la stanza tentando di non urtare nulla, in parte facilitato dall'arredamento minimalista, finché non si trovò davanti le grandi finestre che riempivano la parete che dava sull'esterno. Aprì le tende di scatto e rimase come folgorato nell'osservare il paesaggio serale che si spalancò davanti ai suoi occhi.
Amava la sua città e gli era mancata tanto quanto qualsiasi persona a cui era affezionato. Ogni luccichio, i grattacieli, le ville di lusso, le strade costeggiate dalle palme, l'immensa spiaggia di Zuma Beach, l'odore del mare, la carezza ruvida della sabbia. Persino l'aria aveva un sapore diverso, nonostante Los Angeles, alla stregua di New York, fosse una grande metropoli sovraffollata da mezzi di trasporto e persone, smog, quartieri poco eleganti e altri in cui la povertà e la disperazione la facevano da padrone. Non tutto ciò che sembrava oro, in quell'incantevole serata del suo ritorno, luccicava davvero.
Tuttavia, quella era casa sua: era il luogo in cui era nato e cresciuto, quello dove si sentiva al sicuro.
"Già" si disse con un sospiro, incrociando le braccia sul petto, ripensando a quello che era accaduto durante gli ultimi mesi, alle tante volte in cui si era trovato in pericolo. Il suo sguardo si fece vuoto e si trovò a specchiarsi nel proprio pallido riflesso sul vetro. I capelli erano cresciuti ancora un po', arrivando a sfiorargli appena le spalle, in morbidi e definiti ricci, di un intenso e luminoso biondo, dai riflessi dorati. Gli occhi si erano fatti meno limpidi, ma nulla di ciò che aveva passato avrebbe mai potuto intaccare la perfezione delle sue iridi, di uno strabiliante azzurro.
I lineamenti del suo volto sembravano divenuti un po' più marcati e ciò era dovuto al fatto che aveva perso un paio di chili; nel complesso, aveva un aspetto un po' sciupato. Non era mai stato un tipo massiccio, anche perché aveva lavorato come modello per diversi anni, sempre attento alla propria linea, ma, mentre era via, la sua muscolatura si era accentuata, donandogli nell'insieme un aspetto più virile, favorito anche da quel filo di barba che aveva iniziato a sfoggiare, abbandonando del tutto l'aria da angioletto.
Mancavano ancora un paio di settimane al suo trentesimo compleanno, eppure si sentiva come se ne portasse sulle spalle il peso di almeno il doppio.
Sospirò ancora e scosse la testa, sentendosi un po' irrequieto nello stare lì a fissare il proprio riflesso: negli ultimi mesi aveva sviluppato un certo disgusto nei confronti della propria immagine. Non che fosse diventato meno bello, poiché restava di una bellezza fuori dal comune, tuttavia, il fatto che avesse cominciato a detestarsi lo aveva portato ad assumere un certo atteggiamento distaccato nei confronti di se stesso, come se stesse, giorno per giorno, perdendo pezzetti di amor proprio, lasciandoseli alle spalle lungo il proprio cammino.
Sapeva di possedere una bellezza in grado di trasformarsi in un'arma potente, attraverso la quale ottenere tutto ciò che desiderava. L'arroganza alimentava con sapienza la sua autostima, ma era lui che, ormai, aveva imparato a guardare oltre le apparenze, rendendosi conto di che genere di persona era diventato: una persona che iniziava a stargli "stretta".
"Tutta colpa di Keith" si disse, ripensando alla notte dell'estate prima, quell'unica volta in cui avevano fatto l'amore ed era riuscito a provare con lui qualcosa che, fino a quel momento, aveva davvero creduto non fosse possibile tra due persone, non nel mondo reale, fuori dalle favole e dai filmetti d'amore stucchevoli. Quel qualcosa non aveva ancora un nome, ma era lì e, con prepotenza, veniva fuori ogni volta che incontrava qualcun altro, senza mai riuscire a riscontrare con nessuno la stessa emozione che aveva provato con Keith.
