Capitolo 15
Non temere di avanzare lentamente, abbi solo paura di fermarti.
Proverbio Hindu'
Golden aveva un'eleganza unica. Il purosangue nero che il giovane Conte di Harlaxton aveva salvato da una vita ingrata di corse forsennate e frustini pesanti indirizzati a ferire e non ad ammaestrare, galoppava veloce lungo la radura che separava la tenuta dal lago privato della famiglia Stafford. L'erba fresca e lucida, era ancora coperta di uno strato sottile di limpida rugiada mattutina. Il cielo era dipinto di un azzurro intenso e neanche una nuvola faceva difetto nella sua immensità. Il rumore degli zoccoli possenti che sferzavano i fili d'erba, tagliando in alcuni punti i fili più lunghi, si potevano sentire da almeno un centinaio di metri. Il cavaliere sopra all'animale maestoso, per provare tutta la velocità che aveva da offrirgli, non si posava neanche sulla sella, ma con le cosce sode e muscolose, si teneva sulle staffe, assecondando con il bacino i movimenti perfetti della sua cavalcatura. La sua divisa da equitazione era immacolata e perfetta come ogni giorno, i ricci scuri e setosi si muovevano al vento lasciati liberi dal cap che non aveva voluto indossare. Sorrideva, anche se aveva l'umore a pezzi, ma lui sorrideva, perché quando cavalcava, si concentrava così tanto su quell'attività da dimenticarsi del resto. Cavalcare è come una cura, un balsamo per l'anima. Ti devi concentrare perché sei su un animale vivo e pensante, non puoi distrarti perché lui sta ai tuoi comandi, di nessun altro, solo ai tuoi. Si crea un legame profondo tra il cavaliere e il cavallo, l'uno lascia che l'altro abbia in mano la sua vita e l'altro lascia che quello possa dirgli cosa fare. E' un rapporto di fiducia che solo chi lo ha provato può capire. Harry non poteva farne a meno, per lui era come acqua, bramava quella sensazione, era così concentrato in quello che faceva quando era con i suoi cavalli, che riusciva perfino a lasciare dietro di sé le opprimenti preoccupazioni che gli affollavano la testa e gli influenzavano la vita.
Golden era veloce, possente ma leggero allo stesso tempo, possedeva un innata coordinazione ed era veramente un cavallo eccezionale anche nel carattere. Non era cresciuto in un ambiente troppo delicato in effetti, aveva una cicatrice bianca e lunga su una coscia, che il crine copriva a malapena, probabilmente un frustino troppo forte aveva scavato nella sua carne, forse un uomo crudele aveva pensato che più gli faceva del male, tanto più avrebbe corso, ma si sbagliava. Hanry lo aveva notato mentre lo sellava lui stesso la prima volta qualche giorno dopo averlo preso. Aveva aspettato che si ambientasse nel nuovo box, che conoscesse Kindness e Eighteen che avevano un carattere ben diverso dal suo, come gli umani dopotutto, aveva voluto prima vederlo in semilibertà nell'ampio recinto, poi lo aveva montato e si era affezionato. Proprio come aveva fatto con Kindness e Eighteen. Adesso aveva tre bellissimi esemplari equini, che forse si diceva, lo capivano meglio di ogni persona mai conosciuta. Naturalmente Eighteen rimaneva il suo preferito certo, ma era contento di averli tutti e tre.
Gli occhi del giovane Conte erano lucidi, verdi come i fili d'erba più giovani appena nati, limpidi come la luce del sole che rifletteva le gocce di rugiada, umidi come la sua camicia sotto la giacca a doppiopetto nera con le code che aveva indossato quella mattina, senza l'aiuto del Signor Scott, che adesso gli aderiva prepotente alla schiena ormai bagnata dal sudore che gli scendeva lungo la spina dorsale, ma di cui non si curava affatto.
Il suo valletto aveva la giornata libera, non lo aveva cacciato, certo che no, come poteva? Jake sembrava saperlo bene due notti prima quando lo aveva respinto senza troppe spiegazioni. Erano stati due giorni di silenzi. Non si erano quasi praticamente parlati, ma l'attrazione inevitabile che si era creata tra loro, bruciava forte anche senza toccarsi. Hanry ci aveva provato ad essere irascibile, insopportabile e scontroso più del dovuto, perché ci era rimasto male, e nessuno mai gli aveva negato anche solo del sesso. Ma con Jake non ci riusciva. Aveva sfoderato il peggio di sé, ma il valletto, pareva non curarsene, lo guardava sempre e comunque con quegli occhi impenetrabili dai quali proprio lui non riusciva a staccarsi. Quindi aveva ponderato. Aveva pensato tanto se fargli o meno quella proposta, la cosa che gli avrebbe chiesto al suo rientro. Aveva paura di un altro rifiuto, aveva paura di essere messo di nuovo in ridicolo, aveva paura che lui gli dicesse di no soprattutto perché voleva disperatamente sentire un sì. Così aveva saputo da Connor che il suo giorno libero era quel mercoledì e aveva deciso di agire, ma prima doveva togliersi la stanchezza e il nervosismo di dosso, e solo con Golden avrebbe potuto.
Le redini tenute strette dalle delicate mani chiare del giovane Conte, erano il contatto che gli serviva per spronare ancora Golden a dare il meglio di sé. Quando in lontananza, Hanry vide l'enorme tenuta che si ergeva maestosa nel terrapieno che la ospitava, si rilassò sulle gambe e rallentando l'andatura, si sedette di nuovo sulla sella per poi finire al trotto, mentre Golden riprendeva fiato.
«Bravissimo Golden!»
Sussurrò al cavallo mentre sporgendosi in avanti accarezzava il manto completamente sudato dell'animale che lo stava riconducendo adesso placido verso le stalle.
«Ottimo lavoro, sei stato bravissimo.» il cavallo nitrì felice di quelle attenzioni. Poi Hanry smontò, con un agile balzo e decise che avrebbe fatto a piedi gli ultimi duecento metri che lo dividevano dalle scuderie. Sì, aveva deciso che quella sera ci avrebbe provato, gli avrebbe scritto un biglietto che avrebbe poi messo sotto la porta della sua stanza, che tanto avrebbe voluto rivedere e avrebbe aspettato impaziente l'arrivo del mattino, per parlargli, finalmente. Non sarebbe stato facile, non si era mai sentito così impacciato e sciocco, reagiva con violenza e arroganza quando si sentiva esposto e in difficoltà, ma voleva provare a plasmare quella parte del suo carattere che molte volte aveva fatto danni nelle relazioni sociali, figuriamoci in quelle romantiche. Sì ci avrebbe provato, perché sapeva che voleva ancora quelle mani su di sé, sapeva che voleva quegli occhi chiari sul suo corpo, mentre gli guardavano il viso e gli sfioravano l'anima così in profondità da rimanere senza fiato. Voleva ancora provare la sensazione di leggero tremore che riconosceva in se quando vedeva quell'uomo, voleva dirgli tante cose, magari non subito ma avrebbe voluto tanto, così sì, ci avrebbe provato e ormai aveva deciso.
***
Erano più di due mesi che non scendeva a King's Cross, ma certo Londra non era cambiata di una virgola. Cosa si aspettava forse di trovarla diversa? Magari più pulita, meno rumorosa, non troppo affollata e meno snob?
