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Capitolo 21


Non c'è albero che il vento non abbia scosso.

Proverbio Indù

La Signora Davies aveva la sua routine quotidiana che funzionava ormai da più di vent'anni. Si svegliava tutti i giorni alle 4:20 del mattino, si sciacquava appena il viso, si metteva la lunga treccia scura ormai striata di grigio con la quale dormiva, su un lato, metteva la vestaglia scura e poi presa la sua stola di morbido cashmere nero da dietro la porta della sua stanza, un regalo di Milord di tanti anni prima per i suoi primi dieci anni di servizio ad Harlaxton, usciva nei nebbiosi mattini del Lincolnshire. D'estate la aveva già una tenue luce per quell'ora che l'accompagnava lungo il suo solito tragitto, ma d'inverno si affidava alla luna ancora ben visibile nel cielo plumbeo e scuro, senza neanche una luce ad accompagnarla, perché la strada la conosceva bene. La sua figura scura si faceva strada verso la campagna e tranquilla camminava godendosi i rumori meravigliosi del mattino, che erano privilegio solo di pochi. Sentiva la fresca aria entrargli nelle narici, l'odore forte di erba e muschio la risvegliavano, d'inverno la civetta ancora l'accompagnava e d'estate aveva la fortuna di ammirare i cervi che placidi ruminavano l'erba fresca di rugiada intorno alla tenuta. Costeggiava il cortile sul retro, prendeva la strada che andava verso le scuderie e s'incamminava per andare proprio lì. L'odore di sterco e fieno, mescolato a quello forte di pelle e cuoio, inebriava ogni suo respiro, ma a lei piaceva. Passava qualche minuto coi cavalli della famiglia, li salutava tutti, facendo ben attenzione a non sporcarsi mai gli stivaletti che metteva di fretta. Accarezzava i loro musi morbidi, gli sussurrava parole dolci. Si sentiva a suo agio con quegli splendidi animali, si godeva il tepore delle scuderie e poi, stringendosi ancora nella stola calda, usciva e faceva un altro pezzo di strada, fino al laghetto. Amava camminare. Era un abitudine che non riusciva a spezzare, era un rito che la faceva stare bene, sconfiggeva le sue ansie, le sue paure, i suoi brutti ricordi, le sue improvvise palpitazioni quando certe cose succedevano all'interno di quella Tenuta così grande e smuovevano in lei sentimenti lontani che aveva imparato a tenere a bada, ma che alle volte di notte riaffioravano. Anche quella mattina, si era svegliata e aveva fatto lo stesso giro. Sapeva che le scuderie potevano lasciarle addosso un odore acre, quindi al ritorno si rinfrescava, si vestiva con il suo austero abito scuro e indossata la chatelaine che contraddistingueva il suo ruolo tra il personale di servizio. Si acconciava sempre i capelli in modo che non potessero darle fastidio durante il lavoro, in uno chignon basso e gonfio, puliva gli stivaletti anche se erano sempre immacolati e alle 5, mezz'ora prima degli altri, era pronta per iniziare il servizio. Era invecchiata negli ultimi anni, lo sapeva, lo sentiva. Le sue membra si erano fatte più morbide, i suoi risvegli erano sempre più faticosi, il suo viso, un ovale perfetto incorniciato da qualche riccio scuro ribelle che scappava al suo controllo abbellito da due profondi occhi scurissimi e dolci, adesso era attraversato da qualche ruga che purtroppo non poteva nascondere più. Quando guardava Milady, si rendeva sempre conto di quanto fossero diverse, e pur avendo più o meno la stessa età, di quanto fossero lontani i loro modi di vivere, di pensare, di comportarsi, e i loro visi. Milady certo tentava di nascondere i segni del tempo, poteva farlo, ne aveva i mezzi, lei invece no. Questa cosa non la disturbava, non la faceva sentire in difetto, ne prendeva solo coscienza, era una di quelle cose inevitabili che lo scorrere del tempo ti mette davanti. Aveva avuto una vita difficile la Signora Davies, era stata felice, davvero felice, per poco tempo in vita sua, e si chiedeva spesso, cosa ne sarebbe stata della sua esistenza se avesse avuto una famiglia sua, un marito, un altro lavoro che non fosse quello di dedicare un'intera vita a servire gli altri. Se lo chiedeva spesso, ma come sempre accadeva, riusciva a trovare una risposta anche a tutto quello. Lei doveva stare lì, quello era il suo posto, non sarebbe mai potuta andare da un'altra parte, mai, e di questo doveva ringraziare Milord.

