Emerald fire
20 agosto 1978, Parigi
L'atto di amare un'altra persona era per Bruce Sutherland un concetto alquanto difficile da comprendere nelle sue più sottili sfumature. Allo stesso modo, la delicatezza, la complicità, il reciproco rispetto erano tutte cose a cui gli riusciva quasi impossibile pensare nel momento in cui si trovava a letto con una ragazza, e tuttavia da quando aveva cominciato a frequentare Gabrielle questo sembrava finalmente non essere più un problema.
Lei non si lamentava dei suoi modi rudi, e quanto più lui affondava in lei con forza, tanto più lei sembrava godere nel piantargli quelle sue unghie curate nella schiena, lasciandogli segni e graffi che impiegavano giorni interi a guarire, e sebbene questa fosse una gran seccatura, tutta quella rabbia lo eccitava, più di quanto nessun sospiro, nessun dolce sussurro o carezza avessero mai fatto.
Bruce la sovrastava con l'immensa mole del proprio corpo eppure quando lei aprì gli occhi fissando lo sguardo famelico su di lui ebbe come l'impressione che fosse Gabrielle a dominare in quello strano atto che più che amore sembrava una sorta di strenua battaglia.
Si spinse quindi in lei di nuovo, senza alcuna dolcezza, strappandole un sospiro doloroso prima di afferrarle una spalla per farla voltare. Le premette poi una mano alla base del collo bloccandola contro le lenzuola candide e percependo sotto le proprie dita la pelle liscia sebbene imperlata di minuscole goccioline di sudore della sua schiena. Infine, per assicurarsi che gli equilibri fossero del tutto ristabiliti, le afferrò con la mano libera entrambi i polsi, privandola così della possibilità di ribellarsi di nuovo.
Poi chiuse gli occhi e per qualche istante si concesse di abbassare le proprie difese, di lasciare uno spiraglio aperto sui pensieri oscuri e perversi che si agitavano nella sua mente: una giovane strega, dallo sguardo azzurro e schivo e i capelli lunghi, biondi, che scivolavano morbidi tra le sue dita.
"Lei sarà la rovina di Jonathan"
Sussurrava all'orecchio della sua mente il comandante Blackburn, mentre quel corpo così bello, così puro si snodava sotto di lui.
"Ma noi non lo permetteremo, giusto Bruce?"
"No, non lo permetteremo", rispose una voce sommessa proveniente dall'angolo più triste e oscuro della sua anima. Le sue mani strinsero allora più forte, i suoi movimenti si fecero più decisi mentre l'adrenalina e l'eccitazione gli davano alla testa, inebriandolo, facendogli perdere la cognizione del tempo e dello spazio, di ciò che è bene e ciò che non lo è.
Così nella sua mente quella pelle così delicata si ricoprì di orrendi lividi bluastri e quel corpo così bello finì per essere spezzato prima del tempo.
***
25 agosto 1994, a nord, ancora più a nord
Gabrielle avvertì una fitta al petto e l'aria uscirle dai polmoni tutta in una volta quando riaprì gli occhi, emergendo dalle oscure acque dei propri incubi, infestate da immagini orribili di pensieri che non erano i suoi.
Imprecò sottovoce, passandosi una mano sugli occhi stanchi e ravviandosi le ciocche di capelli ramati che le ricadevano ribelli e disordinate sul viso.
Erano passati alcuni mesi dalla morte di Bruce, eppure il ricordo del momento in cui aveva conosciuto il suo futuro marito per il mostro che era in realtà rimaneva ancora vivido nella sua mente e tornava a tormentarla regolarmente.
"Perché quegli uomini l'hanno ucciso, mamma?"
La voce rigida ed impostata di suo figlio Ethan la costrinse a rivolgere l'attenzione accanto a sé, lì dove quel bambino di dieci anni con un tono troppo serio, troppo maturo per la sua età le chiedeva perché suo padre era dovuto morire.
Bruce, dopo aver fatto irruzione al numero dodici di Grimmauld Place e colpito il padrone di casa con una fattura stordente abbastanza potente da metterlo fuori gioco per un paio di ore, aveva portato il bambino via con sé, nella loro signorile e silenziosa casa di Parigi, ed era lì che le Sentinelle di Salazar avevano trovato Ethan, accoccolato tra le coperte del proprio lettino lo sguardo indecifrabile rivolto altrove, verso il buio spesso oltre la finestra.