No, era sempre la solita vecchia Londra, fatta di fumo e cenere, schiamazzi e frastuono, odori nauseabondi e profumo di burro. Era sempre la Londra che aveva conosciuto quella che gli sembrava ormai una vita fa. Sempre la solita città aristocratica con quell'aria altezzosa e giudicante, sempre la città che accoglieva uomini e donne da tutte le parti del mondo, e che parlava mille lingue diverse. Sempre la stessa. Ma lui in fondo un po' l'amava, perché come si fa a non amare Londra? Con quell'aria grigia anche in Primavera, con quella nebbia fitta che ti entra dentro e non ti abbandona più, con quell'abitudine di leggerti sempre in profondità, anche se tu credi di non permetterglielo, eppure lei ci riesce, sempre. Perché lei è così, magica, ricca, bella, povera, brutta, grande, piccola, vera e falsa. E' tante cose e non ne è nessuna, è solo una città di opportunità oppure la tua peggior nemica, è la tua casa ma anche un posto dove non vorresti mai vivere. E' umida, è piovosa, ma sa essere anche allegra e piena di sorrisi, raramente, ma è così. Quindi a parte le temperature che Jake odiava, amava un po' anche Londra e non l'aveva trovata diversa quella mattina, per fortuna.
Il posto che avevano scelto per l'incontro era in pieno centro, niente poteva essere meno insospettabile che un pub pieno di gente nel pieno centro di Soho. Certo sarebbero stati esposti, qualcuno avrebbe potuto conoscere la persona che lo aspettava, ma erano sempre stati più che bravi a fingere e mentire, per necessità più che altro. Infatti adesso, mentre Jake prendeva un black cab che lo avrebbe portato proprio vicino al The Dog and Duck , vestito elegantemente in blu scuro con la coppola in tweed grigia che riprendeva il tessuto del panciotto, si abbassava la visiera sugli occhi, per non attirare troppo su di se l'attenzione. Lo faceva soprattutto per le signore borghesi e ben vestite che avrebbe incontrato, ma anche ne era certo, per molti uomini che non riuscivano più a distogliere lo sguardo dai suoi occhi una volta guardati. Così manteneva un profilo basso, sicuro di sé certo, sempre impeccabile ovvio, ma non era quella la giornata giusta per la vanità, anche se in quel completo ci si sentiva talmente bene che sapeva di non passare proprio inosservato. Avrebbe dovuto scegliere un altro colore, ma il blu quella mattina gli era parsa la scelta più giusta, e aveva subito capito di aver azzardato troppo, perché una volta uscito dalla sua stanza aveva incrociato Juliet, che per poco non era svenuta. Sapeva che la cameriera aveva un debole per lui, Connor Daily Express ovviamente lo aveva messo a parte anche di questo, ma lui non gli aveva dato alcuna falsa impressione, anzi, cercava sempre di evitarla, ogni volta non riuscendoci mai, e suo malgrado la ragazza doveva aver scambiato quelle sue sempre buone e gentili maniere, per interesse. Ma poco importava a quel punto, perché una volta varcata la soglia dello storico pub, Jake fu investito da odore di sigaro, sigarette e Brandy, quindi non gli ci volle poi tanto a capire che suo fratello doveva essere dalla parte opposta della sala.
«Avevo detto "senza dare nell'occhio" fratellino.»
«Beh ci ho provato te lo assicuro, ma è abbastanza impossibile, come vedi.»
Nascosto dietro ad un alta poltrona in pelle mogano, davanti ad un piccolo tavolinetto su cui erano appoggiati un bicchiere di Cherry e uno di birra scura, probabilmente Irlandese, c'era Kiran. Indossava un completo color tortora molto chiaro, con panciotto e stivaletti bordeaux scuri, i capelli erano nascosti da una coppola dello stesso colore del completo che nascondeva abbastanza i suoi lineamenti conosciuti fin troppo da quelle parti, o almeno ci provava. Gli occhi taglienti e luminosi di ambra pura si posarono sulla figura che lo raggiunse e una volta osservato dall'alto in basso il fratello, ammonendolo, si alzò in piedi per salutarlo in un abbraccio forte. Nessuno stava badando a loro in quel momento, potevano concedersi almeno quello, dopo più di sei mesi di telegrammi e lettere.
Poi si ricomposero e anche Jake prese posto davanti al moro su una poltrona identica all'altra, mettendosi comodo con le gambe leggermente larghe e sfilando dalla giacca una sigaretta che accese avido.
«Ma non mi dire...»
«Ci sono tante cose che non sai di me in queste vesti.»
Il moro riferendosi al fatto che il fratello fumasse, prese un sorso dalla sua bevanda zuccherina e rossa brillante, per poi piantare gli occhi in quelli azzurri dell'altro, aspettando delle spiegazioni.
«Non so se mezz'ora basterà Kiran.»
«E' quello che possiamo concederci J, se lui ci vede o chiunque per lui, sai come finisce la questione, e non voglio che finisca, lo sai, non ora che ci siamo così vicini.»
Jake prese un sorso della sua birra scura, assaporando la freschezza di quella bevanda al sapore di orzo e luppolo che aveva scoperto piacergli non tanto tempo prima. La schiuma gli si appoggiò avida sul labbro superiore e lui, posando sul sottobicchiere il boccale, riuscì a pulirsi con un innata eleganza, reminescenza della sua educazione alto aristocratica.
«Sai che tra qualche settimana sarà il momento sì?»
«Appunto per quello non voglio fallire.»
Kiran parlò a voce bassissima, ma il fratello lo capiva ugualmente, lo avrebbe sempre capito, in qualunque lingua gli avesse parlato. In realtà da quel momento in poi, usare l'hindi sarebbe stato molto più sicuro, quindi non persero tempo.
«Non potrò esserci per la cena di gala, dovrò trovare una scusa per non presenziare, lui conosce bene la mia faccia e non ho ancora capito come a fatto a non riconoscere la tua in effetti.»
«Lui è un presuntuoso arrogante figlio di puttana, per lui sono solo una delle tante scimmie ammaestrate che sono al suo servizio. Solo che sono la scimmia più in gamba e informata che ha, e guarda caso conosco ogni commercio da qui a Jaipur a memoria.»
«Touchè fratellino.» Jake con un sorriso soddisfatto piegò la testa verso il moro e fece un altro tiro dalla sigaretta che aveva tra le dita. Kiran gli sorrise di rimando, l'arroganza forse faceva parte anche dei Thompson dopotutto.
«Non può fare a meno di me, gli ho reso le cose fin troppo facili, so quello che faccio al contrario di molti altri e lui pagherà per quello che ci ha fatto.»
«La calma ci aiuterà, lo sai.» Jake spense il mozzicone nel posacenere di cristallo grande e intarsiato posato al centro del tavolino.
«Gli faccio da galoppino da due anni J, due cazzo di anni e ho avuto più occasioni io di fare quello che doveva essere fatto, che tu con quel coglione del padre, non venire a parlarmi di calma.» Kiran strinse forte la mascella per mantenere un decoro che iniziava a sfuggirgli, ma sapeva che il fratello aveva ragione.
«Non potevi farlo in un momento qualunque, lo sai, saresti finito impiccato o peggio.»