Quella mattina, arrivando in cucina trovò il Signor Wood già in piedi che si stava preparando un tè caldo. Lavoravano insieme da molti anni ormai, erano praticamente cresciuti lì dentro e conoscevano ognuno le abitudini dell'altra, come una coppia di vecchi sposi. Lui era un uomo corpulento, burbero si sarebbe potuto pensare e molto spesso era anche severo, ma era la persona più gentile e cortese che si potesse trovare. Avevano sviluppato un rapporto così intimo e di fiducia reciproca che davvero potevano sembrare una coppia che era ormai insieme da anni. Nessuno però sapeva se ci fosse davvero o meno del tenero tra i due, in molti sicuramente lo pensavano. Il Signor Wood era sempre impeccabile nella sua livrea da Maggiordomo, un lavoratore instancabile, con i capelli scuri ormai però completamente brizzolati, e degli occhi curiosi che completavano un viso squadrato dalle labbra fini.

«Com'è la temperatura oggi?»

Chiese lui mentre il bollitore stava già fischiando. La Signora Davies gli passò una presina in stoffa massiccia.

«Credo che non pioverà, la nebbia è ancora bassa e il cielo chiaro.»

Il Signor Wood voltandosi con il bollitore in mano, riempì due tazze in porcellana che lei aveva appoggiato sulla grande isola di lavoro al centro della cucina, proprio davanti ai sei fuochi di cui la Signora Brown era particolarmente gelosa.

«Cosa credi che sia successo?» chiese poi il Signor Wood, sicuro che lei non avrebbe avuto bisogno di specifiche nel capire a cosa si stesse riferendo.

«Lui era molto scosso ieri, non ha voluto vedere il Signor Scott e credo che anche oggi toccherà al Signor O'Brian fare le sue veci. Non ho idea però di cosa abbia scatenato questa reazione.»

«Mi sembravano andare d'accordo, il signor Scott mi ha confermato che a Belfast è andato tutto molto bene.»

Prese entrambe le tazze e un bricco piccolo per il latte, si diressero verso la sala dove un grande tavolo centrale li ospitava per i pasti condivisi e si sedettero per bere il loro tè appena fatto.

«Credo che la faccenda si sia complicata dopo l'arrivo dell'erede a quanto pare.» La Signora Davies fece una piccola smorfia, riferendosi a Edmund e poi sorseggiò il suo Breakfast Tea, scuro, senza limone, ma con un goccio di latte. Il Signor Wood annuì.

«Hanry ha voluto il Signor Scott con sé per ogni cosa nelle ultime settimane, adesso dal nulla, non vuole vederlo, deve aver fatto qualcosa. Credi che Edmund c'entri?»

«Quello c'entra sempre. Ogni volta che arriva scatena sempre confusione, non lo so, io credo che il Signorino non sia pronto al matrimonio e non capisco però perché non lo dice e basta.»

«Non potrebbe mai. Sai che ormai ha 23 anni e non può più rimandare.»

«Lo so bene, ma non è felice.»

«La felicità per persone come loro non è questa, il Signorino forse troverà la sua un giorno ma sappiamo che non sarà all'interno del suo rapporto con la Signorina Wilkinson.»

Il Signor Wood aveva ragione. Hanry non avrebbe mai trovato la sua felicità con Elizabeth ma doveva farlo, era il suo compito, forse Edmund era stato in qualche modo brusco o lo aveva minacciato di qualcosa? Era confusa, non capiva perché lui volesse rinunciare anche a quella poco felicità che si stava ritagliando. Voleva capire. Doveva farlo.

«Il Signorino avrebbe bisogno di andarsene. Dovrebbe recarsi a Londra, magari provare con una carriera...»

«Ma come potrebbe? Milord e Milady lo vogliono alla tenuta, Edmund ripartirà e lui occuperà il posto che gli spetta.»

«Forse non è quello che vuole.»

«E' quello che deve fare. Ognuno ha un compito da svolgere nella vita, lo sai, questo è il nostro, loro hanno quello.»

«Non credo sia felice.»

«No, non credo, ma deve farlo.»

«Forse un giorno troverà se stesso.» Rifletté ancora la Signora Davies.

«Forse.»


***


Edmund aveva perso di vista suo fratello per l'intera giornata, ma sapeva che si era recato spesso fuori con la Signorina Wilkinson, quindi probabilmente, le sue minacce erano finalmente servite a qualcosa. La sua stanza era accogliente, ben illuminata, grande e addirittura collegata da un piccolo disimpegno ad un'altra che aveva adibito ad ufficio privato già dai tempi del college. Edmund aveva sempre voluto andarsene, anche prima che suo padre acconsentisse a fargli gestire gli affari esteri. Non si era mai trovato bene a casa, ancora meno da dopo che era arrivato suo fratello. All'età di sette anni il Signorino Edmund contava già un'innaturale arroganza, una lingua svelta e un assoluta mancanza di empatia verso ogni essere vivente e verso ogni cosa che faceva. Purtroppo i Signori Stafford non erano riusciti a trasmettergli l'affetto che probabilmente avrebbe meritato, e quindi non era cresciuto propriamente nell'amore. Milady dopo il parto aveva sviluppato quello che a quel tempo era chiamato, mal di vivere. Una profonda depressione, non ancora riconosciuta come tale, che l'aveva portata a rifiutare il suo stesso figlio nei primi mesi di età, negandogli addirittura il latte così da dover chiamare per forza una balia da Grantham, che provvedesse a lui. Gli negava tutto, anche le carezze e l'affetto di cui un bimbo di pochi mesi ha, in vero, assoluto bisogno. La Signora Davies addirittura, non si fidava a lasciarla sola con il piccolo, erano pochissimi anni che lavorava lì ancora non era governante, ma era sicura che se la Signora Smith, la loro vecchia governante, avesse lasciato soli mamma e figlio, forse quella avrebbe anche potuto lanciarlo fuori dalla finestra, tanto stava male.

Milord era indifferente a tutto, era contento di avere un erede maschio ovvio, ma era estremamente freddo nei riguardi di quello che lo circondava e di quello che stava succedendo alla sua famiglia. Sua moglie era cambiata, forse avrebbe persino dovuto rinchiuderla, e questa per lui era una profonda sconfitta personale, quindi faceva finta che nulla stesse davvero accadendo. Passava ore e ore fuori casa impegnato in battute di caccia, compravendita di terreni e affari riguardanti la tenuta, tutto pur di non dover assistere alla disfatta di una moglie debole, e alle urla isteriche del figlio, attendendo soltanto il momento in cui Edmund sarebbe cresciuto e forse a quel punto sarebbe cambiato tutto.

Con il passare del tempo infatti Milady sembrò guarire. Il medico di famiglia gli aveva raccomandato una vita tranquilla, senza sforzi, con lunghi periodi di riposo lontana dalla sua creatura e per curarla e tranquillizzarla nei giorni più difficili, gli somministrava iniezioni di morfina, tentando di calmare i nervi, per fortuna non ne occorsero molte. Quando Edmund aveva circa quattro anni, Milady iniziò a riprendersi del tutto, Milord ne fu molto felice, ma il bimbo aveva sofferto già troppo il rifiuto di sua madre e quindi sviluppò una certa insofferenza all'affetto.

Col passare del tempo infatti, Milady diventava sempre più apprensiva e appiccicosa e il figlio sempre più irrequieto e violento, violenza che sfogava purtroppo su piccoli animaletti che trovava in giardino. Ma nessuno fece caso a tutto questo. Forse solo il Signor Wood e la Signora Davies, ma questa era un'altra storia. Comunque Edmund crebbe e si fece più tranquillo, o così pareva a tutti, andava a momenti in realtà e alternava una pacata dolcezza inquietante ad un'estrema indifferenza e freddezza. Con l'arrivo poi di Hanry la situazione non mutò molto. Milady fu più tranquilla anche perché imparando dalla prima esperienza, il piccolo fu praticamente cresciuto dalla Signora Davies che nel frattempo era subentrata come governante fin dal primo istante, e Edmund passò gran parte della sua infanzia con il padre che lo indirizzò alla professione commerciale che poi avrebbe svolto.

Da grande Edmund sapeva di poter chiedere e fare tutto, tanto i genitori lo avrebbero sempre e comunque accontentato, come facevano ormai da una vita intera. Sapeva di avere la madre in pugno e anche il padre, aveva sempre ignorato suo fratello e forse non per colpa totalmente sua, era cresciuto con un odio profondo verso di lui con il quale doveva dividere quel poco affetto che i genitori gli riservavano, troppo spesso sostituito da controllo assoluto.

Così si era allontanato e si era circondato di persone che letteralmente lo veneravano, solo per la sua posizione e per il suo denaro. Che poi avesse anche sviluppato una malsana abitudine a disfarsi degli ostacoli della vita nei modi più che orribili, questo non lo avrebbe mai ammesso, neanche a se stesso, perché per lui andava bene così.

Quella mattina si stava preparando per scendere a colazione quando sentì bussare alla porta.

Il suo valletto, un uomo silenzioso, alto, serio, sempre con un cipiglio in volto che lo faceva sembrare ancora più arrabbiato, fece la sua comparsa in un completo grigio scuro, quello che indossava sempre quando lavorava. Era un ex militare nell'esercito Britannico e Edmund non solo lo aveva assunto come valletto, senza che in realtà ne facesse le veci, ma anche perché sapeva come poterlo difendere in caso qualcuno si fosse messo contro di lui, non a caso era la sua ombra, lo pagava a sufficienza, perché Edmund sapeva di avere molti e molti nemici.

«Novità?» chiese Edmund mentre davanti allo specchio, si agganciava gli ultimi bottoni della camicia bianca immacolata. I capelli unti già tirati indietro e l'aria arrogante già stampata sul volto.

«Credo che il valletto di suo fratello nasconda qualcosa. Troppo scaltro, troppo furbo. Ieri sera l'ho visto entrare nel giardino d'Inverno con il Signor Patel.»

«Con il Signor Patel?»

«Esatto.»

«Quindi alla fine ci tradisce. Sapevo che quello schifoso Indiano nascondeva qualcosa, non poteva essere onesto, non quella maledetta razza di scimmie.»

«Credo che si conoscano.»

«Scopri come, sai cosa fare in caso di necessità, non forzare troppo la mano, ma scopri chi diavolo è quello stupido valletto. Io quella faccia l'ho già vista, se pensa di prendermi in giro a sbagliato di grosso.»

«Sì Signore.»

Il valletto fece per andarsene, poi fu richiamato.

«Ah un'ultima cosa. Dai una lezione a Bennet, quello stronzo bastardo è un presuntuoso arrogante, non fa per noi, non con quell'atteggiamento.»

«Certo Signore.»

Edmund sorrise al suo riflesso nello specchio, indossò la giacca di un verde petrolio e sospirando si tirò ancora indietro i capelli, in un gesto di stizza, quasi infastidito.

«Nulla si metterà in mezzo ai miei piani.»


***


Nei due giorni successivi alla cena del fidanzamento, Hanry aveva davvero cercato di fare di tutto per non vedere Jake. Il giorno successivo ci era riuscito, aveva lasciato nuovamente Elizabeth in balia di se stessa anche dopo il loro bacio, ma doveva fare i conti con se stesso e con quella maledetta sensazione di sentirsi continuamente sbagliato, anche mentre stava baciando la sua futura moglie, anzi, forse proprio in quel momento. Così il giorno seguente aveva organizzato una battuta di caccia al fagiano con il suo futuro suocero il Duca di Wilkinson, e qualcun altro come l'avvocato Bennet, per avere la certezza che almeno fino al primo pomeriggio non avrebbe dovuto giocare a nascondino in casa sua per non imbattersi nel valletto. Connor si era rivelato un ottimo sostituto, ma moralmente Hanry era a pezzi. Continuava a chiedersi il perché di mille cose, perché quello, perché quell'altro, perché lui si era stupidamente innamorato di uno sconosciuto? La sua mente era piena stracolma di ricordi degli ultimi due mesi e tutto gli faceva un male tremendo. Quelle sensazioni, quelle parole, quei momenti tra di loro che aveva vissuto così profondamente adesso gli si stavano ritorcendo contro. E si stava sentendo un vigliacco, un codardo, perché semplicemente non riusciva a chiarirsi con Jake. Forse doveva dargli l'opportunità di spiegare, di parlare, ma si sentiva tradito. Altri segreti, altre bugie, lui non le poteva sopportare, anche se sapeva che avrebbe dovuto e forse, quella reazione non l'aveva prevista, non da lui, non da la persona che amava. Perché sì, Hanry era innamorato, innamorato perso e questo era il suo più grande e insormontabile problema. Così anche adesso che era appena tornato dalla proficua caccia con il Duca, si stava svestendo per concedersi un bagno caldo, e mentre si spogliava lentamente davanti allo specchio della sua stanza, era tornato a concentrarsi su quei segni che lui stesso gli aveva chiesto di imprimergli addosso, su quei segni che gli facevano ancora una volta sentire le labbra del valletto sulla sua pelle, e gli bruciavano forte come se glieli stesse facendo in quel momento. Le mani scivolavano lente e incerte sui fianchi candidi mentre si toglieva gli stretti pantaloni da equitazione, e guardando verso il basso, con la vista appena nascosta dai suoi ricci scuri che gli ricadevano sulla fronte, vide che la sua erezione era lì e svettava decisa in mezzo alle gambe, dura anche sotto il tessuto di cotone dell'intimo. Non voleva toccarsi, non in quel momento, non in quella situazione, non sognando labbra rosa e occhi blu oceano che lo possedevano. Ma non ci riuscì. Così con foga si tolse l'intimo, si prese in mano l'erezione e iniziò a pompare con vigore, quasi con rabbia, come se quel desiderio che immancabilmente lo coglieva pensando a Jake, potesse svanire una volta che avesse finito, come se dovesse solo accontentare una pulsione che sapeva non essere solitaria. Come se fosse un effimero sollievo presente solo per qualche minuto prima dell'amplesso, per poi svanire e farlo finalmente vivere in pace con i suoi doveri da futuro Conte di Harlaxton. Ma non ci riusciva, si appoggiò con una mano al grande specchio verticale e tenendosi in piedi anche se le gambe credeva che avrebbero ceduto, continuò a masturbarsi pensando a lui, a lui e a lui soltanto. A come lo baciava, a come lo completava, a come lo possedeva a come gemeva il suo nome a come si lasciava amare, a come si lasciava accarezzare, ai suoi gemiti appena rochi riflesso dei suoi, a come riusciva a venire quasi all'unisono con lui, sempre e sempre, chiedendoli di regalargli la vista del suo orgasmo sul suo volto e tra le sue dita. Così pensando ancora una volta alla sensazione di averlo dentro di se, Hanry con altre due profonde stoccate venne nella sua mano, copioso e caldo, con un roco gemito di appagamento che fu però seguito da un'imprecazione reale, che lo riportò subito al dolore dell'allontanamento che lui stesso aveva voluto.

***

Jake invece non dormiva da due notti. Aveva parlato tanto con Kiran, ma ora voleva Hanry. Connor era stato più che chiaro: «Jake, Hanry è molto arrabbiato non credo sia il momento adatto di parlarci, ma lo convincerò, non finisce così questo te lo assicuro.»

Perché Connor come una sorta di anima positiva, come un energia chiara, lo aveva rassicurato. Ma Jake soffriva. Hanry sapeva che lui aveva dei segreti, lo sapeva, glielo aveva detto, ne avevano parlato, ma quello forse non lo aveva previsto. Forse non aveva messo in conto che i suoi segreti, erano più grandi di lui, andavano ben oltre il semplice nascondere una provenienza da un paese o nascondere una storia travagliata alle spalle. Forse Hanry vedendolo con Kiran e per di più mentre parlava in hindi, si era fatto un'idea che poi tanto lontana dalla verità non era, e forse era troppo anche per lui. Stava sistemando le camice del giovane Conte in lavanderia quando alle sue spalle il Signor Wood fece la sua comparsa.

«Signor Scott, non credevo di trovarla qui.»

«Signor Wood, buongiorno, sì sto finendo di preparare le camice per Milord.»

«Sono molto dispiaciuto per quanto sta accadendo, non conosco i dettagli, non so cosa ha fatto per questo, ma se vuole io...»

«No, grazie Signor Wood, ma no, cercherò di risolvere questo malinteso da solo, la ringrazio.»

«Non vorrei mandarla via Signor Scott, mi piace come sta lavorando ma se non risolverà la situazione, temo che sarò costretto a...»

«Certo! Lo capisco, mi creda. Ma risolverò tutto.» Jake perse un battito, come era arrivato ad immaginarsi davvero parte di quel complesso status professionale, quando in realtà quella era tutta una farsa? Come poteva sentirsi in colpa di abbandonare il suo "Signore" quando lui lo era a sua volta. Perché non essere più il Signor Scott in quel momento sembrava fargli così male?

«Ora se vuole scusarmi, dovrei andare.»

Si congedò dal Signor Wood con la testa ancora più confusa. Tra il vapore della lavanderia e l'odore caldo di biancheria pulita, credeva che la testa gli si fosse annebbiata. Gli serviva aria, aria fresca, e possibilmente parlare con Hanry.


***


Dopo tre notti di totale solitudine e chiacchiere di cui Logan avrebbe fatto sinceramente a meno, finalmente erano riusciti a vedersi da soli. Avevano rischiato ogni cosa ma come non si può fermare la rotazione della terra, non si può neanche impedire che due calamite si attraggano pur essendo opposte, così era successo. Si erano incontrati nel piccolo pub di Grantham. Kiran era praticamente camuffato da giovane ragazzo di provincia e Logan lo aveva raggiunto con una scusa, negli abiti più informali che era riuscito a trovare nella sua valigia. Era tardo pomeriggio ma ci avevano provato, così dopo una birra come tra amici di vecchia data, avevano fatto un pezzo di strada insieme a piedi verso la Tenuta, senza dare nell'occhio, per poi nascondersi all'interno del parco della stessa, in un posto non ben definito e aver consumato lussuria e tensione sotto un platano.

«Come due stupidi adolescenti imbranati.»

«Perché nella tua adolescenza t'imboscavi nei parchi con uomini irresistibili?»

Logan gli tirò una gomitata, mentre già rivestiti si godevano qualche carezza ancora nascosta dalla luce del basso tramonto che si stava trasformando in sera. L'aria era frizzante, da lì a un'ora si sarebbe consumata la cena alla Tenuta, ma loro volevano tardare il momento dell'imminente separazione ancora un po'.

«Dovrei chiederti una cosa in effetti.» Kiran non era mai stato una persona che chiedeva qualcosa agli altri. Lui semplicemente voleva cavarsela il più possibile per conto suo, come suo padre gli aveva insegnato, ma in quel momento, con suo fratello lì, tutta la storia con Hanry e tutta quella tensione in casa, doveva credere di potersi fidare.

«Dimmi pure.» Logan adesso si era alzato, aiutando anche l'altro a sollevarsi dal manto erboso sotto di loro, dovevano rientrare. La mano calda che s'intrecciò con la sua, fece sospirare Kiran appena prima di sistemarsi la giacca.

«Dimmi Kiran, avanti, smettila di far finta di niente.»

«Far finta di che cosa?»

Logan scosse la testa e si voltò per incamminarsi.

«Kiran perché non vuoi ammettere che c'è qualcosa?»

«Come scusa?» Lo seguì allibito, mentre i suoi occhi d'ambra palesemente erano perplessi.

«Hai capito, sei intelligente.»

«C'è qualcosa dove Logan? Sii più chiaro per favore.»

«Tra di noi.» L'avvocato si voltò improvvisamente a fronteggiare il moro che si bloccò, la mascella contratta, la coppola ancora in mano rivelando i suoi lineamenti perfetti, i suoi capelli su un lato, la sua rasatura, l'orecchino. Logan si passò la lingua tra le labbra perché ogni volta guardando quel volto perfetto rimaneva senza fiato. E Kiran in quel momento aveva perso un battito quindi aveva quella dolce espressione con le labbra socchiuse, che Logan poche volte vedeva, ma che lo faceva impazzire.

«Tra di noi c'è qualcosa, io lo so, e anche tu. Puoi continuare pure a negarlo ma lo sai, forse meglio di me.»

Kiran ancora fissava gli occhi di Logan, così caldi e penetranti che pensava di perdercisi dentro. E sì, era consapevole di tutto, e sì, certo che c'era qualcosa ma non poteva davvero esserci in effetti, e sentirselo dire era peggio che pensarlo. Perché lui, esattamente come suo fratello, aveva ceduto. E sì, lo sapeva bene.

«Va bene, alzo le mani, come non detto. Comunque sì, chiedimi quello che volevi chiedermi.»

Logan quasi sconsolato ma con un mezzo sorriso attese qualche istante, poi a braccia ancora aperte per l'ovvietà della sua constatazione, si voltò per continuare a camminare.

«No, Logan aspetta.»

Kiran lo tirò da un braccio per farlo voltare di nuovo, adesso erano più vicini. Sentivano i solo respiri fondersi, la luce si faceva sempre più flebile, il crepuscolo lasciava sempre di più spazio alla sera, le loro ombre ormai sottilissime e lunghe si mescolavano simili a quelle degli alberi che li circondavano, e un profumo di legno molto forte inebriava i loro sensi già compromessi dalla passione che li aveva visti protagonisti solo qualche istante prima.

«Sì, hai ragione, è vero.»

Logan sentendolo sorrise appena, poi distolse lo sguardo.

«No, dico davvero, hai ragione. C'è qualcosa ed è inutile nasconderlo, io volevo farlo, anzi dovevo in ogni modo evitarlo, ma con te è difficile.»

«Kiran...» Logan tornò a guardarlo, quasi sentisse quelle parole come sue, quasi come se l'altro stesse esternando un pensiero che era anche suo.

«E' difficile te lo assicuro. Non mi è mai successo con nessuno, ma per me è davvero, davvero molto difficile fidarmi. La parola fiducia non rientra minimamente nel mio vocabolario, mai.»

«L'avevo capito.»

Kiran sorrise, sapeva che Logan era intelligente e più di una volta gli aveva dato prova di potersi fidare, ma lui ancora non riusciva a lasciarsi andare totalmente, come poteva?

«Però devo chiederti un favore in effetti.»

«Dimmi pure.» Tornò a guardarlo negli occhi. Ma Kiran prima si avvicinò e con uno slancio che pareva impossibile anche per lui, lo baciò.

«Volevi solo un bacio? Sai che posso darti molto di più se vuoi...»

Kiran rise, e si portò una mano alla bocca, quasi si vergognasse di averlo baciato lì, in mezzo a quel bosco in piedi, senza dover fare per forza del sesso per poterselo concedere.

«No, non era questo, andiamo, ti dico mentre torniamo.»


***


L'avvocato Bennet mentre saliva le scale per raggiungere la sua stanza aveva un sorriso stampato in faccia, ma anche una profonda ruga in mezzo alla fronte. Era felice di aver parlato con Kiran, ma tutte quelle domande su eredità e diritti di successione, proprio non se le aspettava. Voleva una spiegazione, ma sapeva anche che il moro, adesso non poteva sicuramente dargliela, forse domani. Era felice ma perplesso, aveva dei sospetti ma prima di esternarli voleva capire bene. Quella sera avrebbe indagato su più di una questione a tavola. Sarebbe dovuto partire l'indomani ma Hanry gli aveva chiesto di restare qualche giorno. Dopo la caccia di quella mattina, aveva dichiarato di voler passare qualche giorno tranquillo e gli faceva piacere che Logan fosse lì.

L'avvocato aveva volentieri accettato il suo invito. Si era portato un paio di pratiche veloci da sbrigare e un po' di aria di campagna iniziava davvero a fargli bene, poi ovviamente c'era Kiran.

Ma arrivato sul pianerottolo della stanza che gli era stata assegnata, c'era qualcuno ad attenderlo.

«Buonasera avvocato Bennet.»

Il valletto di Edmund si sollevò dalla parete alla quale era appoggiato per fare un passo verso di lui, con fare quasi minaccioso.

«Buonasera Signor Brody, a cosa devo la sua visita?»

Brody da bravo ex militare qual era, non perdendo le buone maniere incrociò le mani dietro la schiena e facendo un piccolo inchino verso l'avvocato, gli lasciò il passo per dargli la possibilità di aprire la porta. Ma Logan si avvicinò soltanto, non aveva nessuna intenzione di farlo entrare nella sua stanza. Non gli era mai piaciuto Edmund, figuriamoci il suo tirapiedi.

«Il Signor Stafford ha un messaggio per lei.»

«Ma non mi dica...»

Logan sorrise e scosse la testa insieme, sapeva che una testa calda come Edmund non poteva fargli passere liscia una presa di posizione come quella che aveva avuto due giorni prima nella sala del ricevimento. E sapeva benissimo che prima o poi avrebbe mandato qualcuno a fare il lavoro che lui non voleva abbassarsi a fare, quello sporco, quello vile, come lo era lui. Il problema con quelli come Edmund Stafford era uno, quelli come lui erano quasi intoccabili. O li coglievi con le mani nel sacco, con testimoni o non potevi incolparli di nulla, nulla di nulla.

«Voleva assicurarsi che la sua passeggiata al tramonto fosse andata bene.» Con una mossa veloce il valletto sferrò un pugno nello stomaco fortissimo a Logan, che con un singulto si piegò appena in avanti, stringendo gli occhi dal dolore.

«E voleva essere chiaro sul fatto, che se non sarà accondiscendente, il Signor Patel forse non avrà un trattamento troppo gentile nei prossimi mesi.»

Poi, un'altro colpo arrivò, sempre allo stomaco, mentre Brody lo teneva per una spalla per non farlo cadere. Logan era stato preso troppo alla sprovvista per reagire, e quel bastardo, picchiava duro, lo lasciò ancora senza fiato. L'avvocato era accecato dalla rabbia, come osava minacciarlo, ma era anche tremendamente impotente, perché reagire significava guadagnarsi cose ancora peggiori di quella. Lo scagnozzo poi si avvicinò ancora di più al suo orecchio, così tanto che l'avvocato poteva sentirgli l'alito puzzolente di cognac e aceto.

«Si comporti bene avvocato Bennet, Edmund Stafford ottiene sempre quello che vuole, in un modo o nell'altro.»

«Ne sono certo, brutto figlio di puttana.» disse tra i denti stretti.

Si guadagnò un altro pugno alle costole, e poi Brody aggiustandosi la giacca, si diresse verso le scale come se niente fosse, lasciando Logan dolorante davanti alla porta della sua camera.

«Che diavolo hai combinato Kiran...»

Fu l'unica cosa che riuscì a dire, prima di ritrovarsi a terra con un dolore lancinante alle costole che gli toglieva il fiato.

***

«Ne sono quasi certo padre.»

«La cosa che mi stai raccontando è molto grave Edmund, se lui fosse davvero...»

«Credo che lo sia.»

«Ma allora, i nostri progetti, tutto quello che abbiamo preso potrebbe...»

«No, non lo permetterò.»

«Edmund non puoi farlo sparire, non funziona così.»

«Oh padre, quante cose che non sai...»

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