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Capitolo 9


Sono come la pianta che cresce sulla nuda roccia: tanto più mi sferza il vento tanto più affondo le mie radici.

Proverbio indu'

La prima volta che suo padre lo aveva portato con se in India aveva cinque anni. Sua madre era appena morta e il Signor Thompson non voleva lasciarlo alle cure dell'educatrice e della governante, da solo nella loro Tenuta nello Yorkshire. Sapeva che avrebbe sofferto troppo per la mancanza della donna e per la lontananza da lui, troppi mesi lo aveva lasciato solo nei suoi primi anni di età, adesso era arrivato il momento di conoscere davvero suo figlio.

Così dopo giorni lunghi ed estenuanti di viaggio, tra navi, carrozze di ogni tipo e treni a vapore erano finalmente giunti a Jaipur.

La villa che li ospitava era situata proprio alla base della piccola collina sulla quale sorgeva il Jantar Mantar, uno dei posti che sarebbero diventati i preferiti del piccolo Jake.

Il caldo era asfissiante ma si sarebbe abituato, i suoi vestiti da ricco aristocratico bambino Inglese non erano fatti per quel clima e presto lo avrebbe scoperto. Ad accoglierli al loro arrivo, nella grande sala all'entrata della villa in stile monumentale in arenaria bianchissima che rifletteva i raggi del sole così da renderla ancora più brillante e luminosa, uno stuolo di uomini e donne, circa una trentina, addetti al servizio della casa, che il piccolo Conte Thompson guardava estasiato. Erano tutti perfettamente abbigliati alla maniera Indiana, chi indossava il churidar chi il saree, alcuni uomini avevano il panche ed altri il dhoti a seconda della mansione che svolgevano all'interno della casa. Tutti vestivano abiti sgargianti e colorati e gli rivolgevano sorrisi cordiali e cenni di saluto.

Il padre gli aveva sempre raccontato dell'India, gli aveva sempre portato tanti piccoli oggetti di ritorno dai suoi viaggi oppure glieli aveva spediti in grandi scrigni di legno intarsiato che odoravano di spezie piccanti come il peperoncino, il curry, la cannella e il sandalo, spezie che sua madre gli aveva provato a far conoscere. Ma nulla nella realtà era paragonabile ai suoi racconti e alle descrizioni che erano racchiuse nelle parole delle lettere che sua madre gli leggeva. Jake era meravigliato da tutto, lungo il suo viaggio aveva visto cose che in Inghilterra non potevano esserci e tutto quanto andava al di là di ogni sua più recondita immaginazione. Sentiva forte nelle narici l'odore che proveniva dalle grandi incensiere in pietra che adornavano la sala sui lati. Raffiguravano elefanti che s'impennavano su due zampe, maestosi e grandissimi. Dalla proboscide usciva lento e corposo del fumo profumato che gli ricordava lo sbuffo di vapore che aveva visto sulla nave che lo aveva condotto in quella terra. Sentì il rumore forte ma profondo di quella che scoprì poi essere una campana tibetana, che era stata suonata in segno di benvenuto e adesso il suo riverbero acuto e vibrante risuonava in lui come uno strano solletico. Delle campanelle lievi e smosse dal vento appese alle grandi finestre di pietra intarsiata, mandavano un suono paradisiaco alle orecchie del bambino che guardava ancora a bocca aperta intorno a se, notando poi una volta alzato lo sguardo, la grande cupola in cui culminava l'immensa stanza in cui si trovava. Era decorata con statue bianche come il resto della villa, raffiguranti ogni genere di animale e la volta era dipinta di un rosso così forte e vivo che le foglie dorate che completavano l'opera al suo interno sembravano prendere fuoco.

Le persone intorno a lui avevano uno sguardo sorridente e volti gioviali. Erano tanto diversi da lui, avevano la pelle olivastra, gli occhi dipinti di nero, dei marchi rossi in mezzo alla fronte, i loro capelli erano scuri e lisci, e i loro vestiti erano davvero molto strani rispetto a quelli che aveva sempre visto di solito tra i corridoi di casa sua in Inghilterra, ma Jake percepiva gioia.

Dopo mesi di sofferenza e tristezza, di incomprensione e lacrime, finalmente Jake sentiva gioia. Un bimbo così piccolo non può provare così tanto dolore gli dicevano, ma solo in quel momento di rese conto che quella era davvero gioia. Quella sensazione di appartenenza e di calore così profonda era giunta in lui appena arrivato, non sapeva che cos'era non sapeva dargli un nome, forse non gli importava, la sua giovane età non badava a tutto questo, per lui era solo sollievo dal dolore e dal continuo pensiero di sua madre che soffriva. Ora stava bene. Una donna giovane e sorridente dai lineamenti dolci e bellissimi gli si avvicinò piano, porgendogli una piccola scatolina strana, sembrava una piccola cupola di legno chiaro, una cosa che Jake non aveva mai visto. Il padre accanto a lui gli sorrideva a sua volta e lo rassicurava tenendogli una mano sulla spalla minuta, come a spronarlo ad avvicinarsi e accettare il dono.