Percepì un brivido scendergli lungo la schiena e tremò, mentre si avvicinava all'angolo della stanza in cui si trovava la cucina, accendeva le luci poste sopra il bancone da colazione, e prendeva posto su uno sgabello.
"Sono stanco" e nel formulare quel pensiero ebbe un moto di risentimento nei propri confronti; aggrottò la fronte e decise di uscire di casa, di nuovo, senza neanche domandarsi dove fosse diretto.
Percorse a piedi un paio di metri, fino ad arrivare in fondo alla strada e lì si fermò, mentre la consapevolezza di cosa avrebbe trovato, non appena avrebbe girato l'angolo a destra, gli riempiva la mente, pietrificandolo sul posto.
•
Il Seraphim era un locale abbastanza rinomato a Los Angeles. Elegante e raffinato, veniva frequentato da uomini in cerca di compagnia e i serafini che vi lavoravano come accompagnatori avevano fama di essere bellezze rare, di possedere una gentilezza lenitiva.
Claud aveva lavorato come direttore del locale durante i primi mesi della sua apertura, era amico del proprietario, Jeffrey Major, e quello era il motivo principale per cui provava un certo disagio nel trovarsi lì. Senza contare che a lui era succeduto Keith Coleman – il suo Keith – e quello era un altro motivo per cui Claud stava nascosto dietro una palma, sul lato opposto della strada, intento a fissare il locale con un certo, morboso interesse.
"Magari becco proprio Keith" pensò e subito si irrigidì, dandosi dello stupido. "Non così in fretta, Blake. Questa volta non puoi fallire" si ammonì, del tutto intenzionato a conquistare il cuore di quell'uomo, poiché sapeva che era l'unico modo per poterlo avere al suo fianco.
Keith era diverso, non si sarebbe mai accontentato di incontri occasionali, di una relazione aperta. Era un tipo romantico e tradizionalista: sognava l'amore vero ed esclusivo e anche se Claud non era del suo stesso avviso, era ben disposto a dargli esattamente ciò che desiderava, pur di averlo per sé.
"Questa volta non puoi fallire" si ripeté e tornò a percepire le spalle irrigidirsi nel vedere l'ingresso del Seraphim aprirsi e uscirne il proprietario. Jeffrey si guardò attorno, salutò i due buttafuori e fece un cenno in direzione del suo autista, che lo attendeva poco più in là, sulla sinistra del marciapiede, per poi avvicinarsi alla vettura. Salì a bordo della limousine e se ne andò. Poco dopo l'ingresso venne aperto ancora e un paio di clienti entrarono nel locale, mentre un giovane ne usciva.
Claud si trovò a sorridere, con una certa soddisfazione, come se quello fosse esattamente l'incontro che aveva sperato, ma di cui neanche si era accorto di augurarsi si concretizzasse.
Iniziò a rigirarsi una ciocca di capelli tra le dita e seguì con lo sguardo i movimenti del ragazzo in questione. Aveva corti capelli in parte celati da un berretto di lana, indossava un lungo cappotto scuro e si muoveva a passo incerto verso il parcheggio del locale. Claud si sfregò le mani e decise di raggiungerlo.
-Ma buonasera!- esclamò con voce squillante quando si trovò alle sue spalle. L'altro sussultò e le chiavi dell'auto gli sfuggirono di mano, finendo sull'asfalto. -Ciao, Dani- disse e gli strinse una guancia con fare giocoso, mentre l'altro lo fissava basito.
-Claud?- balbettò il giovane e il sorriso dell'uomo si fece più ampio.
-In carne e ossa!-
-Credavamo non tornassi più- e la balbuzie del suo interlocutore si accentuò.
-Il logopedista ha proprio fallito con te, eh, Daniel? Che ci fai al Seraphim? Non lavori per l'agenzia di modelli di Jeffrey, adesso? Non credo che al locale siano impazziti tutti di colpo e ti abbiano ripreso come angioletto: scocciava a tutti i clienti sentirti parlare- disse e Daniel arrossì, calandosi maggiormente il berretto di lana sui corti capelli biondi, come se stesse cercando di nascondersi dall'altro.