Kiran prese ancora un sorso del suo Cherry. Parlare di quella cosa lo innervosiva tremendamente e la pazienza che tanto aveva avuto, adesso iniziava a mancargli.
«Dobbiamo agire come abbiamo detto, altrimenti non ci sarà più futuro per noi, per nessuno dei due.»
Jake avrebbe voluto fare un ultimo tiro dalla sua sigaretta ma si accorse un secondo dopo di averla spenta qualche istante prima, così guardò negli occhi il fratello che però si voltò subito, forse per dare un'occhiata circospetta intorno a sé tanto per non abbassare la guardia, ma lo stava ascoltando con attenzione, come faceva sempre, infatti si avvicinò di poco sporgendosi sulla poltrona.
«Sì Jake, hai ragione, ormai ci siamo, tutto presto sarà concluso e noi torneremo quello che eravamo e quello che dovevamo essere già ormai anni fa.»
«Sì fratello, puoi giurarci. Ma devo dirti prima una cosa.»
***
La verità. Jake avrebbe voluto dirgli tutta la sincera verità, ma non ci era riuscito. Sapeva che quella sua scelta avrebbe portato a delle conseguenze non troppo felici, ma non ci era davvero riuscito.
Si sentiva di aver tradito suo fratello, un buco nel petto gli si stava aprendo, ma sapeva anche che forse tutto quel male, più che a Kiran lo stava infliggendo a se stesso.
Sul treno che lo riportava verso Grantham, gli sembrò di avere come un déjà vu, la città lasciò il posto alla periferia, i recinti ben ordinati della maestosa e rurale campagna inglese delimitavano prati verdi e cottage in pietra. Più si avvicinava alla sua meta e più si rendeva conto, che in quei giorni qualcosa gli era mancato. In pochi mesi era riuscito ad essere un perfetto valletto, impeccabile, ineccepibile, affidabile, uno su cui poter contare nel caso del bisogno, una spalla perfetta nei momenti di défaillance che il giovane Milord avrebbe potuto avere. Ma poi si era improvvisamente reso conto di essere stato tanto altro. Non c'era stato solo sesso tra loro, non c'erano stati solo orgasmi e gemiti mal celati. Hanry si era aggrappato a lui come ad un ancora, una corda legata stretta da un nodo che difficilmente si sarebbe sciolto, anche se lui ci aveva provato già più volte non riuscendoci. Perché sapeva che anche se lo aveva rifiutato, troppo colpevole per poterlo anche solo baciare, troppo indifeso dai ricordi che gli assalivano la mente per poterlo soddisfare, sapeva che Hanry lo voleva ancora. Lo vedeva nei gesti bruschi ma non violenti che aveva fatto in quei giorni di freddezza e lontananza, lo percepiva nelle parole al veleno che gli rivolgeva ma non negli occhi che guardava mentre le diceva. Anche lui doveva essersi accorto di qualcosa, ne era certo. Si sentiva osservato anche quando nessuno lo avrebbe dovuto vedere, aveva sentito i passi flebili del giovane Conte, davanti alla sua porta due notti prima, forse intenzionato a parlargli nell'intimità di una piccola camera da letto, ma probabilmente troppo orgoglioso e poco lucido ancora per farlo davvero.
Cosa stava facendo? Perché non poteva semplicemente smetterla con quel dannato capriccio dagli occhi verdi come due smeraldi, che gli ricordavano ancora una volta tutto il dolore provato nella sua casa in India, perché non poteva semplicemente farla finita e andarsene? Perché non poteva con decisione che spesso aveva, dirgli che forse gli aveva dato un'impressione sbagliata di sé e che le parole che gli aveva rivolto in tanti giorni in cui avevano parlato, erano solo cose che avrebbe detto a chiunque avesse incontrato?
Semplicemente perché non poteva.
Non ci riusciva. E sì forse era ridicolo, stupido, incredibilmente imbecille, ma gli erano bastati pochi giorni per capire che quel ragazzo, quel giovane uomo, non possedeva la natura arrogante del padre, o la sfrontatezza e la violenza del fratello. Hanry era diverso. Non lo dava a vedere ma le sue fragilità erano più di quelle che lui stesso sarebbe riuscito mai ad ammettere. In sua presenza Hanry riusciva ad abbattere un muro alto fino al cielo che si era costruito per nascondercisi dietro, perché voleva che vedesse. Hanry voleva che Jake vedesse, senza chiedere, senza dovergli spiegare. Jake lo aveva capito.
Quindi mentre guardando fuori dal finestrino lo scorrere del tempo pareva dilatarsi insieme a quella corsa sfrenata sulle rotaie, aveva preso la decisione di parlarci. Voleva solo dirgli che non lo aveva rifiutato perché non lo voleva, non perché era come la sua famiglia che gli stava voltando le spalle fin dalla nascita. Voleva solo dirgli che le cose che aveva detto prima erano vere, che sarebbero rimaste vere, e che quella era solo una giornata da dimenticare come del resto tante altre. Perché se Edmund era spietato, un assassino a piede libero e un truffatore, Hanry non voleva essere la stessa persona e Jake sapeva bene che non avrebbe neanche mai potuto diventarlo.
Quella sera una piccola festa lo attendeva al suo ritorno ad Harlaxton Manor, il compleanno del Signor Wood era arrivato e una piccola cena nel cortile sul retro era stata prevista per tutto il personale di servizio che poteva partecipare dopo che i Signori si fossero ritirati. Ci sarebbero stati dolci e birra, forse del whisky e qualche piatto prelibato preparato dalla Signora Brown con l'aiuto della giovane Sarah. Jake aveva promesso a Connor che sarebbe tornato in tempo e il biondo irlandese gli aveva rivolto un sorriso sincero che gli aveva scaldato il cuore dopo aver esclamato; «Ovvio che ci sarai, mica ti puoi perdere una serata così!»
Bastava poco per rendere felice Connor O'Brian, ma Jake si era accorto piacevolmente che la compagnia di quel ragazzo lo rassicurava e gli faceva davvero piacere, contro ogni suo pronostico.
Forse la voragine che gli stava scavando il petto, lasciandogli un buco nero nel cratere che già aveva al posto del cuore, in cui forse stava nascendo un solo stelo di erba verde dalla cenere candida, avrebbe atteso di spandersi ulteriormente per quel giorno. I sensi di colpa per Kiran, per se stesso, per quello che dovevano fare, li avrebbe accantonati, voleva cercare di lasciarsi andare almeno per una sera. Solo una cosa gli restava da fare, parlare con Hanry, forse neanche lo avrebbe ascoltato ma tanto valeva provare.
***
Rientrato in Wimpole Street, Kiran salutò la signora Dubois sulla porta del suo appartamento, dopo aver declinato l'invito di unirsi a lei per un bicchiere di whisky e una seduta straordinaria per la Marchesa di York che voleva disperatamente parlare con il marito defunto appena un mese prima. Non era in vena né di bicchieri di troppo, né di candele alla vaniglia e strane tavole di legno con sopra incise delle lettere che promettevano di farti comunicare con i defunti. La Signora Dubois provava sempre ad invitarlo a questo genere di serate, ma lui se poteva spesso rifiutava, gli piaceva la compagnia di ricche signore incipriate, erano anche simpatiche, ma dire sempre di sì a quella donna l'avrebbe reso poco appetibile e desiderabile e Kiran in vero non lo voleva questo, proprio no. Senza contare il fatto che giocare con la morte non gli piaceva, e preferiva sempre la presenza di persone vive accanto a lui che di spiriti morti. Perché le energie che hanno lasciato questa terra è sempre meglio lasciarle dove sono o se necessario richiamarle a sé in momenti di sconforto come certe volte gli capitava di fare mentre recitando i suoi mantra pensava a Ravi.
Aprì la porta e si accorse subito che sul pavimento proprio in corrispondenza dell'entrata, un foglio di carta piegato in due lo attendeva placido sulle mattonelle scure. Esitò un attimo prima di abbassarsi a prenderlo con le dita fini e insicure che tradivano una sorpresa che gli giunse nuova. Pensò al peggio in realtà, pensò che forse la sua copertura poteva essere saltata in qualche modo, pensò che uno dei suoi tanti occhi su Londra avesse notato qualcosa di sospetto nel suo datore di lavoro e che glielo avesse riferito in quel modo per non destare ulteriori sospetti presentandosi di persona al numero 23.
Ma non appena gli occhi ambrati scuri, lasciati in penombra dalla coppola che portava ancora sulla testa, si posarono sulla grafia morbida ed elegante del foglietto e su quella firma, Kiran sollevò un angolo della bocca e sorrise leggendo.
Non posso aspettare fino al mese prossimo. Aspettami davanti al giardino Giapponese alle 20 di questa sera.
Non dare nell'occhio.
L.B.
Logan gli aveva scritto un biglietto perché lo voleva vedere. Mai in mesi di fantastico sesso occasionale gli era successa una cosa simile, ma doveva ammettere che era proprio quello che gli ci voleva quella sera. La Signora Dubois poteva aspettare fino alla fine dei suoi giorni e non gli importava minimamente se lo avesse sentito uscire a quell'ora di sera, di nuovo.
Ma l'avvocato gli aveva anche chiesto una cosa che Kiran non poteva cerco rispettare; «Caro Logan, sai che mi è impossibile passare inosservato, ma per te posso provarci.»
Lo sussurrò a se stesso e portando il biglietto con sé, si diresse verso la camera da letto per potersi poi rilassare, rinfrescare e vestire nuovamente per la sua serata che certamente stava prendendo una piega interessante.
Quella sera non pioveva e per fortuna era riuscito ad arrivare al Regent's Park all'orario previsto dal suo biglietto. Aveva trascorso qualche minuto con Esh, che felice e tranquillo fuori dalla sua teca, strisciava libero sul suo letto mentre il moro si preparava all'appuntamento di quella notte. Esh si era salvato dall'incendio alla villa, solo per pura fortuna. Un uomo del personale di servizio che lavorava a stretto contatto con Maji e con i suoi animali, lo aveva trovato su un ramo di un albero in giardino qualche giorno dopo, placido e tranquillo se ne stava avvolto su se stesso quasi in attesa del suo fedele amico che credeva di aver perso. Lo aveva riportato a Kiran qualche giorno prima che lui e Jake partissero per Londra, era riuscito a riportargli quell'animaletto a cui era tanto affezionato e che non aveva avuto il cuore di lasciare lì tra cenere, lacrime e polvere, in quel cimitero a cielo aperto che era diventata la villa di Jaipur. Così Kiran era riuscito a trasportarlo con sé, non era stato facile ma almeno avevano avuto la garanzia di essere quasi sempre soli mentre viaggiavano di cuccetta in cuccetta, tra treno e nave per raggiungere l'Inghilterra, con nuovi nomi e forse anche nuove sembianze.
Stretto in un completo grigio fumo con sotto una camicia azzurra che gli fasciava vita e petto, aveva lasciato perdere il panciotto, ma aveva indossato una sciarpa blu scura che teneva sciolta sul davanti. La bombetta che aveva in testa gli nascondeva ancora una volta i capelli ma meno il volto e il lungo ombrello nero che aveva portato con sé adesso lo sorreggeva su un lato mentre in attesa contemplava l'acqua scura del laghetto Giapponese davanti a lui. Non prometteva pioggia, ma uscire con qualcosa che lo potesse in ogni momento riparare da facce familiari, lo rassicurava.
«Avevo detto di non dare nell'occhio o sbaglio?»
Una voce austera, ma morbida e appena arrochita giunse all'orecchio del moro che si voltò subito sentendo già un brivido di eccitazione che gli attraversava la schiena.
«Lo sa che mi è impossibile Avvocato Bennet, temo che dovrà farmi causa, suppongo.»
Gli occhi già famelici di Logan viaggiavano veloci a scandagliare ogni centimetro dell'uomo davanti a lui. Kiran gli rivolse un sorriso sghembo e provocatorio, proprio uno di quelli che riusciva ad inchiodare l'avvocato e per una volta anche a togliergli le parole di bocca.
Logan si chiese tra sé in effetti, come potessero le altre persone guardare uno come Kiran e non rimanerne immediatamente affascinati. Se lo chiedeva davvero e si domandava anche se avesse fatto bene ad accontentare il suo bisogno di rivederlo o se lui, dopo aver saputo qual era l'intenzione di quella serata, si fosse o no tirato indietro.
Già il vederlo lì comunque lo mandava fuori di testa, perché era un chiaro segno che non solo aveva letto il suo biglietto, ma che Kiran voleva rivederlo quanto lui.
«Ti va di seguirmi?»
«Tutto dipende da dove vuoi portarmi.»
Kiran rivolse nuovamente lo sguardo verso il piccolo laghetto, distogliendolo da Logan che indossava impeccabilmente un completo blu scuro, quasi dello stesso colore della sua sciarpa, con una camicia bianca dal colletto inamidato, il tutto completato da una bombetta abbinata che esaltava ancora di più la sua figura slanciata e muscolosa dalle spalle larghe e solide. Quegli occhi nocciola scuri lo abbracciavano anche a distanza e il moro non voleva rischiare di sentire sulla sua schiena le dita calde del suo amante mentre ancora era vestito di tutto punto, perché solo se lo guardava e le immaginava, il suo basso ventre aveva reazioni poco velate. Non era il caso a Regent's Park.
«Se te lo dicessi non ci sarebbe più il gusto della sorpresa.»
Kiran sorrise e scosse appena la testa, voltandosi ancora verso Logan che come lui guardava verso l'acqua scura.
«Con lei è sempre difficile avvocato, per sua fortuna tende ad essere molto persuasivo, suo malgrado.»
«Non con tutti sfoggio un simile charme, devo ammetterlo.»
Così storcendo appena le labbra, mentre non voleva dare la soddisfazione a Logan di vederlo ridere, gli rivolse un'altra frase che era sicuro sarebbe stata una delle ultime formali di quella sera.
«Allora la seguo avvocato, dopo di lei.»
Un appartamento sontuoso oltre ogni dire li attendeva a Rosslyn Hill a due passi dalla collina di Hampstead Heath, sull'angolo di una strada poco illuminata proprio sul limitare del parco. Kiran non aveva mai frequentato quella zona di Londra, ma doveva ammettere che anche se l'ora era tarda, c'era una quiete che non si aspettava.
L'autista di Logan li aveva accompagnati fin lassù, non ci era voluto molto e Kiran era rimasto davvero stupito dal fatto che l'avvocato Bennet fosse così tranquillo nel condividere con quell'uomo la presenza di qualcuno insieme a lui che non fosse una signorina. Ma probabilmente, l'uomo alla guida dell'automobile aveva una paga così alta da non porsele neanche certe domande, era sicuramente così.
«I miei genitori volevano venderlo. Questo appartamento non è mai piaciuto a nessuno della mia famiglia.»
Kiran si guardava intorno passando in rassegna l'ambiente circostante e domandandosene il motivo. Un grande salone arioso e con grandi vetrate faceva da benvenuto oltre la soglia. Il salottino con divano e poltrone in velluto color burro con mobilio in legno chiaro, ospitava tanti vasi di fiori freschi e profumati che il moro poteva giurare fossero stati messi lì per l'occasione. Un grande caminetto adesso spento faceva comunque bella mostra di sé al centro della parete più lunga e sopra di esso un tipico quadro di caccia alla volpe donava ancora più naturalezza al contorno. Le boiserie in gesso bianco che venivano fuori dalle pareti, donavano un'aria regale a tutta la stanza e le lampade ad olio illuminavano gli intarsi chiari scuri donando movimento a quell'ambiente così caldo e delicato. Quell'appartamento gridava Logan Bennet in ogni angolo.
«E' un peccato vendere tutto questo, la vista deve essere molto bella di giorno.» intervenne avvicinandosi alle vetrate, riuscendo a scorgere al di là degli alberi del parco, le luci fioche in lontananza che illuminavano la città.
«Infatti l'ho tenuto per me, e non c'è nessuno a parte noi.»
Lo sguardo malizioso di Logan incontrò quello lucido di Kiran che a quell'affermazione si voltò verso l'avvocato che intanto stava riempiendo due bicchieri colmi di ghiaccio alla postazione degli alcolici che stava di fianco al caminetto in una bassa vetrinetta di cristallo.
«Non voglio servitù, ci sono solo la governante che viene di rado e un paio di cameriere che mantengono tutto in ordine e pulito, non mi serve altro, nessuno sa di questo appartamento praticamente, o almeno non sanno che è mio.»
Kiran sorrise, sapeva che lui era avvezzo a ben altre comodità, ma vederlo in quella chiave così moderna e bohemien, gli fece nascere un brivido di eccitazione lungo la schiena. L'avvocato sapeva bene che effetto aveva sul moro, sapeva che Kiran non era come tutti gli altri uomini bisognosi d'attenzione che certe volte aveva incontrato in qualche basso fondo di Camden solo per sfogare i suoi bisogni. Kiran era diverso, elegante, elitario ma senza esserlo davvero, delicato come una rosa ma dal temperamento di fuoco.
Il moro dal canto suo, quel giorno portava con sé un nervosismo che aveva mal celato per tutta la sera, ma che dopo aver letto quel biglietto sulla soglia del suo appartamento, aveva già iniziato a sentir scemare sempre di più. Perché si era davvero molto arrabbiato con il fratello, ma non poteva fare a meno di capire anche la sua di situazione, così voleva essere comprensivo e questo richiedeva anche non lamentarsi e non irritarsi ulteriormente. Ma voleva sfogarsi, e sì, il sesso con Logan gli serviva anche per quello, così aveva accettato senza pensarci neanche un attimo e ora in quell'appartamento così accogliente e caldo, con il pensiero di non essere interrotti da nessuno e con la tranquillità di potersi godere una notte di piaceri, sorrideva.
«Da chi hai imparato ad essere così autonomo Logan?»
L'avvocato si diresse verso di lui con i bicchieri colmi di due diversi liquidi, e uno lo porse al moro.
«Cherry?»
Kiran sorrise di nuovo, come poteva già conoscerlo così bene da avere una bottiglia di Cherry proprio nel minibar del suo salotto?
«Forse ho imparato da un uomo che ammiro molto e che non vedo l'ora di baciare sinceramente.»
A quelle parole Kiran sorseggiò famelico il liquido rosso che fresco e liscio gli accarezzò la gola e gli inumidì le labbra appena scure con un velo di cremisi. Logan si leccò le labbra a quella vista e sorseggiò anche lui il suo amato Brandy, per poi non riuscire più a resistere e davanti a quella vetrata che ora celava l'interno dall'esterno con una tenda avorio di taffetà ricamato. Prese Kiran tra collo e viso con una mano delicata ma decisa e lo attirò a sé facendo collidere le loro labbra in un bacio di passione e bisogno che prese fuoco in un attimo.
Erano già nudi in pochi minuti, spogliarsi dei costosi abiti che indossavano era una delle cose che più preferivano e in un groviglio di baci, braccia e gemiti, adesso erano sul divano morbido color burro che grande e imponente faceva da protagonista in quella stanza. Alla camera da letto non ci erano arrivati, troppo bisognosi, troppo famelici. Logan seduto su dei morbidi cuscini, accarezzava la schiena scura del suo amante mentre a cavallo sulle sue gambe, accarezzava a sua volta le loro erezioni insieme che unite collidevano tra loro. Si baciavano mordendosi le labbra e marchiandosi il collo, le dita di entrambi lavoravano sicure sui loro corpi, consapevoli di quali fossero i punti più sensibili l'uno dell'altro. Logan amava condurre i giochi, Kiran voleva essere preso da lui e le sue fantasie non potevano che farlo eccitare ancora di più. I respiri caldi, la luce soffusa, i gemiti sommessi, avevano trasformato la stanza in un alcova di piaceri.
«Kiran così mi farai impazzire.»
«E' proprio quello che voglio fare.»
Il moro con i capelli ormai liberi da costrizioni, aveva il volto seminascosto dal suo ciuffo corvino. Logan lo guardava e riusciva solo a vedere quanto lo volesse e quanto volesse possederlo. Il moro si perdeva negli occhi dell'avvocato, che conosceva ogni sua fantasia e che era sempre pronto a soddisfarla.
In un gesto di impazienza, Kiran prese tra le mani due dita dell'altro che succhiò avido con la bocca che ancora sapeva di Cherry e guardandolo negli occhi affondava con le labbra in un inequivocabile gesto. Logan gemette e il suo membro ebbe un sussulto, era eccitato e stava capendo chiaramente che cosa voleva fare il suo amante.
«Così sei scorretto.»
Il moro sollevò un angolo della bocca e guardandolo ancora negli occhi continuò a leccargli le dita finché non fu soddisfatto e di sua volontà le portò dietro la schiena a coincidere con le sue natiche fino al suo punto più nascosto.
Logan recepì subito tutto e affondò dentro di lui mentre Kiran continuò a baciarlo con sempre più trasporto. Pochi istanti dopo, mentre il moro sfregava ancora le loro erezioni, Logan si fece ancora più spazio in lui con le sue dita, Kiran lo prese per la nuca e facendogli sollevare il volto lo baciò attutendo i gemiti di entrambi. Il moro iniziò a muoversi penetrandosi da solo e dettando un ritmo che gli stava piacendo terribilmente.
Passarono alcuni minuti e le loro erezioni sempre più gonfie iniziarono a fare quasi male. Kiran iniziò a volere di più e così non pensò troppo ad usare le parole giuste.
«Logan ti voglio.»
«Quanto?»
Logan gli bloccò i movimenti, tenendolo per i fianchi, fermo prima che gli rispondesse. Mantenere il controllo era una cosa che lo faceva eccitare troppo e con lui sapeva di potersi concedere quel lusso che mandava fuori di testa entrambi, lo sapeva bene.
«Tanto.»
«Non basta.»
Lo teneva ancora fermo, Kiran voleva muoversi per sentire quelle sensazioni che gli scorrevano dentro e placavano un po' la sua libido, ma Logan glielo impediva, anzi, lo penetrò più in profondità e lo fece sussultare prima di gemere forte.
«Ti voglio tanto Logan.» disse poi, sperando che potesse bastare a convincere l'avvocato a cambiare le sue dita con la sua erezione di cui sentiva di avere bisogno in quel momento. La pelle d'oca gli riempiva la schiena e i loro profumi mescolati insieme erano inebrianti.
I brividi che gli ricoprivano il corpo, erano una delle cose più belle che Logan avesse mai visto e vedergli il petto scuro con i capezzoli turgidi che richiamavano la sua attenzione e che avrebbe voluto mordere, gli facevano perdere ogni controllo.
«Prova ancora.»
Kiran era frustrato e provò a muoversi di nuovo ma Logan lo immobilizzò ancora per il fianco.
«Logan, voglio che mi prendi in questo momento, voglio sentirti dentro di me, ne ho bisogno.»
L'avvocato lo guardò e Kiran sperò in un assenso che però non arrivò ancora. Sbuffò.
«Vuoi dirmi qualcos'altro?»
Kiran allora si sporse vicino al suo orecchio e sospirando, provò ancora a convincere il suo amante a cedere.
«Fammi gemere forte e vieni dentro di me adesso avvocato Bennet.»
Logan deglutì, e togliendo la mano dal fianco la mise sul volto per poi baciarlo violentemente in una danza di lingua e denti che di casto non aveva nulla. Kiran tirandosi appena su con le ginocchia puntate sul divano, si abbassò sull'erezione di Logan, che intanto lo guardava estasiato da seduto, mentre gli accarezzava le natiche lisce e sode. Piano piano, sentendo ogni centimetro dentro di lui arrivò a sedersi sulle gambe dell'avvocato che ormai stava gemendo a sua volta sentendo quel calore che tanto aveva desiderato ricoprirgli il corpo. Logan non si era scordato di quello che Kiran gli aveva detto, così prese la situazione in mano come gli piaceva fare e iniziò ad assecondare i movimenti dell'altro, con spinte poderose. Kiran gemeva e muoveva il bacino in modo così elegante e sensuale che Logan pensava di non poter mai più vedere qualcosa di più bello. Con le labbra, tenendo adesso dai fianchi Kiran, iniziò a leccargli il petto, facendo ancora di più gemere l'altro che si teneva alle sue spalle possenti.
Logan bramava avido i gemiti che ancora voleva sentire. Kiran glieli regalò, perché tutte quelle sensazioni insieme erano davvero tanto. Dopo minuti interminabili, di spinte, piacere e gemiti, l'avvocato approfondì la penetrazione che ora era diventata più sconnessa e veloce. Non servirono altre parole, dopo altre profonde spinte che fecero urlare il moro questo si liberò e pochi istanti dopo fu seguito dal suo amante.
Tornarono a baciarsi, esausti ma soddisfatti, sapevano che quello sarebbe stato il primo di altri piaceri che li attendevano quella notte a Rosslyn Hill. Perché forse quella casa, poteva diventare un rifugio per quei due amanti, forse avrebbe visto cose che loro potevano concedersi solo lì dentro, sarebbe stata testimone di molte cose in effetti, ma per il momento, ancora stretti su quel divano chiaro, calmarono solo i loro respiri guardandosi soddisfatti.
***
La birra era tanta, Sophie Tucker cantava alla radio che era stata messa sul davanzale di una finestra della cucina che dava direttamente sul cortile, così da poterla sentire anche se flebilmente. L'atmosfera era gioiosa e tutto il personale di servizio si stava divertendo dopo aver mangiato la buonissima torta al cioccolato e pan di Spagna che la Signora Brown aveva preparato per l'occasione. Jake era giunto a Grantham giusto in tempo per la cena e come il primo giorno che era arrivato, percorse a piedi la strada dalla stazione ad Harlaxton Manor, mentre si godeva la piacevole e flebile luce del pallido tramonto che lasciava spazio alla sera fresca e primaverile.
Si era cambiato e si era messo comodo per i festeggiamenti, indossando pantaloni grigi chiari larghi che ricoprivano per metà i suoi scarponcini neri. Erano tenuti in vita da delle bretelle scure che risaltavano sulla camicia bianca che adesso aveva le maniche rigirate sull'avambraccio e due bottini sganciati vicino al collo, perché dopo aver accontentato con qualche ballo di coppia, Juliet e Sarah, iniziava a sentire caldo e doveva fermarsi. I capelli appena scompigliati gli ricadevano in un ciuffo lungo sul davanti, il viso sempre affilato e sbarbato di fresco da quella mattina, non lasciava travedere la preoccupazione dei discorsi fatti quel giorno con suo fratello, e i suoi occhi blu cercavano in ogni modo di sembrare tranquilli mentre sorseggiava della birra da un boccale di vetro.
Connor gli si avvicinò offrendogli le sigarette e mettendosi come lui, appoggiato al basso muretto che divideva il cortile dal giardino. Il Signor Wood sorrideva felice e si godeva la festa incoraggiato da una Signora Davies radiosa che si era lasciata convincere ad unirsi alle danze e aveva lasciato l'austera Governante a bada per qualche minuto. Le ragazze scherzavano tra loro, scambiandosi battute e lo stesso facevano Michael e gli altri. L'unica nota stonata era quell'antipatica della Miles che naturalmente con il suo whisky in mano, non faceva che squadrare tutti dall'alto in basso in un angolo del cortile, altezzosa come sempre.
«Mi ci voleva proprio una serata come questa!»
esclamò l'Irlandese, accendendosi la sigaretta e poi porgendo il cerino a Jake.
L'aria fresca lasciava che il profumo del gelsomino che stava nascendo dietro il giardino d'inverno a due passi da lì, arrivasse fino a loro e gli inebriasse i sensi con il suo aroma dolce e persistente.
«Sì hai ragione, ci voleva proprio.»
«Ci sai fare con le ragazze è? Cadono tutte ai tuoi piedi sembra.» Connor gli diede una gomitata ridendo, mentre faceva scontrare i loro calici colmi di birra per poi prenderne un lungo sorso. L'altro sorrise e fece lo stesso scuotendo un po' la testa.
«Sono tutte per te, te lo assicuro, non mi interessano al momento.»
Connor lo guardò ancora, gli occhi azzurri e lucidi per l'alcol rimanevano comunque sinceri e veri e le sue gote appena arrossate erano la prova che quell'argomento gli interessava parecchio.
«Naaa! Non credo di piacere a nessuna di queste splendide fanciulle, sono un rivoluzionario irlandese, la classe non fa parte di me.»
Scherzò, tirando ancora dalla sigaretta.
«Aaah è questa la tua scusa allora?»
«Che cosa? No niente scuse è la verità. Queste ragazze cercano gentiluomini Jake, come te.»
«Ma se sono solo un valletto, cosa credi che abbia da offrirgli?»
«Non sei solo un valletto, in effetti siamo tutti d'accordo sul fatto che tu ci stia mentendo caro Jake.»
Il castano sussultò e si fece tremendamente serio. Cosa l'aveva tradito? Che cosa potevano aver scoperto? Era stato attento, non aveva mai lasciato nulla al caso e la sua stanza era sempre ben chiusa a chiave. Come potevano aver capito altro?
«Sappiamo che ci hai nascosto qualcosa.» aggiunse il biondo, facendolo ancora di più preoccupare così da prendere avido un tiro della sua sigaretta ma rimanendo muto.
«Tu hai una classe innata, dicci la verità, in realtà sei una specie di genio del galateo, vero? Abbiamo indovinato?»
Jake sospirò sollevato. Connor scoppiò in una risata contagiosa e rumorosa e prese ancora un altro sorso di birra.
«Ahahah, che c'è Signor Scott? Dovresti vedere la tua faccia...ahahaha, che cosa credevi che ti avrei detto?»
Jake rise a sua volta, certo, era ovvio, che cosa credeva che gli avesse detto?
«Beh me l'hai proprio fatta, per un attimo pensavo di averlo tenuto bene questo segreto, invece mi hai scoperto!»
Ridevano, se non altro per smorzare l'imbarazzo, e poi perché la risata di Connor era davvero molto contagiosa.
«Invece io dicevo sul serio sai? Clara non ha fatto che guardarti per tutta la sera.» Cambiò repentino argomento mentre l'altro accanto a lui si tranquillizzava dal riso e tornava quasi serio a sentire il nome della cameriera che effettivamente dall'altro lato del cortile, insieme a Margharet, lo stava guardando sorridendo.
«Non penso che sia come dici.»
«Oh credimi lo è...e lei non vede proprio l'ora di ballare a quanto vedo.»
Connor deglutì e si fece improvvisamente più serio del solito. Era in imbarazzo, ma Jake sapeva del suo debole per Clara, quella ragazza castana scura dagli occhi grigi che veniva dalla Francia e che aveva iniziato a lavorare lì per pagarsi la scuola di cucito che voleva fare a Londra. E sapeva anche che a Clara quel cameriere piaceva tanto, che poi glielo avesse o meno detto Sarah una sera mentre entrambi si concedevano un po' di relax in cucina, questa era un'altra storia.
«Dici che dovrei?»
«Dico che dovresti sì Connor, lei vorrebbe tu lo facessi.»
Il biondo si voltò verso il valletto che con un brindisi d'incoraggiamento lo spronò ad andare. Bevvero le ultime gocce della loro birra e poi Connor si buttò.
«Vai, è il tuo momento.»
Gli gridò Jake scomponendosi un attimo, e prendendo l'ennesima sigaretta che aveva messo dietro l'orecchio per poi accenderla con i cerini che gli aveva lasciato l'amico.
Quei dialoghi spensierati, quelle vite semplici che scorrevano davanti ai suoi occhi e delle quali forse voleva disperatamente fare parte, erano piacevoli parentesi che si concedeva per non pensare a tutto il resto. Quei momenti di gioia, che sapeva sarebbero potuti durare il tempo di un sospiro, gli davano conforto in una vita di vendetta e dolore. Quindi certe volte, ci si immergeva e anche se si riprometteva sempre di non entrare troppo nelle vite di quelle persone, immancabilmente la sua vera identità socievole prendeva il sopravvento. Perché lui era sempre stato abituato a vivere con semplicità e senza giudizio, era sempre stato meglio con la servitù che con gli aristocratici pur facendo parte di quella categoria, e il sapere che una persona come Connor poteva reputarlo tanto vicino da confidargli i suoi sentimenti per una ragazza, gli riempivano d'affetto quel piccolo pezzo di cuore che gli era rimasto.
All'improvviso poi sentì uno strano fruscio tra le fronde dietro di lui. Si sporse per vedere e notò dei movimenti. Senza farsi notare da nessuno, stando ben attento sopratutto alla Miles, mentre ancora tutti si divertivano e ballavano, spense la sigaretta e scavalcò il muretto. Oltrepassata la grande pianta di magnolia che divideva il giardino dal cortile, dotò una figura scura che si stava allontanando verso il centro del prato a passo svelto e si dirigeva verso la struttura in pietra dove aveva visto il giovane Conte di Harlaxton leggere il suo libro uno dei primi giorni che era arrivato lì.
Non poteva confondersi, sapeva chi era quella figura, gli aveva riconosciuto il modo di muoversi e i passi svelti e quasi scoordinati sul prato gli avevano dato la prova finale che quello fosse chi credeva. Arrivato sotto gli archi scuri e bui della struttura in pietra, quella figura si fermò di spalle e lui fece lo stesso a qualche metro di distanza. Il cuore gli batteva all'impazzata per tutta quell'assurda situazione.
Poteva anche essersi sbagliato, poteva essere magari qualcun altro, ma il profumo fresco che sentiva era il suo, e non poteva confondersi, perché glielo aveva sentito addosso troppe volte e sapeva anche che se lo avesse annusato in alcuni punti del suo corpo, sarebbe venuto fuori più intenso e penetrante.
«Mi stavi spiando?»
Jake azzardò quell'affermazione, ma non poté farne a meno. Gli ultimi giorni erano stati un incubo e adesso quell'arrogante si permetteva pure di andare a vedere che cosa faceva nel suo tempo libero. Il cuore però gli batteva ancora forte, perché lì fuori nell'oscurità solo illuminata dalla luce argentea della luna piena che splendeva, il valletto sperava che potesse succedere quello che aveva immaginato appena lo aveva visto quella mattina dirigersi verso le scuderie in completo da equitazione, mentre lui percorreva il vialetto della Tenuta verso la stazione. La sua figura stretta nei pantaloni bianchi, con gli stivali alti e neri e la perfetta giacca che aveva preparato lui stesso prima che Michael gliela portasse, gli esaltava le forme mentre camminava incerto e lui non aveva potuto fare a meno di guardarlo anche se in viso era serio, ne era certo, e sicuramente non aveva smesso di contrarre la mascella come spesso faceva, segno di nervosismo, probabilmente per i loro attriti di quelle ultime ore.
Ma adesso era lì a pochi metri da lui e in quel giardino che forse avrebbe mantenuto un altro dei tanti segreti che c'erano tra loro, voleva disperatamente guardarlo negli occhi e neanche lui sapeva bene il perché. Forse era giunto il momento del confronto.
«Non ti stavo spiando. E' il mio giardino, non posso passeggiare?»
Lo sapeva! Jake lo sapeva che avrebbe dato una risposta come quella e così, sorrise rumoroso, quasi sbuffando.
«So che non passeggi a quest'ora, non qui, al massimo saresti andato da Eighteen, ma non qui.»
Beccato!
«Quello che faccio non dovrebbe riguardarti.»
Hanry ancora non osava voltarsi, ma Jake gli vedeva le spalle che si contraevano e la sua chioma riccia che avrebbe tanto voluto toccare, era scossa da impercettibili movimenti della testa che facevano segno di no.
«Hanry andiamo! Dimmi cosa devi dirmi e facciamola finita!»
Il giovane Conte di Harlaxton finalmente si voltò e regalò al valletto l'ennesimo sussulto. Era bellissimo, come sempre dopo tutto. Ed era lo specchio del suo viso, stanco e affaticato, anche se sempre impeccabile. Indossava una camicia bianca che teneva mezza fuori dai pantaloni scuri e larghi che gli ricadevano sui fianchi magri, ai piedi portava i suoi scarponcini in pelle, ma era talmente informale da potersi benissimo mescolare alla loro festa.
«Non devo dirti nulla in effetti, sei tu che forse dovresti dirmi qualcosa.»
Tante cose voleva dirgli Jake, tante, ma non poteva, così si portò una mano ai capelli che portò indietro e sospirando inchiodò gli occhi nei suoi. Non si distinguevano i colori, l'argento e il nero predominavano, ma la luce di quegli occhi verdi e blu che si mescolavano tra loro testimoni di sentimenti contrastanti ma simili, si poteva vedere anche senza il sole.
«Mi dispiace Hanry, ma dirti di no non è stato facile, credimi, ma dovresti accettarlo.»
Il giovane Conte sorrise abbassando la testa, era difficile per lui essere in quella situazione, completamente esposto ai sentimenti da sentirsi indifeso e allo stesso tempo così potente perché sapeva cosa stava provando. Ma era la resa dei conti, e doveva dirgli quello che doveva.
«Sei tu che non accetti la tua condizione forse. Tu pensi davvero che io sia soddisfatto di farmi scopare da un valletto?»
Il cuore di Jake perse un battito, non credeva che avesse detto davvero quella frase, lo aveva ferito sì ma sapeva che c'era anche dell'altro, ne era certo. Così rispose, senza freni, senza curarsi di chi aveva davanti.
«Beh non mi pare che ti lamentassi mentre venivi.»
Era inarrestabile, avrebbe potuto fargli molto male con le parole, sapeva dove colpire e cosa dire per farsi odiare, ma sapeva anche che Hanry faceva parlare orgoglio e pregiudizio e le parole che lo avrebbero ferito davvero in quel momento erano superflue, perché la rabbia prevaleva.
«Jake tu sei un capriccio per me, nient'altro e non ti puoi permettere di intervenire sulla mia vita privata.»
«Oh però quando hai bisogno di una spalla su cui piangere e riversare tutta la tua rabbia nei confronti degli altri io devo esserci!»«Non è il tuo lavoro?»
Jake lo guardò con sguardo gelido e no...quello non era il suo lavoro, quello non faceva parte delle sue mansioni, il suo compito lì non era scopare con il giovane Conte o essere il suo diamine di valletto no, era solo la lunga strada che doveva percorrere per arrivare all'obiettivo finale. Solo quello. Ma non glielo disse.
Un'altra stangata, un'altra frecciata dritta al cuore. Ma ancora una volta Jake sapeva che era l'orgoglio che parlava, era sempre l'orgoglio, quel maledetto che non riusciva a controllare. Perché Hanry aveva intenzione di dirgli altro, ma non ci riusciva, per lui era troppo difficile anche se voleva, era più facile ferire era molto meno faticoso, anche se decisamente più doloroso. In fondo però Hanry doveva riuscirci, non poteva sempre essere Jake a spronarlo, doveva imparare ad accettare le conseguenze delle sue parole, sempre, così si arrese suo malgrado.
«Allora torno al mio posto dove devo stare, buonanotte Milord.»
Jake si voltò per andarsene, ancora affranto e rattristato, ancora deluso. Ma sentì dei passi avvicinarsi svelti e una mano che gli prendeva la sua, per farlo voltare.
«Aspetta!»
Hanry aveva la testa china e pareva davvero dispiaciuto, l'altro sbuffò, ma rimase, rimase perché di ferirsi a vicenda non aveva più voglia, non quella sera.
«Che vuoi adesso? Hanry questa situazione non piace neanche a me, ma non puoi trattarmi così solo perché ti rifiuto, anche io ho delle debolezze.»
Ed era vero, eccome se era vero. Ad esempio la sua più grande debolezza erano proprio lui e i suoi dannati occhi.
«Hai ragione, mi sono comportato come un idiota, ma non volevo, credimi.»
Jake ci voleva davvero credere, davvero, così rimase. Ma era dura, davvero, davvero dura, anche lui aveva il suo orgoglio. Hanry gli prese di nuovo la mano, erano giorni che non si toccavano e quel piccolo contatto faceva uno strano effetto ad entrambi.
«Forse non posso darti quello che cerchi davvero Hanry.»
Jake era dispiaciuto nel dire quelle parole, ma erano la verità, una delle poche verità che poteva dargli e mentre guardava le loro mani ancora intrecciate, tremò appena, nel sentire poi il giovane Conte fare un'altro passo verso di lui. Hanry lo trascinò con sé dietro la struttura in pietra. L'oscurità li celava e solo la luna poteva vederli in quel momento.
Le mani non si staccarono e Hanry provò ad avvicinare l'altra al suo volto che non si mosse, ma anzi attese. Stargli così vicino, anche dopo che si erano feriti tanto a vicenda, gli provocava brividi mai sentiti, la pelle d'oca gli ricopriva il corpo e non era il freddo, ma erano loro.
«Mi accontento di quel poco che mi vorrai dare, anche se piccolo per me è comunque il più importante regalo, perché sarà comunque il più vero e sincero che avrò mai avuto, ne sono certo.»
Jake deglutì sentendo la mano calda del riccio sfiorargli l'orecchio e il collo, e sentiva il suo fiato caldo avvicinarsi pericoloso, buttandosi dentro una situazione da cui sarebbe stato difficile uscire. Ma non resisteva, non resisteva davvero al suo profumo, al suo respiro, a lui. Così sospirò e annuì. Perché quelle parole lo avevano colpito profondamente, forse più delle altre, e sapeva anche che erano incredibilmente vere purtroppo.
«Domani pomeriggio verrai con me, voglio andare a Belfast per qualche giorno. Vorrei che però tu ci venissi in borghese, niente livrea, niente servizio. Prendiamo l'automobile e andiamo via dopo il pranzo.»
Jake non credeva a quelle parole. Andare adesso, a qualche giorno dall'arrivo di Edmund ad Harlaxton, via dall'Inghilterra addirittura, era da folli. Era una cosa da pazzi. Ma avrebbe davvero tanto voluto accettare, come poteva?
«A Belfast? Hanry ma sei impazzito? Dovrei averti già preparato tutto, dovrei avvertire il Signor Wood, non posso venire in Irlan...»
«Jake!» lo zittì. Erano così vicini che sarebbe bastato sporgersi per far collidere finalmente di nuovo le loro labbra.
«Uno dei privilegi di essere il giovane Conte di Harlaxton è che ho poche volte bisogno di spiegare le mie azioni in effetti. Tu verrai con me domani e basta. Da amici, ti chiedo solo questo»
Ancora arroganza, ancora dovere, ma era anche l'unico momento che aveva per poter stare qualche giorno forse senza troppi pensieri, prima della fine, così accettò.
«Va bene, verrò con te.»
Hanry sorrise, ancora una volta lo aveva accontentato, ancora una volta si era fidato, ma era stato chiaro, lui non poteva dargli quello che lui davvero voleva. Ma lo capiva in fondo, forse quello che avevano anche se solo sesso, era una delle cose più vere che il giovane Conte aveva mai avuto e Jake non se la sentiva di negargliela, non ancora.
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