"Perché quegli uomini l'hanno ucciso, mamma?"
Le chiese di nuovo il piccolo Ethan, e questa volta Gabrielle ebbe l'impressione che lui conoscesse già la risposta a quella triste domanda.
Tu l'hai ucciso.
Gabrielle aprì gli occhi di scatto quando una scossa dolorosa le attraversò il polso e il braccio destri, correndo veloce fino alla spalla, mentre oltre i vetri sporchi di terra e polvere il cielo era illuminato dal bagliore di una notte tempestata di stelle.
-merda-
Imprecò a denti stretti quando si rese infine conto che il Marchio di Salazar impresso sul suo avanbraccio aveva assunto una preoccupante sfumatura rossastra, segno che qualcosa doveva essere andato storto.
Si alzò quindi velocemente, sforzandosi di accantonare il pensiero di suo figlio e dei propri incubi in un angolo della mente mentre raccoglieva le poche cose essenziali che aveva infilato in una vecchia sacca da viaggio prima della partenza.
Tuttavia, proprio mentre stava per calarsi sulle spalle uno spesso mantello scuro, i suoi occhi si soffermarono su delle immagini lontane, confuse, delle quali tutto ciò che Gabrielle riuscì a distinguere fu un fuoco innaturalmente verde smeraldo. Un grido soffocato squarciò poi il silenzio ipnotico di quelle fiamme oscure e oltre la finestra, lì dove poco prima c'era nient'altro che il paesaggio brullo e spoglio avvolto dalla debole luce della luna, Gabrielle intravide una figura il cui volto si celava dietro ad una maschera d'argento finemente intagliata.
-merda-
Sussurrò di nuovo: sì, qualcosa doveva essere decisamente andato storto.
***
20 agosto 1978, Parigi
Helena McKenzie in Blackburn sorrise, volteggiando su sé stessa in una serie di piroette scoordinate prima di lasciarsi scivolare sull'erba incolta, imperlata delle gocce avanzate dal violento temporale che poco prima si era abbattuto sulla piccola radura in cui, come uno zaffiro purissimo, era incastonato un piccolo laghetto, le cui acque boccheggiavano placidamente, mosse da nient'altro che una leggera brezza estiva.
Erano la cosa più bella che avesse mai visto, lei e quel suo sorriso così limpido e spontaneo che si disegnava sul suo viso minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in un perpetuo ripetersi di quell'istante rimasto impresso per sempre in quella fotografia che Blackburn conservava sull'imponente scrivania di legno massiccio sistemata al centro del proprio studio.
Era così che avrebbe voluto ricordare sua moglie, con i capelli ancora umidi per la pioggia e i profondi occhi color nocciola piantati sull'immensità azzurra del cielo estivo, e tuttavia quell'immagine nella sua mente veniva infine distrutta dallo sguardo spaventato di Helena, dal suo doloroso affannarsi a continuare a respirare nonostante il veleno che lui le aveva versato nel calice una sera di dicembre le avesse reso quella semplice, essenziale azione impossibile da compiere.
Tutto ciò che Blackburn ricordava di lei nella propria mente erano quegli ultimi, deboli rantoli e il suo sguardo che aveva smesso per sempre di osservare affascinato i misteri del cosmo e si era spento in pochi istanti, precipitando nella fissità oscura della morte.
-ma noi non lo permetteremo, giusto Bruce? –
Disse alzando lo sguardo, allontanandolo dal ricordo della paura negli occhi di Helena per concentrarsi sulla spietata macchia oscura che si espandeva e contraeva nell'anima di Bruce Sutherland.
-no, Signore, noi non lo permetteremo-
Aveva risposto senza alcun tipo di esitazione, accennando infine un debole sorriso su cui Blackburn decise di non soffermarsi.
***
25 agosto 1994, Londra
Forse, dopotutto, avrebbe dovuto dare più peso a quell'inquietante piega che avevano assunto le labbra di Bruce al pensiero di uccidere una ragazzina di appena diciassette anni.