«Benvenuto Signorino Jake, io sono Ravi, spero che abbia fatto un buon viaggio.»

La donna gli rivolse una specie d'inchino e gli porse il suo regalo, le mani aperte con i palmi in alto, le dita dipinte di rosso cremisi fino alla seconda falange, gli occhi enormi e neri con ciglia lunghissime, i suoi capelli raccolti in un intricato ricamo scuro che gli incorniciavano il viso. Il suo saree era di un azzurro così intenso da fargli quasi credere che fosse caduto davanti a se un pezzo di cielo limpido e chiaro, sereno e meraviglioso.

Jake era senza parole, sembrava estasiato, il padre lo spronò a ringraziare.

«Non dimenticare le buone maniere Jake!»

«No padre, certo.»

Sembrò riscuotersi, e rimanendo ancora immobile con la piccola scatolina di legno tra le manine, guardando ancora la giovane donna davanti a se che ora teneva le sue mani sotto di esse, ebbe il coraggio di parlarle.

«Grazie Signora, lei è bellissima.»

Tutti improvvisamente risero di gusto, Jake sorrise a sua volta, rassicurato anche dalla calda risata del padre, nonché dalla carezza della giovane sulle sue piccole dita.
«Grazie Signorino, anche lei è molto bello, benvenuto nella Città Rosa.» Rispose lei con una voce così dolce da sembrare miele denso e puro.

Ravi. La persona che più associava ad una madre, ad un'amica, ad una sorella. Ravi che gli era sempre stata vicino fin dal primo momento in quella terra e che mai lo aveva fatto sentire diverso.

Ravi che lo faceva addormentare con le sue storie ambientate nella fitta giungla del Madhya Pradesh mentre l'odore di sandalo invadeva la sua stanza ad est del palazzo. Ravi che gli copriva ogni marachella che poteva combinare in un solo giorno. Ravi che lo portava al tempio dove pregavano il Buddha e gli spiegava quali erano gli insegnamenti dei monaci che abitavano nel misterioso Tibet. Lei che gli aveva insegnato che tutte le religioni del mondo hanno un valore, non solo quella che si decideva di seguire. Ravi alla quale la diversità non aveva mai fatto paura, che metteva sempre gli altri al primo posto. Che non esitava ad aiutare qualcuno indipendentemente dalla casta o dal ceto. Ravi che gli aveva donato Kiran, o come lo chiamavano loro Key, il suo unico fratello, il suo सबसे अच्छा दोस्त migliore amico.

I suoi primi otto anni in India furono un sogno per Jake. Il suo migliore amico Kiran, della sua stessa età era l'unico che come Ravi parlava l'Inglese e con il quale aveva legato fin dal primo momento. Kiran non conosceva il suo padre biologico e lui aveva perso sua madre, si capivano per quanto piccoli fossero. Crebbero all'unisono come una sola anima. Dov'era uno era anche l'altro, non si lasciarono mai dal primo giorno. Kiran gli insegnava l'hindi giocando, lui gli insegnava a leggere in Inglese. Kiran gli faceva vedere come corrompere le scimmiette impertinenti al bazar centrale quando accompagnavano Ravi a fare compere e lui gli insegnava a non avere paura del cavalli. Kiran che gli aveva mostrato come prendere un serpente senza paura e con delicatezza, che gli aveva spiegato ogni odore diverso che sentiva, che gli aveva raccontato di ogni strana creatura che veneravano nella Città Rosa.

La sua Jaipur. Il Maharaja era ben contento dei commerci esteri che stavano facendo arricchire quella meravigliosa terra. Il Conte Thompson da sempre stimato per il suo commercio di cotone, seta ma soprattutto cashmere, era una delle figure più ben volute in tutto il paese. Aveva una grande villa dove moltissime persone lavoravano per lui, si era fatto voler bene perché al contrario di molti commercianti Inglesi lui era il Conte che non pretendeva. Lui aveva da sempre voluto gestire i suoi affari personalmente, trascurando la famiglia certo, trascurando i suoi possedimenti in Inghilterra, ma sempre rimanendo coerente con i suoi principi, in India aveva trovato la pace. Lady Thompson insieme al figlioletto avrebbe dovuto raggiungere il marito entro un anno dopo la decisione di lui di rimanere a Jaipur per un tempo indefinito. Era ben contenta di farlo, stufa dei salotti dell'aristocrazia e dei discorsi altolocati delle mogli annoiate di banchieri e avvocati, ma la tisi l'aveva portata via troppo presto e così con grande dolore e profonda tristezza il Conte era tornato non per il motivo che sperava. Non aveva neanche potuto dire addio alla moglie, mentre moriva lui era in viaggio, ma l'aveva seppellita nella cappella di famiglia su una dolce collina che dava sulla loro tenuta, in un piccolo cimitero dentro un boschetto di faggi bianchi. Aveva poi delegato al fratello la gestione della grande tenuta che avevano e prendendo con se il figlio di cinque anni, che praticamente non conosceva e tutto il personale di servizio al seguito, volle subito tornare ai suoi affari. Lontano da l'Inghilterra, lontano dal dolore, lontano dai ricordi.

Jake non aveva mai passato così tanto tempo con il padre, gli sembrava di non conoscerlo prima e in effetti era proprio così, ma adesso dopo anni passati al suo fianco nel Rajasthan, sapeva che uomo era, lo sapeva bene, lui gli aveva dato l'opportunità di conoscerlo, di conoscersi a vicenda.

Il Conte era un uomo leale, corretto, sorridente, gioviale, non somigliava affatto ai Conti che ricordava, lui era diverso. Certo a Jaipur durante le feste ufficiali si manteneva un rigore Inglese per gli ospiti, il personale della famiglia conosceva ogni sorta di cerimonia e etichetta, erano stati ben istruiti dai colleghi inglesi, ma si respirava un'aria diversa, meno impostata, più spontanea.

Quando Jake era dovuto tornare in Inghilterra perché sua nonna lo reclamava a gran voce, scrivendo al padre nelle sue numerose lettere che non poteva crescere un figlio come, testuali parole; una scimmia ammaestrata! Per lui fu un dolore immenso. Non voleva lasciare Ravi, non voleva lasciare Kiran, non voleva lasciare l'India. Ma fu costretto e il padre per la prima volta in vita sua, gli impedì di scegliere. Con il senno di poi fu una decisione saggia in effetti, ma Jake in principio non capiva, come avrebbe potuto? Per lui significava solo essere strappato ancora una volta a ciò che amava.

Dopo ben 5 anni di cerimonie, collegi prestigiosi a Londra, completi d'alta sartoria, dressage con stalloni purosangue, gare di dibattito con ragazzini viziati, viaggi a Parigi e Berlino, incontri con la più alta aristocrazia Inglese e ricevimenti in sale da tè stuccate di fresco, Jake finalmente poté tornare in India.

La nonna ormai era anziana, lo aveva istruito a dovere e lui era diventato il perfetto gentiluomo viziato che aveva sempre desiderato come nipote e come partito per le numerose ragazze che gli avrebbero presentato lì o a Jaipur nel corso degli anni. Dopotutto era il primogenito del Conte Thompson ed erede di un importante posizione politica e finanziaria, il padre era molto fiero e lui molto diligente. Peccato che per tutti quegli anni Jake avesse sempre continuato imperterrito, anche di fronte ai divieti di sua nonna, a recitare i mantra che Ravi gli aveva insegnato, sgranando il suo mala preferito nelle stanze di quella casa troppo grande. Aveva continuato ad indossare i suoi achkan di nascosto, aveva insistito a rifiutare il tè perché quello che beveva in India era molto ma molto diverso e non riusciva ad abituarsi, e aveva provato a non scordare l'hindi che praticava ogni tanto da solo nel silenzio della sua stanza.

Al suo ritorno, nulla sembrava cambiato. La felicità di tornare finalmente da Kiran, da Ravi e da suo padre, era così forte che sembrava non esserci nulla che potesse accadere che rovinasse un simile idillio. Ma certe volte bisogna fare i conti con la realtà e spesso questa è più amara di quanto si creda.

«Tuo padre vuole sposare mia madre.»

Kiran glielo disse con una semplicità che non credeva possibile. Erano entrambi stesi sull'erba del grande cortile del Jantar Mantar a guardare il cielo che si tingeva di rosa al tramonto, i versi dei pavoni del Palazzo del Vento si sentivano anche da lì, cantavano sul finire di una lunga giornata di sole e calura. Era tornato da neanche tre giorni e aveva visto suo padre solo di sfuggita prima che partisse per Nuova Delhi per affari, ma Kiran volle anticipargli la notizia, non resisteva più.

«Te lo dirà lui appena ritorna.»

L'inglese del suo amico era perfetto e lui gli fu grato di parlare solo con quello per quei primi giorni, sapeva che lo faceva per farlo riabituare un po' alla volta.

Kiran era diventato un bellissimo giovane uomo. I capelli corvini erano leggermente lunghi fino a metà delle orecchie ma lui li sistemava sempre all'indietro scoprendo un viso che non passava inosservato. Zigomi alti, occhi grandi e del colore dell'ambra scura, labbra piene e voluttuose. Un accenno di barba gli cresceva lungo la mascella definita rendendolo ancora più affascinante, un vezzo che anche Jake voleva azzardare, infatti non si era più rasato da quando era arrivato. Kiran era forte, longilineo, snello ma con tutti i muscoli al suo posto. Era diventato un giovane uomo molto attraente e sapeva che effetto faceva alle ragazze. Già quando avevano dodici o tredici anni erano sempre seguiti da quattro o cinque ragazzine figlie del personale di servizio della villa, che li indicavano con sorrisi furbi e che volevano sempre prendere parte a qualche avventura spericolata che ogni tanto comprendeva anche una passeggiata in elefante fino ad Amber Fort pur di stare con loro, venendo poi immancabilmente sgridate una volta fatto ritorno dai genitori preoccupati. Adesso non erano cambiate di molto le cose in effetti. Jake era comunque tornato ad essere l'attrazione principale del quartiere essendo l'unico ragazzo Inglese per giunta figlio di un Conte e di conseguenza anche Kiran non poteva perdere interesse.

