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Capitolo 20


Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.

Proverbio Tibetano

Non aveva avuto il coraggio di assistere a tutta la cena, non ne aveva avuto il cuore. Credeva di riuscirci, credeva che non si sarebbe lasciato trasportare dalle emozioni, dai pensieri, dalla malinconia, dalla tristezza. Ma quelle erano arrivate, prepotenti e rapide come piogge d'estate, le aveva sentite invaderlo come eserciti da battaglia, possenti come elefanti sul guado di un fiume. Le aveva sentite tutte insieme quelle emozioni, raggiungerlo fino in fondo, devastanti come fuoco che divampa. Aveva ricacciato indietro le lacrime che sapeva avrebbero potuto lasciare i porti sicuri dei suoi occhi e solcare impavide le sue guance, ma non era riuscito oltre nella sua impresa. Avevano vinto loro.

Aveva già avuto a che fare con quel dolore in vita sua. Aveva già dovuto sopportare tanto e tanto ancora, la sofferenza era stata sua compagna per tanti anni, ma quella no. Quella gelosia che gli s'insinuava dentro, quel veleno che gli scorreva inesorabile all'interno fino a stringergli cuore e stomaco in una morsa di oscurità, aveva un colore diverso dal veleno dell'odio che ormai si era impadronito di una parte di lui da quel giorno lontano in India.

Ma quella strana nausea che gli era salita alla gola, quando Hanry aveva fatto giustamente il bacia mano alla Signorina Wilkinson, Jake non lo aveva minimamente previsto. Lo aveva immaginato certo, ormai lo sapeva di essere fregato, ma non credeva che facesse così male. L'idea di essere l'amante del giovane Conte gli era piaciuta fin ora, ma chissà per quale strano motivo, invece di allontanarsi da Hanry, di prendere per forza le distanze per non peggiorare ancora di più qualcosa che sarebbe comunque finito in catastrofe, lui voleva avvicinarsi. Voleva essere il suo unico uomo, la sua unica donna, il suo unico amante, il suo amico, il suo compagno. Improvvisamente e inevitabilmente si era reso conto che lui lo voleva e che tutto quello che stava vivendo gli procurava più dolore del previsto.

Così, deludendo sicuramente il riccio che non aveva smesso un secondo di voltarsi verso di lui durante tutto l'aperitivo, aveva abbassato la testa e se ne era andato. Suo fratello lo aveva visto, ma in quel momento il dolore era più forte, lo stomaco non gli avrebbe retto ne era certo.

Si precipitò fuori dalla sala, si asciugò una lacrima, scese le scale per il downstairs alla velocità della luce, attraversò le cucine sentendo Sarah che richiamava la sua attenzione «Jake! Jake...ma dove vai...» e aveva continuato imperterrito a camminare svelto, in cerca d'aria. Il sudore gli imperlava il volto, la schiena, la nuca, era pallido lo sentiva, le gambe erano molli e la bile minacciava ancora di uscire da un momento all'altro. Poi aveva finalmente raggiunto l'esterno dalla porta sul retro. Aria, fresca e dolce aria sul viso, aveva sospirato, la porta si era chiusa, lui aveva camminato ancora, fregandosene di sporcare le scarpe con la ghiaia chiara del cortile. Aveva camminato fino a dietro alla rimessa delle automobili e si era lasciato andare. Aveva riversato il suo dolore accanto alla magnolia selvatica, due conati profondi che avevano creato spasmi al suo stomaco, dilaniandolo come se vi ci fosse affondato un coltello. Ora sollevandosi e respirando, una folata di vento arrivò in suo soccorso. Si era accasciato al muro della rimessa sporcando la livrea di polvere, aveva abbandonato le gambe lunghe davanti a sé e sospirando aveva tirato indietro la testa lasciando che lacrime e sospiri colmassero il silenzio. Perché gli stava succedendo tutto quello, perché diamine aveva reso le cose così complicate, perché?

Qualche minuto dopo, aveva nuovamente sentito l'odore dolce delle rose canine, così aveva aperto gli occhi, si era sollevato, si era scosso e con un moto di violenza mista a rabbia, aveva tirato un calcio così forte ad un vaso che lo aveva rotto, facendosi pure male e imprecando in modo poco velato.

«Jake!»

S'immobilizzò. Sgranò gli occhi e svelto si pulì il viso con una manica. Ora ci mancava solo questa. Non aveva riconosciuto nessuna voce perché aveva le orecchie ovattate di rabbia e sinceramente in quel momento non era in grado di essere vigile anche su quello, sicuramente sbagliando.

«Jake che succede?»

Voltandosi, tirò un sospiro di sollievo. Connor era lì in piedi, in divisa da servizio scura, con i capelli biondi impeccabili, sbarbato, gli occhi bellissimi e chiari sempre vigili e con un espressione tra il preoccupato e il sorpreso, lo fissava, rigirandosi tra le mani due mazzi di chiavi.

«Connor!»

«Tutto bene Jake? Ti ho sentito imprecare e poi...quello.»

Indicò con lo sguardo il vaso rotto, senza troppa sorpresa.

«Ero qui fuori ti ho visto passare e quindi...»

«No, cioè sì, sì va tutto bene Connor, io.»

«Ti sei fatto male?»

Il valletto sollevò per la prima volta davvero gli occhi sul biondo. Aveva uno sguardo fermo, rassicurante, proprio come sempre.

«No, davvero non preoccuparti...»

«Che è successo?»

Jake lo fissò immobile. Non avrebbe mai dovuto parlare con lui, mai, doveva tornare dentro e calmare i nervi, ma poi vide il collega accendersi una sigaretta e fare lo stesso con un'altra per poi porgergliela e così sospirò, cedette.

«Ti ho sentito vomitare.»

«Non è un bel momento.»

«Me ne rendo conto.»

Disse poi l'Irlandese, porgendogli la sigaretta già accesa.

Abbassando il tono di voce si incamminarono verso il cortile, lasciando la rimessa così da poter essere visibili dalle cucine in modo che avrebbero potuto giustificare la loro prolungata assenza con una pausa.

«Tu perché sei qui? Non dovresti essere...»

«E tu perché sei qui?»

Jake sorrise, ricambiato dall'altro. Si appoggiarono allo stesso muretto che li aveva visti protagonisti della loro piccola conversazione qualche settimana prima durante la festa, si presero tutto il tempo, fumando lenti, prendendo boccate ampie dal filtro bianco, per poi sputarlo fuori con vigore. L'aria era fresca e il cortile poco illuminato.

«Mi ha sentito qualcun altro?»

«Non credo, solo io, ero in pausa stava controllando le automobili.»

«Non so cosa mi sia preso, è complicato.»

«Questo me lo immagino, certo. Fare il nostro lavoro non sempre è facile no? Certe volte ti sembra quasi che la tua vita sia vissuta da altri, che tu stia solo facendo da spettatore alla vita di qualcun altro, che tu sia solo un qualcosa che serve ad altri e ti scordi di vivere la tua.»

Jake si voltò a quelle parole, non credeva che l'amico, se così poteva chiamarlo ormai, fosse così profondo.

«Sai, fare questo mestiere ti aiuta a capire quanta falsità c'è in questa società, e ti rende migliore sotto certi aspetti. Il personale di servizio conosce segreti che tanti non conoscono. Sa abitudini e vizi che in molti ignorano. Noi ad esempio, siamo tra quelli. Ti ricordi del Pub uno dei tuoi primi giorni?»

«E chi se lo scorda...» sorrise Jake per poi buttare la sigaretta ormai finita.

«Già, chi se lo scorda...»

Connor accese altre due sigarette prendendole dal muretto dove le aveva appoggiate e poi sospirò di nuovo. Jake aveva capito che voleva dirgli altro, così attese, cercando piano di calmare i suoi nervi tesi.

«L'ho capito subito che non eri come gli altri valletti Jake, l'ho capito da quella sera e da quella dopo e poi da quella dopo ancora.»

«Connor io...»

«Non sono uno spione Jake, ognuno fa ciò che crede, non ti preoccupare. Ma devo chiederti una cosa, non voglio impicciarmi ma...»

Jake sospirò, sapeva cosa stava per chiederli, lo sapeva, Hanry gli aveva detto che forse un paio di volte lo aveva visto sgattaiolare nella sua stanza, ma non aveva mai detto nulla, il riccio si fidava del biondo, quindi non gli restava che fidarsi anche lui di conseguenza, anche se nella vita non si fidava quasi di nessuno, forse solo di suo fratello, e di Hanry, forse.

«Non hai tirato un calcio a quel vaso solo perché sei stanco.»

«No.»

«Non sei qui fuori a vomitare solo perché il lavoro è duro.»

«No.»

«C'entra qualcosa Hanry?»

«Connor so che lo hai visto entrare nella mia stanza io...»

«Non dirò nulla, quello che ho promesso a lui lo prometto a te, voglio solo sapere fin dove siete arrivati per stare così, questo dolore non si vede spesso.»

Jake abbassò di nuovo la testa, sorrise e poi sollevò lo sguardo al cielo. La via lattea, chiara e ben visibile sulla tenuta, pareva sconfinata e il cielo era bellissimo, era davvero unico, magico. Gli tornò in mente Jaipur, Ravi, la sua passione per le costellazioni. Sospirò ancora e tirò dal filtro.

«Forse ci siamo spinti ben oltre quello che entrambi credevamo possibile.»

Connor sbuffò sorridendo e mal celando un «Accidenti!» detto tra i denti stretti ma con le labbra piegate all'insù in un sorriso.

«Già. Ci siamo spinti tanto in là da non poter più tornare indietro. Ma io devo fare i conti con la mia posizione.»

«Lui ricambia.»

«Come?»

«Lui, ti ricambia.»

«E' un affermazione o una domanda?»

«Un affermazione, lui ricambia, ne sono certo e sicuro. Neanche il Russo era arrivato a tanto, neanche lui. Tu lo hai cambiato, non so come, ma lo hai fatto.»

Connor si voltò, gli sorrise e lui allora anche se sbigottito, ricambiò ancora.

«Tu hai i tuoi segreti Jake lo so, ne sono assolutamente certo e non so fino a che punto hai mentito a tutti noi, ma di questo sono sicuro. Lui ti ricambia. Quindi se i tuoi piani dovessero comprendere lo spezzargli il cuore, non farlo.»

Come era possibile che un cameriere Irlandese, furbo come una faina e astuto come una volpe, con orecchie da lepre e fiuto da cane, avesse capito tutte quelle cose in così poco tempo e le avesse azzeccate tutte? Chi diavolo era Connor O'Brian?

«Questo discorso me lo ha già fatto la signora Davies, sai?»

«La Davies ha i suoi buoni motivi probabilmente.»

«Come fai a...»

«A sapere tutto? Io osservo Jake, parlo anche tanto sì, ma se non sono in compagnia mi piace capire cosa pensa la gente, cosa vuole intendere, cosa nasconde.»

«Un detective.»

«Uno studioso della mente? Ahahah...»

Risero entrambi, piano.

«Non so come andrà a finire Connor, io devo fare una cosa...»

«Quindi soffrirà?»

«Temo di sì.»

Jake ricacciò di nuovo la bile in fondo alla gola, ora che questo era certezza, gli faceva ancora più male.

«Quanto?»

«Non so dirtelo, ma devo farlo.»

«Quindi...»

«Io ricambio quello che prova, non ho mai sentito una cosa così, ricambio davvero, ma devo comunque fare questa cosa.»

Jake spense la seconda sigaretta e si sollevò dal muretto, pulendosi per poi aggiustarsi la giacca. Connor a sua volta si sollevò e si mise di fronte a lui.

«Che devo fare?»

«Ti chiederei troppo.»

«Che devo fare?»

Si guardarono negli occhi. Come poteva fidarsi di lui? Come poteva anche solo pensarlo? Ma che scelte aveva? A quel punto di tutta quell'assurda situazione, che scelte aveva?

«Cercare di tenerlo insieme per evitare che si sgretoli prima che io abbia finito.»

Connor annuì.

Non c'era molto altro da dire.


***


Il giardino d'inverno di Harlaxton Manor, era uno dei più antichi mai costruiti nelle West Midlands. Vantava due ampie sale divise da un largo corridoio completamente esposte alla luce dell'esterno, le vetrate che si innalzavano maestose fino a tre metri e culminavano in due cupole anch'esse di vetro, sottolineavano lo sfarzo con cui era stato costruito non più di un secolo prima. Completamente rimodernato in stile liberty dal Conte, adesso possedeva anche un interamente funzionante impianto elettrico, per poter godere delle sue meraviglie anche la sera. Appena si entrava da una porta larga e in legno massello scuro che collegava il corridoio della biblioteca al giardino, si veniva investiti subito da un forte odore di orchidee. Rose, calle, gigli, ciclamini, piante esotiche, palme nane e ortensie erano collocate in successione sui lati della struttura, in grandi vasi in porcellana o in enormi fioriere in legno chiaro. Si sentiva odore di terriccio, di terra smossa, di acqua chiara e di fresco. Al centro dell'ampio passaggio arioso invece, vi erano grandi tavoli in rame con gambe decorate con motivi floreali e sui quali candelabri ornamentali facevano bella mostra di sé, contenendo altrettanti fiori incredibili e dai profumi intensi. Quella sera il giardino era buio, nella seconda sala dove c'erano anche dei comodi divanetti da lettura in vimini bianco, erano conservate le piante aromatiche e si percepiva odore di menta, insieme a quello della salvia, del rosmarino e dell'acetosella. Jake aveva attraversato la prima sala in silenzio, non aveva trovato chi cercava quindi continuò a seguire il pavimento in pietra chiara e legno finché non vide davanti a sé in fondo alla seconda stanza, una figura di spalle, che mentre accarezzava piano una fogliolina in un vaso lì vicino, guardava fuori.

«Kiran.»

Sussurrò piano, facendosi sentire solo da suo fratello che intanto si voltò e si scostò da lì, mettendosi ancora più in disparte nella grande sala, proprio vicino ai divanetti.

Jake si aspettava una tigre. Si aspettava di essere sbranato vivo, si aspettava il peggio che sapeva Kiran potesse esternare. Sapeva che lui sapeva e non aveva scuse, solo un argomento con il quale difendersi e comprendeva l'avvocato di Londra, ma non poteva vincere contro suo fratello che sapeva essere terribilmente arrabbiato. Ma Kiran, come spesso faceva, lo stupì.

«Non hai una grande cera, fratello.»

«Sono stato meglio, sì.»

Kiran gli sorrise beffardo, Jake sapeva che era solo l'inizio della fine, non parlò.

«Ti ricordi il giorno in cui abbiamo conosciuto il Maharaja a Jaipur?»

Kiran poi sospirò immerso nel ricordo mentre si portava al naso la fogliolina che poco prima aveva staccato dalla pianta che stava accarezzando e ne sniffò l'odore forte.

«Come faccio a dimenticare quel giorno, nostro padre era così nervoso che non riusciva a stare in silenzio ti ricordi?»

Jake si era appoggiato ad una vetrata mentre suo fratello alzò lo sguardo verso di lui. Lo vide bene, pallido, sciupato, con la preoccupazione addosso. Poi il moro continuò.

«Ti ricordi che cosa successe?» Si rigirò ancora la foglia tra le mani e si spostò più vicino al fratello, lentamente, sinuoso come solo lui sapeva essere, nel suo splendido completo bordeaux con il safa abbinato che gli facevano risaltare la pelle olivastra, le labbra piene, e gli occhi ambrati. Un accenno di barba lo caratterizzava e Jake in quell'istante si immaginò Kiran senza turbante ma con i capelli scompigliati e scuri, la rasatura laterale e il suo orecchino al lobo, mentre giocava con Esh nella loro stanza dei cuscini. Gli riconobbe addosso un odore familiare, e sentirlo parlare spedito in hindi lo faceva sempre sentire a casa.

«Tu arrivasti tardi, come sempre, eri andato a cercare non so cosa per Ravi...»

«Ambra...il suo bracciale d'ambra era a riparare e volevo che lo avesse per quell'incontro, sarebbe stata contenta.»

«Correvi sempre scalzo, ovunque, volevi compiacerla sempre...»

«Tu eri sempre con me...le eri devoto.»

«L'amavo tanto. Sì eravamo sempre insieme, è vero. Ma quando tornasti dal mercato, mentre io mi stavo vestendo, urtasti un mobile di bamboo, ti ricordi era quello rosso e basso. Facesti cadere quel vaso orribile verde, te lo ricordi?»

Risero entrambi ma piano, gli occhi gli s'illuminarono.

«Come posso dimenticarlo? La tua espressione mentre cadeva, credevo che saresti stato capace di fermare la sua corsa contro il pavimento, ma si ruppe in mille pezzi, era un pezzo raro. Papà si arrabbiò tantissimo appena lo scoprì.»

«Già, si arrabbiò tanto vero, e si arrabbiò con me.»

Jake fece una faccia seria improvvisamente. Era vero, suo padre si arrabbiò con Kiran, ma lui non ricordava...sì, anzi lo ricordava.

«Non ti ricordi più Jake?»

Il castano si morse il labbro inferiore, perdendosi nei pensieri del tempo. Ricordava il fresco del pavimento sotto i suoi piedi, ricordava l'odore di curry e incenso forte che aleggiava per tutta la villa, sentiva ancora se si concentrava le voci concitate delle persone di servizio che preparavano tutto per l'arrivo del Maharaja e si ricordava anche del bracciale d'ambra, fatto a piccole gocce ocra che stringeva in mano, mentre suo fratello lo rassicurava, dicendogli qualcosa. Se stringeva gli occhi poteva sentire ancora il calore della sua mano sulla sua spalla, avranno avuto forse undici anni.

«Jake tu vestiti, penso io a papà...so che faresti lo stesso per me...io non ti tradirei mai...»

La voce di suo fratello si perdeva nel ricordo. Ma si riscosse, sentendo Kiran in carne e ossa nella penombra del giardino d'inverno che parlava.

«Avevamo undici anni J, undici anni e io sapevo già che tu eri la cosa più bella che mi fosse mai capitata nella vita. Finalmente avevo un fratello, un complice, un amico. Non ci pensai neanche per un secondo a dare la colpa a te, a dire che eri stato tu, mentre lui incolpava me. Dopotutto quel vaso era nella mia stanza, non nella tua. Mi presi la colpa, mi presi una bella strigliata, ma io non ti avrei mai, mai e poi mai tradito, mai.»

«Kiran...»

«No, aspetta!»

Cambiò espressione, improvvisamente la tigre si fece viva dalla remota giungla del Rajasthan e venne fuori.

«Tu però ora mi stai tradendo Jake, perché?»

«Non ti sto tradendo Kiran.»

I toni erano ancora calmi, sommessi, non potevano fare chiasso o li avrebbero scoperti.

«Non scherzare con me io ti conosco, conosco ogni cosa di te, lo so quello che stai facendo.»

«Kiran io non ti tradirei mai, tu sei mio fratello, la mia famiglia...»

«Conosco qualcuno che il fratello lo tradirebbe però.»

Kiran era agitato adesso erano a pochi centimetri l'uno dall'altro e si guardavano in viso, arrabbiati, seri, con il cuore in gola, loro erano così, prima calma, poi tempesta.

«Proprio perché mi conosci, sai che c'è dell'altro.»

«Quando?»

«Quando cosa?»

«Quando ti sei innamorato di lui Jake?»

Ecco, appunto, suo fratello lo conosceva, eccome. Neanche mezza giornata, gli era bastata neanche mezza giornata per capirlo.

Si morse nuovamente il labbro inferiore, sospirò e tacque.

«Lo sapevo!»

Kiran fece quasi per andarsene, era sconsolato, con un ghigno amaro sul volto.

«No, Kiran...» Lo fermò da un braccio.

«Come hai potuto?»

«Non lo so.»

«Tu non sai quando hai deciso d'innamorarti del fratello dell'assassino dei nostri genitori? Tu non sai quando hai deciso di tradirmi per passare le notti con lui? Tu non sai quando hai deciso di voltarmi le spalle Jake?»

Era immobile, il volto serio e accigliato, dentro di se una voragine enorme quanto un lago, si stava aprendo al centro del suo petto. Odiava quando Kiran era arrabbiato con lui e l'idea di perderlo, semplicemente lo devastava, ma quella sera era la goccia che stava facendo traboccare tutto il vaso.

«Non lo so.»

«Sei un egoista, sei sempre stato un egoista...»

«Non dire così...»

«Tu sai che dobbiamo fare quello che ci siamo promessi, tu sai che dobbiamo uccidere Edmund, tu sai che dobbiamo riprenderci quello che è nostro.»

Kiran aveva abbassato ancora di più la voce, ancora più soffocata nella gola, anche se il tono arrabbiato si percepiva lo stesso.

«Lo so, lo so e lo faremo ma...»

«Ma cosa! Io non mi sono sacrificato accanto a quell'uomo per mesi per poi fallire nei nostri piani Jake, dobbiamo farlo e da solo non posso, lo sai...»

«Kiran io lo amo.»

«Non è possibile.»

«E' possibile ed è successo...»

«Tu mi tradirai.»

«Mai, mai io non ti tradirò mai Kiran, ma devi darmi tempo.»

«Tempo Jake? Tempo? Quanto altro tempo vuoi chiedermi è?»

«Forse ho una soluzione migliore per farla finita con questa storia e avere la nostra vendetta.»

Kiran scosse la testa.

«Devi fidarti di me.»

«Fidarmi di te?»

Kiran sorrise, quasi incredulo alle sue orecchie, guardando dall'alto in basso il fratello che intanto si era messo nuovamente davanti a lui e cercava di spiegare.

«Sì devi farlo, come sempre.»

«Io l'ho fatto e guarda a che punto siamo ora.»

«Devi farlo ancora.»

Kiran scosse la testa.

«Sono stanco Jake.»

«Sono stanco anche io ma devi fidarti di me.»

I due fratelli si guardarono, Kiran scuoteva ancora la testa, Jake era ancora serio, ma si guardavano capendosi. Kiran non dubitava del fratello, come poteva, ma adesso era insicuro, incerto, proprio come si sentiva quando pensava a Logan, diventava vulnerabile, indifeso.

«Voglio mettere un punto a questa storia, voglio finirla Jake, lui ci ha rubato tutto, tutto.»

«E noi gliela faremo pagare, te lo prometto oggi, come te l'ho promesso quel giorno.»

Jake con gli occhi lucidi mise una mano sulla spalla del fratello, questo sospirò ma annuì piano. Un consenso che gli serviva. Un consenso senza il quale non avrebbe potuto vivere.

Passarono alcuni secondi interminabili che suggellarono una nuova muta promessa. Loro sapevano che non si sarebbero mai traditi, mai, nonostante tutto e tutti.

«Il tuo avvocato...»

«Non è il mio avvocato Jake!»

«Oh ma per piacere, cosa vuoi che m'interessi di chi ti porti a letto? Mi hai insegnato tu no?»

«Continua...» disse alzando gli occhi al cielo, sicuro che il fratello se li avessi visti avrebbe capito e infatti era quello che aveva fatto.

«Quanto sa di eredità e successioni?»

«Basta scoprirlo.»

«Esatto.»

Kiran si rigirò ancora tra le mani la foglia che aveva staccato prima dalla pianta lì vicino e ne sentì ancora il profumo.

«Sandalo.» disse poi Jake «Ti è sempre piaciuto...»

«Conosco qualcun altro a cui piace.»

Un movimento veloce fece sussultare l'Indiano che sgranò gli occhi guardando oltre la spalla del fratello che di conseguenza si voltò a guardare il corridoio che ora avevano dietro di loro, e vedendo una figura che conosceva bene che li guardava sbigottito, gli si gelò completamente il sangue nelle vene.

«Che succede qui?»

Questo con uno sguardo tra lo spaventato e l'arrabbiato guardava i due, che ora erano davanti a lui immobili.

«Hanry!» Jake era pietrificato, il suo cuore era ormai nella sua gola e spingeva, non riusciva a respirare bene e Kiran accanto a lui, forse aveva smesso di respirare a sua volta.

«Signor Patel lei perché...Scott, come conosci quella lingua? Perché sei qui...con lui...»

Hanry faceva saettare gli occhi verdi e brillanti tra lui e l'altro. Avevano parlato per tutto il tempo senza neanche rendersene conto nella loro lingua. Il giovane Conte era ancora bellissimo nel suo completo nero, era appena pallido ma aveva un espressione in viso che Jake non aveva mai visto.

«Hanry io...»

«No...»

Fece per avvicinarsi ma Hanry lo bloccò con la mano protesa davanti a sé.

«Non mi toccare, non ti avvicinare di un passo.»

Gli occhi erano lucidi, sembravano arrossati quasi iniettati di rabbia e delusione.

«Posso spiegarti Han...»

«Hanry non è come credi...» intervenne Kiran, provando a calmarlo.

«No, no...» il riccio strinse forte i denti e negò più volte, il viso sempre più pallido.

«Non dovete spiegarmi niente.»

Poi guardò ancora Jake.

«Io non so chi sei, non l'ho mai saputo.»

«No Hanry, ti prego lasc...»

«No, resta qui. Io me ne vado e...non seguirmi.»

Parve ricomporsi solo per un attimo ma Jake non era certo che riuscisse a reggersi con le sue gambe.

«Hai frainteso, io...»

«Lasciami stare, non parlarmi dannazione!»

Alzò la voce e un singhiozzo gli si ruppe in gola. Non sapeva cosa pensare, come si respirava ancora, cosa doveva fare, forse non era sicuro neanche di vederci bene in quel momento, era solo sconvolto.

«Hanry...» Jake fece un altro passo verso di lui, ma vedendolo in quelle condizioni, gli si spezzò il cuore in mille pezzi.

«Buonanotte Signor Scott, non ho più bisogno di lei.» Si voltò e se ne andò.

Gli occhi di Kiran erano diventati tristi a vedere il fratello tremare, mentre guardava l'altro allontanarsi. Jake era devastato.

Adesso le cose si erano complicate ancora di più.

Dopo la notte completamente insonne che Hanry aveva passato a fissare solo ed esclusivamente il soffitto della sua stanza, riuscendo a dormire non più di qualche minuto filato, solo per la stanchezza accumulata il giorno prima e l'adrenalina che aveva in corpo che scemava, si era reso conto che tutto quello che aveva visto era stata solo la ciliegina sulla torta di una giornata tremenda. Non credeva di poter affrontare nessuno in quelle condizioni, né Connor che era andato a rassicurarsi che stesse bene la sera prima, chissà perché poi, né suo fratello , né sua madre, né suo padre, né Elizabeth e né tanto meno Jake.

L'intera notte l'aveva passata a scervellarsi su tante cose. Perché parlava in Indiano con il Signor Patel, Kiran? A questi punti tanto valeva chiamarlo con il suo nome? Forse conosceva la lingua perché la sua amica indiana gliel'aveva insegnata? Non lo credeva possibile, non in quel modo, così veloce, fluente, sembrava saperla da anni, li aveva ascoltati per un po' e non riusciva a spiegarselo. Poi perché sembravano litigare? Perché si erano nascosti al buio nel giardino d'inverno e perché si comportavano come se si conoscessero da sempre nei gesti e nei toni? Forse uno dei tanti segreti che sapeva nascondergli, impediva a Jake di parlargli di quello? Forse non avrebbe dovuto reagire in quel modo? Perché era scappato? Era sconvolto da tutta la giornata e dall'assenza di Jake a cena certo, ma cosa c'entravano Logan e Kiran? Cosa voleva dire che si conoscevano? Perché suo fratello ci teneva tanto al fatto che lui si sposasse e prendesse la tenuta dei Thompson, cosa doveva nascondere? Perché Connor sembrava più premuroso del solito? Perché? Voleva sapere tutte queste cose, voleva capirle, gli esplodeva la testa se pensava a come cercare di trovare ogni risposta a tutto quello, perché di qui, perché di là, perché se la prendeva tanto poi?

Aveva finalmente trovato qualcuno che lo voleva, qualcuno che sembrava davvero amarlo e che sapeva avere dei segreti, ma non così. Non credeva che i tipi di segreti che Jake custodiva, che un semplice valletto sveglio e molto più che professionale nascondeva, fossero di quel tipo. Perché parlava con un collega di suo fratello? Perché Jake parlava l'hindi dannazione?

Hanry era a metà tra lo sconvolto e lo sbigottito. Aveva sperato che Jake potesse aspettarlo fuori dalla sua camera la mattina successiva, ma come poteva? Non poteva rischiare di essere visto. Lui non aveva suonato la campana quella mattina, ma era uscito di buon ora da solo, per andare nell'unico posto in cui riusciva davvero a pensare con lucidità.

Aveva lasciato la sua camera in condizioni a dir poco pessime, ma la rabbia con la quale aveva sfogato nervosismo e incomprensione era stata violenta e un paio di bicchieri di cristallo avevano avuto la peggio frantumandosi al vetro della finestra, senza però romperla.

Aveva anche provato a mettersi in discussione, a cercare di calmarsi, ma non ci era riuscito in un primo momento. Ma quella mattina, forse sì. Si era detto dentro di sé, di lasciar perdere tutto, qualunque cosa, che forse avrebbe solo dovuto chiedere al Signor Wood di mandare via il Signor Scott, senza mettere nel mezzo anche il Conte chiaramente, non voleva nessuno scandalo in quel momento, non ne avrebbe avuta la forza. Si era detto che sì, forse bastava farlo cacciare, così da non rivederlo mai più, così da poterlo dimenticare, così da non chiedersi nemmeno tutte quelle cose, così da fare assolutamente finta che tutto quello non fosse mai successo. Che il sesso non fosse mai accaduto, che lui non si fosse mai lasciato andare, che l'altro non si fosse mai dovuto esporre, che il suo profumo non fosse mai arrivato fino a lui, che non lo avesse mai sentito cedere alle sue mani, che loro non fossero mai esistiti. Sarebbe stato così facile.

Lo sarebbe stato. Ma c'era un problema, Hanry era innamorato, e per adesso la forza e la prospettiva di non rivederlo mai più, per giunta senza neanche aver avuto delle spiegazioni, non riusciva ad averla. Così scelse l'indifferenza, che feriva più della rabbia. Scelse l'indifferenza perché prima di cedere di nuovo a lui, voleva sapere, ma se anche solo lo avesse visto un istante, sapeva che non avrebbe resistito, sapeva che avrebbe ceduto. Così, visto che Connor si era fatto avanti la sera prima, gli aveva chiesto se possibilmente poteva prenderne il posto per un po'. Non aveva voluto neanche sapere come, non gli importava, in quel momento l'arrogante figlio del Conte di Harlaxton aveva fatto la sua ricomparsa e aveva semplicemente preteso.

Poco prima, con il vento tra i capelli ed Eighteen sotto di sé, aveva portato Elizabeth a fare una lunga cavalcata, ma si stava già pentendo del bacio che in quell'istante gli stava dando sulle rive del laghetto.

Si era presentata poco dopo che Hanry era arrivato alle scuderie, voleva stare solo all'inizio ma poi aveva avuto quella brillante idea, di cui però si era pentito subito qualche istante dopo.

Aveva chiesto a Connor di avvertire la cameriera della Signorina e aveva atteso. Nella sua divisa immacolata, aveva iniziato a camminare su e giù per il perimetro della grande sala della scuderia, aspettando la sua fidanzata che dopo poco era arrivata con il suo vestito nero da equitazione con la gonna ampia, il frustino, il piccolo cappello che proteggeva i capelli raccolti in uno stretto chignon e un bustino così assurdamente stretto che Hanry si chiese se riuscisse a respirare. Lo stalliere l'aiutò a salire su Golden, Hanry non aveva avuto il cuore di dargli Kindness, lei era ancora solo per lui, e così avevano iniziato a trottare verso il laghetto.

Se la sua vita doveva essere tutta una grande bugia, che avesse subito inizio, senza attendere oltre.

«Stai bene stamattina Hanry?»

Aveva chiesto lei provata in viso per la cavalcata, con le gote arrossate e gli occhi lucidi. L'estate si era fatta calda anche in Inghilterra e quelle giornate di Giugno erano particolarmente afose per quella zona.

«Molto meglio Elizabeth, grazie, anzi scusami per ieri non era mia intenzione lasciarti in quel modo.»

«Oh non preoccuparti, è stato tutto così emozionante che...Sai Hanry, io non ho mai avuto un appuntamento come questo, per così dire.»

La ragazza sembrava davvero accalorata, sicuramente per il vestito poco consono alla stagione, ma anche e più probabilmente per essersi resa conto che quella era l'unica volta che stava da sola insieme a lui per più di dieci minuti consecutivi e per di più lontano da tutto e tutti, in una situazione propizia alla conversazione e quindi anche allo sfoggio di quelle che sua madre chiamava, inclinazioni di seduzione. Elizabeth era stata addestrata per quel ruolo, puntava a diventare Contessa o Baronessa da tutta una vita, le erano state insegnate le buone maniere, la dizione, il portamento, il modo di esprimersi, di muoversi, di pensare in un certo modo, fin dalla tenera età. Hanry era sempre stato sfuggente fino a quel momento, come una folata di vento e per lei che aveva ricevuto solo ed esclusivamente proposte di matrimonio da attempati signori brizzolati, era stato come una tempesta. Per di più era Conte, erede di una grande somma di denaro e proprietà, e il padre di Elizabeth non poteva lasciarsi sfuggire un'occasione come quella. Lei doveva assolutamente fare la sua parte, accontentare il Duca Wilkinson e Milady, doveva cercare ad ogni costo di piacere a quel giovane Conte così fuori dalle righe e così misterioso, che si sentiva tutta la pressione del mondo addosso. Elizabeth, non aveva mai rivelato a nessuno però, che si sentiva incredibilmente a disagio in quelle vesti da oca giuliva. Non aveva mai rivelato a nessuno che sotto il tappeto della soffitta nascondeva tre voluti di pedagogia e che quando nessuno la poteva vedere, la prima cosa che faceva era quella di intrufolarsi lassù, sfogliare quei volumi, accarezzarne le pagine e sognare un futuro impossibile in cui le sue giornate sarebbero passate dietro una scrivania con tante faccette sorridenti davanti a lei che l'ascoltavano dai banchi di un aula. Come poteva anche solo chiedere al Duca di voler studiare, di volersi emancipare, si volere molto di più che solo una famiglia con un Conte che detto francamente, neanche la considerava? Perché sapeva e sentiva che il giovane Stafford non aveva altra scelta come lei, e cercava solo disperatamente di non deludere quelle persone.

«Non preoccuparti Elizabeth, neanche io, ma non dobbiamo avere timore no? Tra poco ci sposeremo.»

Sorrisero entrambi, visi tirati, sguardi puntati altrove.

«Sì, certo, sono davvero felice di questo.»

Lei si appoggiò ad un pioppo molto alto, tenendosi una mano sullo stomaco per cercare di calmare quella sensazione di disagio che stava riaffiorando. Era quello che sui libri chiamano istinto, quando senti di star facendo qualcosa contra la tua volontà ma che sembra che dovrai fare per forza, il tuo corpo cercherà di ribellarsi.

«Ti senti bene?»

Chiese Hanry, improvvisamente premuroso, vedendola impallidire.

«Sì, mi...mi sento bene certo.»

Così, lui si avvicinò piano, cauto, lei arrossì di nuovo per la vicinanza di un così bel giovane che le stava sfiorando delicatamente un braccio e la guardava in viso. Hanry era splendido, l'uomo più bello che Elizabeth avesse mai visto e sicuramente rendeva tutta la sua condizione davvero più confortevole, ma non era ciò che lei voleva e sentiva che era reciproco. Ma doveva farlo, era il suo compito, da figlia devota, da donna rispettabile, da Duchessa perfetta. Così si lasciò baciare.

Hanry ci stava mettendo tutta la sua buona volontà, la sentì tremare appena, una volta che le loro labbra si unirono. Che altro doveva fare a quel punto? Gli avrebbe dato quello che voleva, avrebbe fatto la parte del fidanzato perfetto, avrebbe retto il gioco, imparato il ruolo, sarebbe stato impeccabile, un attore unico.

Solo il suo istinto lo stava informando che quello era tutto sbagliato, che le labbra che voleva sulle sue non erano quelle e che quel corpo che avrebbe dovuto stringere non era quello che davvero voleva, così una forte emicrania al ritorno alla tenuta gli arrivò persistente. Tornando nelle sue stanze, si tolse la giacca e si sbottonò la camicia e lì, proprio sopra la clavicola, come gli aveva chiesto di fare alla vigilia della cena del giorno prima, c'era un piccolo marchio rosso. Era il suo, lui era suo, doveva essere suo, si sentiva suo e così non trattenne più le lacrime.

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