Eppure, allora, gli era sembrata una buona idea, se non altro la cosa giusta da fare. Per Jonathan, suo figlio, il suo unico erede, l'unica persona oltre ad Helena per cui fosse mai stato in grado di provare qualcosa di sincero, di veramente puro.
Per un istante ripensò alla sua prima moglie, l'unica donna che avesse mai amato davvero e che tuttavia l'aveva tradito con un altro uomo. Voleva andarsene Helena, portargli via suo figlio, crescerlo lontano dalla Confraternita, lontano da lui.
"Perché la mamma se n'è andata, papà?"
Gli aveva chiesto il piccolo Jonathan con gli occhi colmi di lacrime, quegli occhi così simili a quelli di Helena, profondi, così incredibilmente vivi.
Aveva cresciuto suo figlio nell'illusione che sua madre fosse là fuori, alla ricerca di qualcosa di più, che se ne fosse andata perché loro non erano abbastanza. Jonathan non avrebbe mai saputo che i resti di Helena giacevano sepolti alcuni metri sotto la terra fredda di una tomba senza nome.
"Perché la mamma se n'è andata, papà?"
Lo tormentò di nuovo la voce acuta di quel bambino di dieci anni che era ora diventato un uomo e, nonostante tutti i suoi sforzi, lo disprezzava al punto da non rivolgergli più la parola, e all'improvviso quella domanda assunse le tinte fosche di una velata accusa.
Tu l'hai uccisa.
-via, non sia così agitato-
Sussurrò, riemergendo dai propri cupi pensieri e sorridendo affabile al gentiluomo seduto dall'altra parte della scacchiera, ordinando infine al proprio alfiere di avanzare. La notte incalzava oltre le finestre dell'elegante dimora di cui era segretamente ospite, e più il momento si avvicinava, più riusciva a percepire l'ansia dilatarsi nell'animo dell'uomo accomodato di fronte a lui, il quale fissava pensieroso l'alfiere di Blackburn puntare minaccioso sulla sua pedina indifesa.
-sarebbe stato più saggio ucciderla e farla finita-
Borbottò, spostando la pedina fuori portata dell'alfiere, il quale da parte sua imprecò deluso.
Jonathan Blackburn Senior osservò qualche istante Lucius Malfoy, l'espressione altera che a stento celava una mente fragile e tormentata. Aveva paura, e da parte sua Blackburn riusciva a comprenderlo: aveva commesso una leggerezza che avrebbe potuto costargli cara lasciando vivere Arya Ellis-Miller.
-sarebbe stato più semplice, non più saggio-
Gli fece notare poi, indirizzando l'alfiere contro il cavallo di Malfoy, rimasto scoperto. Un debole nitrito si levò dalla scacchiera quando la pedina di Blackburn abbatté l'animale di alabastro nero.
Avrebbero dovuto soppesare attentamente le loro mosse, perché dall'altra parte della scacchiera su cui si consumavano quegli infiniti giochi di potere tra potenze oscure e non Blackburn sapeva di avere un'avversaria tutt'altro che sprovveduta. Dovevano attirarla in una trappola da cui, questa volta, la giovane Erede non sarebbe più potuta fuggire.
Poi, all'improvviso, come un lampo di smeraldo in un cielo oscuro, divampò nella sua mente l'immagine di fiamme di quello che era un fuoco che non aveva nulla di naturale. Abbassò lo sguardo sull'avanbraccio destro dove il Marchio pulsava e bruciava come se fosse lui stesso sfiorato dal sacro fuoco di Salazar.
Avvertì Malfoy agitarsi sulla sedia di fronte a lui, incapace di vedere ciò che vedevano i suoi occhi, il marchio nero di Tom Riddle che svettava nella notte limpida; incapace di sentire quelle grida soffocate che invece riempivano la sua mente.
Era un grido di dolore che scemò in un urlo rabbioso, una furia che Blackburn conosceva bene: non aveva nulla o quasi di umano, proprio come quelle fiamme che ardevano inondando la notte di innaturali sfumature smeraldine non avevano nulla o quasi di terreno.
Blackburn capì allora che la partita, quella vera, era appena cominciata.
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