«Ravi è sicura?»

«Mia madre ama tuo padre da anni Jake, non c'era neanche bisogno che me lo dicessero, prima o poi sarebbe accaduto e basta.»

Kiran aveva ragione. Ravi amava il Conte probabilmente da anni, ma le leggi Indiane gli impedivano di potersi sposare. Non era pensabile per una donna del personale di servizio arrivare a tanto, mai, non sarebbe stato decoroso. Ma il Conte fin dal primo giorno che l'aveva vista aveva provato affetto per quella ragazza madre, che era stata una sposa bambina e che con tanta devozione e gentilezza stava crescendo il figlio senza un padre. Voleva riscattare la sua posizione lavorando per il Conte senza chiedere o pretendere trattamenti di favore solo perché neanche tredicenne gli era toccata una sorte indegna. L'uomo non gli aveva mai negato nulla e anzi gli aveva chiesto di prendersi cura del suo bene più prezioso quando lo avrebbe portato lì con loro, suo figlio, che aveva esattamente l'età di Kiran. Il Conte all'inizio aveva pensato che Ravi potesse essere una buona compagnia anche per la moglie, gli avrebbe potuto fare compagnia nei lunghi mesi della sua visita a Jaipur. Ma poi le cose non erano andate bene. Ravi si era presa cura di Jake da quando era arrivato come se fosse suo e il Conte si era perdutamente innamorato, giorno dopo giorno, di quella fanciulla indiana che poche gioie aveva avuto nella sua breve vita.

Il Maharaja aveva acconsentito a quelle nozze dopo tanti anni forse spinto anche dal riconoscimento verso il Conte per avergli dato la possibilità di esaltare e rendere florida una città dimenticata in passato. Il Maharaja era la legge del Rajasthan, non c'era bisogno di altro, la sua parola era ultima, così disse sì.

A Jake non importavano le spiegazioni, non c'era nulla da spiegare infondo. Ravi gli diceva sempre che: L'amore non si sceglie, l'amore non si decide, arriva e basta. In che modo lo fa non possiamo saperlo ma quando arriva lo senti dentro di te.

E Jake ci aveva sempre creduto. Non aveva mai smesso. Ma lui ancora non si era mai innamorato. Aveva provato un sentimento simile prima di tornare in India o almeno lo credeva, ma non pensava che potesse essere vero, perché se quello era amore o ci si avvicinava allora forse Ravi si sbagliava di grosso. Il ragazzo per il quale aveva perso la testa era un coetaneo che vedeva ogni settimana alle Royal Mews a Londra, e credeva di essere ricambiato, ma forse non era mai stato così. Avevano consumato un fugace rapporto sessuale scomposto, scomodo e violento oltre il lago del Saint James Park dentro una rimessa per attrezzi. Ma l'amaro in bocca per le parole che quel vigliacco aveva usato contro di lui nel momento del contatto non gli erano mai uscite dalla testa.

«Se ti azzardi anche solo a dirlo a qualcuno ti farò impiccare, io non sono uno schifoso sodomita come te, questo non significa niente! Niente mi hai sentito?»

Mentre quello spingeva in lui senza neanche guardarlo ma invece schiacciandogli la testa contro il freddo muro di legno della rimessa mentre gli ansimava sul collo, lasciandogli addosso dolore e sensi di colpa, Jake si era chiesto se quello fosse una qualche forma di amore, ma l'umiliazione di certo non lo era. Da quel giorno non cavalcò più alle scuderie reali, preferì quelle di casa sua, nel suo comfort, sperando un giorno di trovare il suo posto sicuro tra le braccia di qualcuno che lo avrebbe accettato anche se diverso, che avesse avuto voglia di guardarlo mentre sentivano le stesse cose, che avesse avuto per lui parole gentili e non insulti. Non aveva rinunciato al sesso certo che no, conosceva posti a Londra di cui nessuno parlava, tranne qualche compagno di college e anche se molto giovane, poteva usufruirne, perché non avrebbe dovuto? Ma non aveva mai più provato un affetto come quello che credeva di provare per quel ragazzo che gli aveva preso dignità, verginità e cuore.

L'amore che Ravi provava per il padre e viceversa, era davvero diverso, era vero, lo sapeva. Loro si guardavano negli occhi, si parlavano, aveva visto il padre fare gesti gioiosi e teneri nei confronti della donna e lei sorrideva sempre. Non c'era violenza, non c'era possessione, non c'era diversità o fretta. Andava oltre tutto quello, era un tipo di amore che lui forse avevo letto solo nei suoi amati libri.

Solo Kiran sapeva di Jake, solo lui aveva avuto il cuore da fratello di capire, quando a tredici anni trovò Jake rannicchiato sul muretto interno di una finestra che dava sul giardino della casa. Se ne stava lì ad osservare di sotto nel cortile uno dei ragazzi più grandi del personale, cercare di calmare un elefante che si stava agitando per colpa di qualche scimmia impertinente nei paraggi. L'aria era satura di umidità, era molto caldo quel giorno e i capelli castani di Jake gli si erano appiccicati alla fronte. Un leggero velo di sudore gli ricopriva il viso e sembrava affannato, l'adolescenza era arrivata rapida ed implacabile quell'anno, mutando nei due voci e forme. Kiran gli si avvicinò piano, sempre furtivo come una tigre, riusciva a percepire quando l'amico era a disagio e non lo vedeva da quella mattina, il che era molto strano perché vivevano in una sorta di simbiosi.

«Jake क्या तुम बीमार हो?» *stai male?

L'innocenza della voce del moro fece sussultare il castano che ancora poggiava il mento sulle ginocchia rannicchiato e scalzo con i piedi caldi a contatto con l'arenaria che si stava scaldando a sua volta sotto il sole, rimaneva in silenzio. Lo sguardo fisso in basso dove l'elefante con profondi barriti mostrava la sua disapprovazione al bel giovane davanti a lui che cercava di rassicurarlo.

«Devo chiamare Daya, non ti senti bene?»

«Non lo so Key, forse sono malato.»

Lo disse con un tono così sommesso e triste che Kiran si preoccupò subito, mettendosi nella sua stessa posizione davanti a lui, facendo combaciare le dita dei loro piedi in un piccolo contatto. Le cavigliere di cuoio che entrambi portavano erano sporche di sabbia fine e chiara, segno che tutti e due si erano cercati anche all'esterno del palazzo quella mattina pur di trovarsi.

«Cosa credi di avere?»

Jake distolse lo sguardo dal ragazzo in cortile e i suoi occhi chiari e celestiali incontrarono quelli ambrati del fratello. Non poteva mentirgli non a lui, non sapevano ancora bene cosa fosse la fiducia ma conoscevano la lealtà e avevano fatto troppi patti tra di loro da tradirla, così diversi e così uguali.

«Mi sono svegliato tante notti pensando a Majid, e beh ecco...il mio corpo...»

Jake era talmente imbarazzato da diventare improvvisamente paonazzo e così si coprì il volto con le mani fini e ficcò di nuovo la testa tra le ginocchia, sperando di riuscire a sprofondare in un vuoto che neanche lui conosceva. Kiran lo guardò corrucciato, Jake tremava, non lo aveva mai visto in quel modo.

«Jake raccontami altrimenti come faccio a capire?»

«No mi vergogno troppo, non posso dirtelo.»

«Ti vergogni di me?»

La sua voce calda e sincera gli fece di nuovo sollevare la testa, una mano di Kiran si appoggiò sul suo ginocchio e gli sorrise spontaneo. Da lui Jake aveva imparato a leggere le persone, come ci riusciva lui nessuno poteva, era un talento naturale, ma in quel momento e quando si trattava di se stesso, era restio a scoprirsi. Ma non poteva vergognarsi di lui, aveva ragione.

«Lo sogno ogni tanto e il mio corpo reagisce in modo...strano ecco...io...»

«Come quella volta che ho sognato Ajit? Ti ricordi cosa è successo»Kiran aveva capito subito nella loro ingenuità di tredicenni, aveva capito senza troppe spiegazioni e sorrideva, comprendendo un imbarazzo comune.

«Sì, come quella volta, ma lei è una ragazza, va bene...»

Jake abbassò di nuovo lo sguardo, era in imbarazzo, le lacrime promettevano di uscire da un momento all'altro, gli occhi erano lucidi da sembrare specchi d'acqua. Il moro si avvicinò ancora di più all'amico vedendolo in seria difficoltà. Non poteva lasciarlo lì nel dolore che stava provando e che lui in qualche modo percepiva forte.

«Che importa?» disse semplicemente «Chi dice cosa è giusto o cosa non lo è in queste cose?»

Jake lo guardò quasi sbalordito, ancora immobile.

«Voglio dire...non credo che ci siano problemi no?»

In realtà per il luogo e il tempo in cui vivevano c'erano eccome, ma in quel momento erano solo due ragazzini di tredici anni che cercavano di capire qualcosa a quello che gli stava succedendo a corpo e mente, e non c'era nulla di più normale per loro, la spontaneità di situazioni e fatti era più importante di altro.

«Non lo so, ma io ci penso sempre a lui, e il mio corpo reagisce ecco...»

«Che differenza fa? Ajit o Majid fa lo stesso non credi, per me non c'è nulla di male!»

Il volto di Jake s'illuminò di nuovo. Era stato facile e con Kiran era sempre stato così. Lui lo capiva, lo consolava, sapeva sempre cosa dire. Era saggio il suo amico anche se era solo un adolescente. Nemmeno cinque minuti dopo erano già corsi via ad iniziare sicuramente una delle loro avventure all'interno del palazzo, dimenticandosi completamente della diversità e del giudizio, dell'imbarazzo e della vergogna.

Solo Ravi se ne era accorta nei mesi successivi, prima che Jake partisse per l'Inghilterra ma non ne avevano mai parlato, non ce ne era bisogno, non ancora.

Tornando dal Jantar Mantar, si erano raccontati alcune cose del viaggio di Jake, di quanto fosse diversa Londra e del volere di Kiran di volerla vedere, forse un giorno. Poi avevano cenato con Ravi e si erano messi nelle sue stanze al secondo piano della villa a prendere un tè nero dopo cena ritrovandosi tutti e tre dopo molti anni divisi ma sempre gli stessi anche se un po' diversi.

«Tu sai che lo so Ravi.»

La donna ormai adulta e sempre bellissima si stava come sempre intrecciando i lunghi capelli scuri in una treccia sul lato destro del viso. Le dita veloci ed esperte non perdevano neanche un intreccio e concluse velocemente la sua opera.

«Non credo di capire छोटा बंदर» *scimmietta

Fece l'indifferente prendendo un sorso di tè nero mentre osservava Jake da sopra la tazza bordeaux senza manico.

Erano tutti e tre abbandonati sui cuscini morbidi che ricoprivano metà del pavimento della stanza, Kiran stava giocando delicatamente con Esh il suo serpente giallo degli alberi con le squame così chiare e paglierine da sembrare ricoperto di ocra pura, e Jake era steso di schiena con in mano un libro come sempre, che stava sfogliando annoiato. Ravi li osservava entrambi, con fare colpevole.

«Ravi tu non sai mentire, tuo figlio non sa tenere i segreti e io neanche quindi...» Ovviamente stava scherzando, erano entrambi bravissimi a mantenere i segreti, un dono che con il tempo gli sarebbe stato utile e forse gli avrebbe anche salvato la vita.

«Key! il Conte era stato chiaro, perché glielo hai detto?»

La madre guardò suo figlio con sguardo arrabbiato, ma era tutta una messa in scena.

«Non riesco a non dirgli le cose, è più forte di me!» ammise il moro.

«Comunque volevo solo dirti che ne sono felice.»

Tagliò corto Jake quasi indifferente, da dietro il libro, senza guardarla in faccia, nascondendosi. Lei rimase immobile, Jake abbassò piano il libro trovandosi davanti gli occhi scuri della donna e gli sorrise finalmente.

«Sono molto contento Ravi.»

Aggiunse sincero, mentre anche Kiran sorrideva ancora con Esh tra le mani tranquillo che gli strisciava lungo il braccio.

«Tu cosa devi raccontarmi dell'Inghilterra?»

La donna avrebbe voluto ancora parlare della notizia che la riguardava ma sapeva che aveva osato fin troppo, era giusto che il Conte desse la notizia al figlio, quindi volle cambiare discorso, voleva sapere cosa avesse imparato il suo piccolo J nella terra che lo aveva visto nascere, voleva essere fiera anche se lo era già.

«Niente che non ti abbia raccontato nelle lettere, davvero!»

Jake si alzò seduto e prese una tazza di tè bollente che profumava di gelsomino e menta. Quanto gli era mancato il suo vero tè, non ci poteva ancora credere che adesso avrebbe potuto berlo senza esitare. Sorseggiò piano godendosi ogni goccia di liquido caldo che gli accarezzava la gola dolcemente.

«Hai conosciuto qualcuno?»

Ravi non perse tempo, sapeva quanto fossero belli Key e Jake, sapeva che il giovane inglese era un partito eccellente e sicuramente aveva avuto occasione di conoscere qualcuno, ma sapeva anche che i suoi gusti non erano consoni al tempo e al luogo in cui vivevano. Ma tra quelle quattro mura erano sempre stati sinceri e dovevano continuare ad esserlo.

«Forse.»

Jake smise di guardare la donna dando ancora un lungo sorso alla calda bevanda e rivolgendo lo sguardo verso Kiran che sorrise, capendo la muta richiesta di aiuto dell'amico.

«Madre, Jake forse non si sente pronto a parlarne.»

Grazie Key, intervento perfetto come sempre!

«Oooh certo, non avrei mai chiesto mio piccolo Conte, se avessi saputo...» lei lo canzonò con un sorriso. Sapeva di potergli dire quello che voleva, era sua madre in fondo, non si vergognava di questo.

Loro risero. Erano ormai grandi, ma passare del tempo solo loro così uniti gli riempiva il cuore di gioia.

«Ho avuto qualche esperienza.» Disse poi d'un fiato il castano sorprendendo la donna che sgranò gli occhi dietro la tazza.

«Ma l'amore credo sia diverso, non penso di averlo incontrato.»

Poi si zittì, questa volta girandosi verso la grande finestra da cui traspariva un cielo così scuro da sembrare un velo dipinto, ma tanto illuminato dalle stelle da sembrare una città.

Ci fu silenzio per qualche istante, poi Kiran parlò inaspettatamente.

«Penso che un giorno lo troverai, magari non sarà chi pensi tu ma arriverà...»

Giocava ancora con Esh, che ormai stava rannicchiato sulla sua mano, Jake lo guardò e sorrise.

«Nessuno stabilisce cosa sia giusto o meno, non importa chi amerai, lo sentirai e saprai che è lui.»

Lui, aveva detto lui. Ravi sapeva e Jake quasi si commosse. In tutti quegli anni in Inghilterra si era sentito come un assassino, un ladro, un criminale, si vergognava e i suoi silenzi così difficili da decifrare non aiutavano mai. Non aiutava neanche il dovere verso signorine isteriche dell'alta borghesia che lo vedevano come un premio o la sensazione di inadeguatezza così forte che ogni giorno si trovava a dover tenere a bada. Ma lì no, lì sapeva di essere a casa.

Un mese dopo il suo ritorno e pochi giorni dopo quello del padre, alla villa dei Thompson ci fu un grande ricevimento. Il Conte voleva presentare il figlio appena tornato da Londra a tutti i ricchi commercianti di tessuti della Compagnia delle Indie Orientali che erano stati invitati per affari e avrebbe anche sicuramente annunciato il suo matrimonio. Doveva rafforzare e ribadire la sua posizione in Rajasthan, nonché iniziare il suo erede a quel mondo di commercio, viaggi, sacrifici e doveri che sapeva Jake avrebbe portato avanti con Kiran in modo impeccabile. Erano molto legati a quella terra e a tutto quell'impero in cui erano cresciuti, non avrebbero rifiutato. Sarebbe stato presente il Maharaja con la moglie e le più alte cariche della Compagnia erano già arrivate. I due giovani avevano deciso di indossare i loro migliori abiti da cerimonia e vederli così in frac e cravatta, eleganti e tirati a lucido, soprattutto con delle scarpe addosso, riempì il cuore di Ravi di gioia. Kiran era leggermente imbarazzato, da troppo non c'erano state cene formali alla villa, ma sapeva che con il fratello al suo fianco tutto poteva funzionare. Erano stati allestiti gazebi enormi con lanterne che illuminavano ovunque nell'immenso giardino della dimora, incensiere in argento emanavano un caldo odore di cotone bianco, il preferito di Jake. Un banchetto a buffet degno di un Re era stato allestito sulla grande terrazza che collegava l'interno dall'esterno della casa. L'ora del tramonto era la migliore per iniziare con un brindisi che avrebbe preceduto la cena servita a tavola nella grande sala al piano inferiore. Le luci calde dei fuochi accesi, i musici che si esibivano in melodie armoniose tra tamburi e sitar e la gioia che si respirava quella sera erano unici, un India magica, una Jaipur inedita, una Città Rosa che risplendeva. Mentre sotto un grande fico Jake stava sorseggiando dello champagne con Kiran che non era per niente abituato a tutte quelle formalità a differenza del castano che dopo anni in Inghilterra aveva imparato anche troppo, un paio di signori gli si avvicinarono. Erano eleganti e dai modi raffinati, ma Jake non ricordava di averli mai visti neanche quando ogni tanto la loro villa ospitava nobili in transito da Jaipur per viaggi di lavoro. Dovevano essere nuovi clienti di suo padre.

«Lei Milord deve essere il giovane Conte di Howard, giusto?»

Un uomo di qualche anno più grande di lui gli si era avvicinato con fare spavaldo, un calice di champagne strapieno tra le dita, un frac elegante e scuro, capelli perfettamente ordinati, occhi scuri e taglienti e infine in bella vista sul petto una mostrina dorata con lo stemma di famiglia come si usava portare nelle cerimonie ufficiali; quattro api in rilievo messe una di fronte all'altra in modo da comporre un piccolo cerchio centrale in cui era incastonato uno smeraldo. Al suo fianco, alto e robusto il suo valletto che lo teneva sotto controllo come se fosse il Re d'Inghilterra, guardandosi intorno in continua apprensione come se temesse che da un momento all'altro qualcuno potesse estrarre un coltello per colpire il suo padrone. Comportamento strano in quel contesto, pensò Jake che di nobili ne aveva visti a bizzeffe.

«Con chi ho il piacere di...»

«Oh mi perdoni, ma certo. Suo padre deve averle parlato di me ma non ci siamo mai visti di persona, Edmund Stafford futuro Conte ed erede di Harlaxto.»

Mostrando un sorriso che dire subdolo era sicuramente un eufemismo, gli porse la mano guantata da purissimi e leggeri guanti in seta bianca. Jake ricambiò gentile la stretta di mano.

«Mi perdoni lei Milord, molte volte mi rendo conto di non conoscere di persona ancora nessuno di questo mondo di commercio e relazioni pubbliche. Almeno ancora nessuno fuori da qui.»

Il tono di Jake era impostato, serio, proprio come gli era stato insegnato nei lunghi anni in Europa. Sapeva come rivolgersi a Signori, Conti, Duchi e Marchesi. Non solo, era un grande osservatore e avendo passato gran parte della sua vita con Kiran e Ravi era ben consapevole di come aggraziarsi le simpatie di un nobile e che parole usare per sedurlo.

«Avrà sicuramente modo stasera, non sarà difficile glielo assicuro!So che lei è tornato da poco dalla nostra bella Inghilterra e ci tenevo a conoscerla di persona, dopotutto ambiamo entrambi alla stessa cosa, il fiorente commercio di tessuti.»

Edmund pareva voler dare l'impressione di essere ormai navigato nel mestiere e in effetti lo era. Jake sapeva che la famiglia Stafford aveva sempre desiderato avere contatti più stretti con il Maharaja. Suo padre glielo aveva detto più volte e Edmund al contrario di molte famiglie Inglesi gestiva di persona gli affari quindi poteva essere presente. Ma per adesso il primato in quella parte di India sperduta era dei Thompson, senza alcun dubbio.

«Credo di sì!»

Jake non sembrava convinto di quell'affermazione ma in quel momento non voleva neanche soffermarsi tanto a discutere, gli rivolse un sorriso sghembo, uno dei suoi falsi migliori.

«Avrò molto di cui parlare con suo padre nei giorni a seguire, forse potremmo rivederci.»

Mentre con lo sguardo sfuggente sembrava non curarsi di chi aveva davanti, sorseggiò il suo champagne con fare snob.

«Sì potrebbe capitare in effetti.»

Jake a sua volta bevve dal calice, osservandolo e finalmente i loro sguardi s'incontrarono. Come due leoni che si trovano nello stesso territorio di caccia. Sulla difensiva, come se qualcosa dentro di lui avesse suonato una campanella per avvertirlo di un pericolo un brivido gli percorse la schiena.

Kiran era rimasto in disparte osservando la scena e facendo rimbalzare gli occhi svegli e ambrati da Jake ad Edmund al suo valletto, che non aveva mai smesso di cercare in giro qualcuno che potesse fare del male al suo padrone. Immaginò che una persona tanto controllata in effetti non doveva avere una bellissima reputazione visto che doveva portarsi dietro in continuazione una scorta, anche ad una festa fatta apposta per quel genere di persone.

Jake volle poi volgere il discorso su altri argomenti, certo che la sua maestria nelle conversazioni sarebbe servita a qualcosa.

«Come trova questa parte di India?»

«Oh! Sempre dannatamente puzzolente e afosa in vero, queste persone non sembrano sapere molto di come si vive nella vera civiltà e rimango sempre un po' disgustato da certi usi, come dire, primitivi.»

Jake era esterrefatto, come poteva parlare così della sua terra e della sua famiglia? Sì perché lui si sentiva parte di tutto quello e sicuramente la descrizione poco carina che Edmund stava facendo in casa sua per giunta, lo spinse a provare subito un certo fastidio verso la sua subdola presenza.

Ma rise, sì Jake sorrise, perché quello era il giorno di suo padre, era il giorno in cui il Maharaja avrebbe ufficializzato la notizia dell'unione tra una governante Indiana e un Conte Inglese, la prima mai vista in tutto il territorio. Ed Edmund Stafford avrebbe ugualmente avuto il suo schiaffo in pieno volto anche senza usare parole di costernazione o ira.

«Credo che mio padre mi reclami, se volete scusarmi.»

Svuotò il suo bicchiere in un sorso e con un veloce cenno di commiato, senza rispondergli neanche, Jake si allontanò da quella persona che lo stava davvero innervosendo. Kiran aveva già tolto il disturbo, era molto meno diplomatico di Jake e visto il modo in cui aveva parlato Stafford, senza neanche presentarsi al moro senza neanche guardarlo come se non lo avesse neanche notato tanto si sentiva superiore, lo aveva sicuramente fatto arrabbiare. Pensare che gli erano bastate poche parole per capire che quella persona, che quell'individuo nascondeva ben altro del semplice interesse commerciale. Ma suo padre non era uno stupido, non avrebbe mai permesso che un suo pari aristocratico Inglese rovinasse tutto quello che con le sue mani e con tanto sacrificio avevano costruito, in una regione in cui nessuno aveva creduto e in un commercio che arricchiva più di qualunque altro, tranne che quello del tè.

Edmund Stafford era sicuramente una persona da tenere sotto controllo, ma al momento non lo preoccupava, voleva solo riprendere in mano la sua vita in quella sua bella terra di gioia e nessuno glielo avrebbe impedito.

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