-Sono venuto a portare dei documenti a Jeffrey- mormorò lui in risposta e il rossore sulle sue guance si fece più vivo.
Daniel Clark era un giovane uomo coetaneo a Claud, che aveva, appunto, lavorato al Seraphim per un po', durante le prime settimane di apertura del locale. Jeffrey era famoso anche per la sensibilità con cui sceglieva le persone di cui si circondava nel lavoro, tentando di essere inclusivo con tutti e sempre con un occhio di riguardo nei confronti di coloro che erano meno fortunati, sia per quanto riguardava i dipendenti del locale, sia per il suo lavoro principale, che lo vedeva proprietario anche di un'agenzia di modelli.
Daniel si era rivelato una scommessa poco vincente: era adorabile, biondo, con gli occhi di un delicato colore celeste, le guance morbide che cercava di rendere meno fanciullesche celandole in parte dietro l'onnipresente barbetta incolta. Era un po' appesantito sui fianchi, ma non per era quello che aveva finito per essere ignorato dai clienti del Seraphim, durante il suo breve periodo in veste di accompagnatore, trovandosi spesso a occupare uno sgabello al bar, in attesa che qualcuno si decidesse a sceglierlo, mentre tutti gli altri ragazzi erano impegnati e lui no.
Purtroppo, compito di un accompagnatore era anche quello di intrattenere con chiacchierare, più o meno frivole, gli uomini che richiedevano i loro servigi, e in molti si erano rilevati insofferenti alla balbuzie del giovane, che peggiorava a dismisura, rendendendo le sue parole quasi incomprensibili, quando era sopraffatto dalle proprie emozioni.
Così Jeffrey, pur di non lasciarlo senza un lavoro, lo aveva tolto dal Seraphim e lo aveva eletto suo assistente all'agenzia per modelli.
Claud rimase ancora un po' in silenzio, continuando a fissare l'altro con sguardo ferino e Daniel deglutì sonoramente, sprofondando il naso nella sciarpa che indossava, mentre sedeva sui talloni, muovendosi con evidente titubanza, per recuperare le chiavi dell'auto.
-Sono curioso...- sussurrò Claud, facendoglisi più vicino quando l'altro torno in posizione eretta. Sfiorò con il proprio naso il dorso della mano con cui il giovane si stringeva la sciarpa, cercando di instaurare un contatto visivo con lui, ma Daniel scappava dal suo sguardo, sempre più a disagio. -Che è successo mentre sono stato via?- gli domandò.
-Che... vuoi... sapere?- gli chiese l'altro, iniziando a mangiarsi le parole.
-Uhm. Non ho ancora cenato. Mi fai compagnia, che gentile! Andiamo, pago io, ovviamente, e non insistere, sei mio ospite, tesoro- disse Claud, circondandogli la vita con un braccio, notandolo sussultare mentre si rendeva conto che quella non era una richiesta, ma una specie di ordine. Daniel sgranò gli occhi e si mise a elencare mentalmente tutta una serie di motivi per cui non avrebbe dovuto accettare di andare con Claud.
Jeffrey, il suo capo, era arrabbiato con lui.
Keith, il migliore amico del suo capo, lo detestava.
Evan, il fratellastro del suo capo, lo odiava.
"Jeffrey potrebbe arrabbiarsi tanto..." pensò il giovane, ma Claud, tuttavia, sembrava possedere la capacità di spingere gli altri a fare proprio ciò che lui desiderava e infatti Daniel non prese in considerazione, neanche per un secondo, l'ipotesi di contraddirlo, di rifiutare il suo invito.
Nonostante la nomea che lo precedeva, il giovane pensò che non ci fosse nulla di male nel fare un po' di compagnia all'altro; era sparito per diverso tempo, tutti si erano domandati che fine avesse fatto ed erano curiosi di ottenere delle risposte. Daniel non comprendeva perché l'uomo avesse scelto proprio lui, ma era Claud Blake: era impossibile dirgli di no.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro