Capitolo 14
Il dolore è inevitabile, ma la sofferenza è facoltativa
Buddha
Jake era in ritardo ma era stato trattenuto contro il suo volere, poteva giurarlo anche di fronte al Maharaja, non era colpa sua. Aveva cercato per mesi quella cosa e per un pelo non era giunta a destinazione in tempo, ma ora c'era, era tra le sue mani e mentre correva giù per il mercato centrale, alzando polvere e urtando persone a cui naturalmente chiedeva subito scusa, la teneva ben salda e non la mollava.
«Perché ci hai messo tanto? Sta chiedendo di te!»
Lo sapeva, chiedeva di lui perché era nervoso. Kiran aveva provato a intrattenerlo ma non ci era riuscito più di tanto, servivano il suo sarcasmo e il suo sottile senso dell'umorismo inglese per cercare di calmare suo padre, il Conte di Howard. Richard Thompson, aveva quasi raggiunto i cinquant'anni, era un uomo prestante e di bell'aspetto, alto con le spalle larghe, capelli alla moda del tempo più corti ai lati e più lunghi sopra, brizzolati e lisci che una volta avevano lo stesso colore castano caramello di quelli del figlio, un leggero accenno di barba gli contornava il viso, gli piaceva sempre tenerla ben curata. Lo caratterizzavano lineamenti fini e aristocratici e grandi occhi grigio verdi che ricordavano la nebbia nello Yorkshire. Jake aveva preso la corporatura dal padre, i suoi modi erano totalmente identici a quelli del Conte e anche i capelli e il naso, ma gli occhi e la bocca erano di sua madre. Jackline Thompson, una donna così delicata e bella da sembrare una rosa. Suo padre l'amava veramente tanto, il loro era stato un amore puro e intenso culminato in un matrimonio di sentimento e rispetto. Quando l'aveva persa si era rinchiuso in una bolla di sensi di colpa e rimorsi, che mai più avrebbe superato, ne era certo. Ma poi era arrivata Ravi e con lei Kiran, con loro la voglia di provare ancora qualcosa era tornata. Sapeva che non poteva rendere più sua moglie felice in vita, ma lo avrebbe fatto nello spirito, avrebbe cresciuto suo figlio come lei avrebbe sempre voluto, con valori eccellenti e sempre circondato da affetto. Non poteva immaginare che si sarebbe innamorato di nuovo, ma era successo, e con il benestare di Jake a cui Richard aveva naturalmente chiesto anche se suo fratello aveva fatto prima, di chiedere la mano di Ravi a Kiran, aveva deciso di abbandonarsi di nuovo all'amore.
E infatti adesso era lì, impettito in Frac nero, davanti ad uno specchio lungo e stretto incassato in un arco di pietra bianca decorata nel muro delle sue stanze private nella Villa. Osservava il suo riflesso un po' imbarazzato e cercava di far stare dritta la larga cravatta che aveva già annodato. Si voltò quando sentì entrare il figlio trafelato e sudato, scalzo come sempre, con solo dei pantaloni larghi e chiari addosso e una casacca arancione che adesso era tutta sgualcita.
«Dov'eri finito?»
Richard e Kiran guardavano Jake quasi con una smorfia in volto, mentre lui sudato e accaldato, con il fiatone, cercava di riprendersi dalla corsa forsennata che aveva fatto, quasi scordandosi di essere il figlio del Conte di Howard, dimenticando le buone maniere e respirando forte con le mani poggiate sulle ginocchia.
«J? Che hai fatto, dov'eri? Devi ancora prepararti, va a finire che come sempre farai tardi e sarai pronto addirittura dopo la sposa!» Kiran intervenne, avvicinandosi al fratello, quasi disgustato nel vederlo grondante, mentre lui adesso vestiva in un completo Frac elegante, sempre nero come quello di Richard, e pareva quasi darsi delle arie.
«Non mi toccare...che hai lì?» chiese poi il moro avvicinandosi con un sorriso e chiedendo al castano cosa fosse la scatolina che teneva in mano scansando una carezza che Jake voleva fargli per spettinarlo e dargli fastidio, come sempre.
«Jake dovresti essere già vestito lo sai?» intervenne Richard, voltandosi poi verso i due ragazzi.
«Padre è per te, credevo non sarebbe arrivato in tempo, invece è qui, un pensiero per oggi...»
Richard Thompson rimase quasi sbigottito, non si aspettava di ricevere un regalo dal figlio in effetti ma era curioso e anche lusingato. Aveva sofferto molto la lontananza del figlio quando era stato in Inghilterra, ma sapeva anche che un futuro Conte, che lo volesse o no, doveva conoscere tutto quello che c'era da sapere sull'aristocrazia, perché sapeva bene che gli sciacalli erano alle sue costole e che Jake avrebbe dovuto sapersi difendere con ogni mezzo, non c'era arma migliore della conoscenza, quindi suo malgrado aveva accettato di mandarlo a studiare in patria.
L'aria era tersa e calda, nelle stanze ampie e luminose della villa c'era sentore di festa da più giorni e il matrimonio era atteso da tutta Jaipur, soprattutto perché il Maharaja avrebbe presenziato, ma Jake naturalmente non era pronto, proprio il testimone di nozze.
«Devi andare a lavarti lo sai? Puzzi come बाजार बंदर *una scimmia del mercato- è disgustoso, e insisti ancora a non mettere le scarpe a quanto vedo!»
Non poteva essere arrabbiato, non lo era, sorrise a suo figlio, che di rimando gli porse la scatolina.
Richard aveva gli occhi lucidi, emozionato come mai in tanti anni e con le dita fini e curate, si apprestò ad aprirla di fronte agli occhi curiosi dei due ragazzi che stavano solo aspettando di vedere la sua faccia.
Il Conte di Howard era incredulo, dentro quella scatolina così bizzarra e delicata da sembrare una piccola bomboniera, adagiato su un cuscinetto di velluto rosso scuro, c'era un orologio da taschino, con tanto di catenella d'oro. Il quadrante era rotondo e sulla parte frontale che si apriva rivelando le lancette, decorata con arabeschi che ricordavano il portone all'entrata della villa, c'era intarsiata una frase in Hindi:
खून कोई फर्क नहीं पड़ता *il sangue non conta
Una frase che Jake e Kiran avevano sempre sentito dire dal Conte e da Ravi. Una frase che li legava indissolubilmente in un'unica famiglia che adesso stava diventando sempre più reale e vera. Semplici parole che racchiudevano al suo interno tanto significato da sentirlo nel cuore. Una frase che ti rimaneva sotto pelle e della quale era difficile dubitare, perché loro in prima persona l'avevano provata quella gioia. Il sangue non contava davvero per loro. Perché Richard era innamorato di Ravi com'era stato innamorato di Jackline, Jake era fratello di Kiran tanto quanto due persone nate dallo stesso utero e cresciute dalla stessa madre, perché anche il patrimonio che avevano e che a breve avrebbero condiviso come legittimi eredi del Conte e di sua moglie, andava oltre il sangue e oltre l'eredità di successione. Era il patrimonio che volevano prosperasse, che sapevano sentire dentro le loro membra, di cui erano felici di far parte e al quale erano legati. Sapevano quanta ricchezza d'animo fosse segretamente custodita dentro quel mondo che il Conte aveva creato e sapevano quanto lui volesse che fosse duraturo, nella giustizia e nella felicità di ogni persona che lavorava al suo fianco e che faceva parte di quella immensa ed enorme famiglia che si erano creati, non solo a Jaipur ma anche oltre l'oceano e di più, fino in Inghilterra.
Jake voleva che quelle parole, che il padre gli aveva rivelato un giorno quando aveva sei anni mentre proprio lui gli aveva confidato l'immenso affetto che provava per Kiran e Ravi, rimanessero per sempre nella mente di tutti loro. Richard era commosso, spiazzato dal regalo così bello che gli era stato donato.
Guardò prima il figlio poi l'altro e con un sorriso fiero e tenero, li abbracciò entrambi, in un impeto di commozione.
Poco dopo Jake era nervoso nel suo Sherwani aranciato e arabescato con un tono di colore appena più scuro ben abbottonato sul davanti con piccole pietre in madreperla fino al colletto. I pantaloni stretti che indossava sotto la lunga tunica fino al ginocchio erano di un color ruggine scuro che ben risaltava sulla sua pelle abbronzata. Il tilak rosso in bella mostra sulla fronte, faceva brillare i suoi occhi blu, così profondi ed emozionati da sembrare sfere di luce. Aveva indossato anche lui il tradizionale safa color zafferano che si metteva ai matrimoni e anche se all'inizio era imbarazzato da quel turbante ingombrante, adesso accanto a Kiran che lo indossava a sua volta, come suo padre, mentre osservavano i loro genitori stringersi le mani felici diventando marito e moglie, non lo era più, o almeno non lo era più per quello.
L'emozione c'era, Kiran aveva gli occhi lucidi quanto i suoi anche perché dopo aver visto Ravi entrare nella grande sala del ricevimento, con il suo abito rosso cremisi interamente decorato d'oro, non potevano che essere rimasti tutti senza fiato. Come da tradizione indossava naturalmente un ampio vestito composto da gonna lunga con strascico, sopra di essa vi erano dei pezzi di tessuto che intrecciati tra loro formavano un corpetto coperto da un drappo rosso portato su una sola spalla. Un velo semitrasparente sempre cremisi gli copriva il volto; svelandolo però si poteva trovare una donna bellissima che aveva messo tutti i gioielli tradizionali ad ornargli il viso. Il grande anello che aveva al naso era unito all'orecchio destro con una catenella anche questa dorata, la collana che gli saliva fino al collo coprendolo interamente con cerchi perfetti era a dir poco magnifica e la sua acconciatura impeccabile e sciolta di capelli color cioccolato scurissimi gli ricopriva l'intera schiena. La cerimonia dell'hennè era durata ore, ma ne era valsa la pena, adesso le sue mani erano un'opera d'arte vera e propria. Decorazioni floreali e puntinate gli si attorcigliavano intorno alle dita e sul dorso della mano, fino a salire sull'avambraccio per poi rivelare la sua pelle olivastra che rimaneva scoperta dal drappo del vestito.
Si stavano scambiando promesse sommesse, mentre venivano celebrati i riti. La grande sala era completamente ricoperta di fiori, un tappeto ocra era stato steso dalla grande porta fino all'altare e ai lati gli invitati sorridevano felici, almeno così sembrava. Il profumo di gelsomino, incenso e sandalo, era forte e inebriante. I legni che ardevano nelle grande incensiere a forma di elefante nei quattro angoli della stanza creavano un'atmosfera magica. Il sitar suonato magistralmente da mani esperte, era accompagnato da suoni di campanelli angelici in lontananza, campanelli che risuonavano per tutta la villa dall'esterno dove erano collocati. C'erano tutti alla cerimonia, c'erano tantissimi amici intimi, conoscenti, persone dell'alta aristocrazia inglese, mercanti, commercianti, il personale di servizio era stato invitato a partecipare rimpiazzato per quel giorno da altri servitori, e naturalmente c'era il Maharaja in persona. Le emozioni erano forti, Jake si sarebbe per sempre ricordato l'abbraccio stretto che il padre gli aveva dato, quando prima di salutare tutti gli invitati si era rivolto a lui per primo, stringendolo a se sussurrandogli tra lacrime di commozione.
«Spero che sarai fiero di me come io lo sono di te.»
Entrambi si erano guardati così intensamente da dirsi tanto in quella muta pausa di silenzio.
Era così Richard Thompson, era un uomo che non parlava molto, proprio come lui, ma quando lo faceva era per dire qualcosa di davvero intenso, la maggior parte delle volte. Non esisteva in nessun'altra famiglia che un Conte, si rivolgesse così al figlio, mai, ma loro le convenzioni le avevano lasciate in patria e non gli importava. Richard aveva imparato a dire sempre ciò che provava da quando aveva perso la moglie, non voleva più rimpianti, lo facevano soffrire. Era sempre stato un uomo moderno e sopra le righe per il tempo, pacato, serio, ligio alle regole, ma estremamente semplice. Lui la voleva con tutto se stesso quella famiglia e era sicuro di quello che stava facendo.
Mentre poi anche Ravi si avvicinò a Jake per abbracciarlo, Richard andò verso il figlio della moglie e gli rivolse le parole che mai e poi mai il moro avrebbe pensato di sentirsi dire in vita sua.
«Kiran ora anche tu sei un Thompson, sei mio figlio e non potevo chiedere di meglio.»
La serata continuò nel giardino della Villa, era praticamente una terrazza enorme che si affacciava sulla città Rosa. Il prato verde e il cielo stellato facevano da cornice ad una festa vivace e piena di balli e canti, perfino Kiran e Jake, che si era già liberato del safa, parteciparono con entusiasmo anche se quelle occasioni spesso li mettevano a disagio. Candele bianche e profumate ricoprivano ogni cosa, dai tavoli per gli ospiti, alle scale che portavano alla Villa, ai vialetti in tufo. Un gazebo in muratura che culminava in una cupola tondeggiante e bianchissima poggiata su colonne a spirale, ospitava al suo interno una sorta di sala dei cuscini con alcuni grandi narghilè dai quali si poteva fumare tranquilli e dai quali provenivano aromi di menta, vaniglia, bergamotto e tè nero. Palme e piante ornamentali enormi incorniciavano il perimetro del giardino dando l'impressione di essere in mezzo alla giungla, tranne che per la vista sulla città. Bracieri imponenti scoppiettavano e cuocevano prelibatezze di ogni sorta invitando i commensali a servirsi di ogni genere di piatto, i sorrisi degli ospiti erano contagiosi e l'atmosfera ineguagliabile. Solo un unico gruppo di Signori Inglesi se ne stava in disparte non molto felici di partecipare a quell'unione così poco decorosa per loro, ma dovevano fare buon viso a cattivo gioco. Sopratutto Edmund Stafford.
Aveva partecipato a quell'orrendo matrimonio, a detta sua, solo per interesse personale. Il Conte di Howard poteva anche essere una persona onesta e corretta, ma a lui questo non poteva importare minimamente. Per accaparrarsi ciò che voleva l'erede di Harlaxton avrebbe fatto l'impossibile. Ricchezza e fama, ecco cosa voleva per se. Certo anche per suo padre il Conte Stafford, ma molto di più per se. Perché Edmund era stato cresciuto così. Viziato nella ricchezza più sfrenata, accontentato in tutto e per tutto su ogni cosa, non ammetteva mai un no come risposta, Richard Thompson fin troppe volte glielo aveva detto e lo aveva stancato.
Doveva fare qualcosa, la sua fama non poteva essere più eclissata da quella famiglia che aveva deciso di andare oltre ogni convenzione, mescolandosi con altre razze e addirittura dividendo i soldi e i possedimenti con loro. Edmund non era una persona buona, non era una persona inclusiva o disponibile. Aveva sempre e solo agito per interesse e anche quando qualche settimana prima aveva provato ad avvicinare l'erede dei Thompson sperando almeno con lui di riuscire a piantare il seme della discordia e del tradimento, non riuscendoci, era stato sopraffatto dall'ira e dalla frustrazione. Forse non sarebbe riuscito nel suo intento, ma doveva tentare un'ultima soluzione. Se ne stava in disparte, la cerimonia neanche l'aveva vista e adesso sorseggiando champagne vicino alla balaustra che divideva la terrazza dal giardino, guardava davanti a se disgustato dalla vista di Jaipur illuminata dalle lampade a olio e da un tramonto così luminoso da sembrare oro fuso e liquido, preferendo sempre e comunque di essere da qualunque altra parte tranne che lì in quella città che odiava, ma della quale bramava i commerci. Il Maharaja sarebbe stato facile da manipolare, gli sarebbe bastato un pretesto e avrebbe raggiunto il suo obiettivo, per il resto forse ci avrebbe messo qualche giorno in più, ma doveva tentare.
Neanche quattro giorni dopo il matrimonio Milady e Milord Thompson dopo festeggiamenti vari erano partiti per il Nepal. Ravi aveva sempre voluto vedere i templi che sulle montagne immense rimanevano placidi e imponenti adagiati sulle cime. Il Conte non era mai stato in quella parte d'oriente e così aveva acconsentito ad esaudire il desiderio della bella moglie. Sarebbero stati via almeno un mese e gli eredi avevano il compito di gestire la villa a Jaipur mentre il padre non c'era.
Da quando era finalmente tornato Jake non stava quasi mai fermo. Era stato per così tanto tempo fuori da quel mondo e da quel contesto, che adesso che lo poteva di nuovo vivere, si sentiva ancora colpito da un'euforia strana, un brivido caldo che gli scendeva dalla nuca per tutta la schiena e che lo faceva vacillare. Perché sapeva che la sua vita da quel momento sarebbe cambiata, doveva abbandonare la spensieratezza per il dovere, il pensiero lo intimoriva sì ma lo eccitava anche tremendamente. Avrebbe potuto tenere alto il nome dei Thompson e rendere fiero non solo suo padre ma anche suo fratello e tutta la vecchia Compagnia, anche se non più attiva ma che operava comunque per le ricchezze di quella terra.
I Fiori del male di Baudelaire era stretto tra le sue dita, stava steso supino immerso tra i cuscini del gazebo esterno che adesso era decorato totalmente di blu e oro in occasione della festa che si sarebbe tenuta di lì a qualche giorno in onore del Dio Shiva e alla quale tutta la città era tenuta a partecipare con i festeggiamenti, indipendentemente dal credo religioso. I cuscini di seta blu, turchesi, acqua marina, oceano e indaco, ricoprivano la superficie di tutta la struttura. Drappi blu mare erano stati appesi alle colonne che adesso risaltavano come schiuma bianca nell'onda. Era un pomeriggio caldo ma in quel grande giardino verde l'aria si sentiva leggera e fresca. In sottofondo i rumori degli animali che tanto amava lo cullavano nella lettura. Poteva sentire i suoi amati elefanti, aveva fatto la conoscenza anche della piccola Gautami a cui naturalmente si era subito affezionato e i pavoni che riempivano il giardino ogni tanto rilasciavano suoni limpidi che gli ricordavano che la primavera era vicina.
«Sei sempre concentrato quando leggi.»
Un'affermazione in hindi riecheggiò tra i cuscini. Jake si voltò di scatto e sorrise subito a chi aveva parlato. Una figura snella ed elegante, vestita con abiti semplici di cotone porpora ma puliti ed ordinati come sempre, si era appoggiata con una spalla ad una colonna che faceva da cornice ai pochi scalini che dividevano la base del gazebo dal suolo. Era stato silenzioso e Jake non lo aveva sentito arrivare concentrato com'era sulle parole di Baudelaire.
«Maji, non ti ho sentito arrivare.» Jake sorrideva ancora a quell'uomo di qualche anno più grande di lui che da sempre faceva parte del personale della villa. Era molto affascinante, la pelle olivastra scura era luminosa, i capelli neri e liscissimi che gli arrivavano fino a sotto le orecchie erano sciolti e gli incorniciavano un viso spigoloso ma delicato. La barba scura e ordinata gli ricopriva la mascella stretta e grandi occhi neri come la notte più buia lo guardavano felici. Una lunga e fine cicatrice che purtroppo deturpava quel bellissimo viso, era nascosta in parte dalla barba ma gli attraversava il volto dall'orecchio sinistro fino allo stesso angolo della bocca.
«Mi dispiace averti disturbato, ma non ho potuto farne a meno.»Jake arrossì abbassando lo sguardo che non riusciva a reggere quel volto che lo fissava. Il castano era sempre stato attratto da quell'uomo, fin da adolescente. Le farfalle nello stomaco che sentiva quando lo vedeva gli avevano fatto capire che c'era molto di più che un rispetto reciproco. Maji lavorava con gli animali della villa, spesso era impegnato e si adoperava per il benessere di ogni creatura che i Thompson ospitavano in quell'immensa tenuta, ma non era certo indifferente agli sguardi del giovane Conte. Da quando avesse memoria, si erano sempre trattati da amici, e da quando Jake era tornato uomo e bellissimo più di quando era partito, Maji aveva tentato di avvicinarglisi delicatamente e lentamente, in uno strano gioco di sguardi che ormai durava da settimane e che il giovane castano non disprezzava ma anzi, sembrava bramare molto. Jake lo sapeva, lo sentiva e quegli occhi grandi e scuri gli facevano battere il cuore come non mai.
C'era dell'imbarazzo tra loro, naturalmente, si conoscevano da tanti anni, ma adesso sembrava anche esserci dell'altro.
Forse, si chiedeva Jake, tra quelle sua amate mura, con quella persona avrebbe potuto anche scacciare via un ricordo doloroso che lo tormentava ormai da mesi e che aveva le sembianze di un aristocratico figlio di papà Inglese.
«Non volevo disturbarti, perdonami.»
«Non lo hai fatto.»
Parlavano un hindi spedito, Maji non conosceva bene l'inglese e poche volte si rivolgeva a loro in quella lingua.
«Ti osservavo e ho voluto salutarti.»
Jake arrossì di nuovo, Maji manteneva ancora una rispettosa distanza, ma non gli distoglieva lo sguardo di dosso neanche per un istante.
«Vuoi sederti con me?»
L'uomo si guardò intorno imbarazzato. Non credeva che mai Jake gli potesse chiedere una cosa del genere così esposti in giardino, non era la prima volta che restavano da soli certo, ma comunque accettò l'invito, salendo i pochi gradini che li dividevano e mettendosi placido a gambe incrociate, seduto sui primi cuscini che aveva trovato. Il suo abito porpora risaltava incredibilmente tra tutto quel blu, ma si fermò a guardare l'altro che più di tutto richiamava la sua attenzione.
«I tuoi occhi oggi hanno il colore del cielo.» Il castano sorrise e ringraziandolo appena in imbarazzo vide che anche Maji arrossì. Teneva i capelli dietro l'orecchio destro mostrando solo un lato del volto perché l'altro era sempre semi coperto così che la cicatrice non si vedesse più di tanto, anche se era impossibile non notarla, ma il giovane Conte in quel volto aveva sempre e solo visto bellezza e serenità. In uno slancio che li aveva visti complici più di una volta in quelle settimane, Jake si avvicinò a lui che a sua volta si sporse in avanti e nascosti dalla balaustra del gazebo e dalle piante tutto intorno che li nascevano, fecero collidere le loro labbra in un bacio passionale ma delicato.
Erano stati pochi i momenti d'intimità che si erano concessi, per impegni di entrambi, per timore, per rispetto, per decoro. Ma sapevano che l'attrazione che c'era era forte.
I baci divennero carezze, le carezze diventarono sussurri e mentre cercavano di staccarsi l'uno dall'altro tra quegli odori familiari che sentivano sulle loro pelli, si dettero appuntamento per quella stessa notte. Perché Jake più di ogni altra cosa aveva bisogno di sentirsi voluto da quella persona che gli avrebbe cancellato brutti ricordi dalla mente. Non era amore, non ancora, ma era rispetto, voglia di scoprirsi, voglia di aversi e conoscersi.
***
«Padre ma com'è possibile?»
«Non lo so figliolo ma devo andare, se sta succedendo quello che purtroppo temo, devo tornare in Inghilterra.»
I neo sposi erano tornati da qualche giorno e già il Conte di Howard doveva rimettersi in viaggio. Era arrivato un telegramma urgente da Londra, dove si richiedeva la presenza del Conte alla camera dei Lord per questioni economiche inderogabili a cui avrebbe presenziato anche il Re in persona. Non poteva mancare. Richard Thompson sapeva che lasciare di nuovo per mesi la sua famiglia gli sarebbe costato caro, ma non poteva davvero rinunciare e avrebbe potuto in più contare sui suoi figli.
«Tornerai prima possibile?» intervenne Ravi che quella sera, mentre cenavano non aveva resistito a chiedergli di restare con loro e di non partire. Ma sapeva che aver sposato un Conte, poteva voler dire fare i conti con una lontananza pesante in alcuni momenti, ma contava sulla sua smisurata forza d'animo e sui loro figli.
«Certamente mia cara, tornerò prima dell'estate, promesso.»
***
La stagione delle piogge era arrivata puntuale, come ogni anno ma non aveva fatto grandi danni per fortuna. Le forti raffiche di acqua e vento, squassavano la terra della città Rosa, ma sarebbero durate ancora per poco, la stagione secca stava arrivando.
Kiran e Jake erano stati invitati a partecipare ad una cena per i commercianti inglesi, proprio nel palazzo del Maharaja e in vece del Conte non potevano rifiutare. Ma c'era qualcosa che non quadrava. Non erano mai stati presentati ufficialmente a nessuno dei presenti, anche se di nome conoscevano tutti, ma la situazione familiare fin troppo moderna che aveva creato il Conte Thompson, faceva sì che loro fossero sottovalutati.
Loro malgrado però, assistettero ad una conversazione. Stretti nei loro frac neri eleganti, impeccabili nell'aspetto e nel portamento, avevano accettato di buon grado lo champagne che gli veniva servito da camerieri in divisa tipica della corte in cui si trovavano e dietro un colonnato immenso che divideva la zona interna dal giardino reale, sentirono voci concitate che li chiamavano in causa.
«Non possono pretendere di comandare l'intero commercio no?»
«Sono stati molto furbi all'inizio, gli investimenti giusti del Conte di Howard sono serviti per renderlo quello che è adesso, ma è essenziale che lui entri nella nostra Società, io non ci rinuncio di certo.»
Quella voce tagliente e fredda, fin troppo familiare, attirò l'attenzione dei due giovani.
«E' chi penso io?» sussurrò Kiran a Jake che già aveva capito chi fosse a parlare e la cosa lo disturbava molto, poiché quella persona non la sopportava davvero, così annuì.
«Sì deve essere lui, l'erede degli Stafford.»
Poi voltandosi verso il chiacchiericcio, notò come prima cosa sul petto dell'uomo che aveva parlato, l'inconfondibile stemma di famiglia che ormai conosceva bene e che lo contraddistingueva.
«Devo fare qualcosa con loro, non voglio un altro no come risposta e anche se dovrò usare le maniere forti, io avrò quel sì da parte di quello strambo uomo che si mescola con queste scimmie.»
Le persone intorno a lui risero. Kiran contrasse la mascella così forte che il fratello si voltò subito credendo di aver sentito i denti che gli si spezzavano, il moro reggeva il calice con così tanta forza che il castano era sicuro si sarebbe spezzato e rotto in mille pezzi. In silenzio, mise l'indice davanti alle labbra come a spronarlo a non fare rumore e poi gli mise una mano sul braccio e strinse un po', così da cercare di tranquillizzarlo. Kiran chiuse gli occhi e prese un profondo respiro.
«Cosa intendete fare Edmund?» un'altra voce si unì a loro, e la risposta non tardò ad arrivare.
«Il conte Thompson è partito per un viaggio d'affari, cercherò di trattenerlo per così dire, così da poter convincere intanto il suo erede a cedere, e credetemi che lo convincerò.» l'infimo uomo prese l'ultimo sorso di champagne, piegando la testa all'indietro e godendosi il liquido frizzante che scorreva lungo la sua gola.
Jake si era immobilizzato. Quelle erano minacce, minacce in grande stile e neanche poco velate. Ma come osava. Doveva mandare subito un telegramma al padre e doveva farlo quella sera stessa, Richard Thompson doveva tornare e sistemare la cosa, perché la situazione non gli piaceva per nulla. Kiran capì tutto e annuendo, fece un gesto a Jake con la mano, inconfondibile, familiare, lo invitò a seguirlo e ad andarsene, perché anche lui sapeva che la faccenda stava diventando davvero pesante e il Conte doveva essere assolutamente informato.
Torna subito. Stop. Non credere alle loro parole. Stop. Corrotti. Stop. Minacciano famiglia. Stop.
***
Dormiva profondamente quella notte. Aveva diviso il suo letto con Maji fino a qualche ora prima, si era sentito al sicuro e protetto, ma comunque qualcosa non andava. Dopo essersi abbandonato ad un altro orgasmo totale e profondo che l'indiano riusciva ogni volta a donargli, si era addormentato ma in piena notte l'irrequietezza gli aveva fatto visita.
Sentiva un rumore strano al di fuori della grande finestra che dava sul cortile. Gli animali parevano gridare e non riusciva a distinguere l'odore che percepiva in quel momento, da tutti quelli che gli riempivano le lunghe giornate in città.
Sentì bussare alla porta. Qualcuno aprì veloce senza esitare o attendere oltre.
«C'è qualcosa che non va, devi venire.»
Kiran, concitato e preoccupato, con un ombra sul volto attese sulla soglia che Jake si mettesse qualcosa addosso.
«Che è successo?»
«Un incendio.»
Il crepitio spaventoso del fuoco che ardeva vivo, si sentiva ora distintamente anche da dentro le mura della villa, scesero veloci le scale e quando arrivarono fuori c'era il caos che poco prima era solo sensazione.
Le stalle più lontane stavano ormai bruciando irrimediabilmente e gli animali scappavano per tutto il giardino. Jake vide la figura di Maji che agitato cercava di domare un incendio, che ormai si propagava a vista d'occhio, con l'aiuto di secchi e acqua che tutto il personale cercava di passargli.
Kiran sembrava sconvolto, immobile e fermo come una statua mentre nei suoi occhi brillava famelico il riflesso delle fiamme rosse che lambivano ogni cosa. Gli animali emettevano versi orribili, spaventati e impauriti correvano da una parte all'altra del giardino. Jake cercò di riscuotere il fratello.
«Dobbiamo aiutarli, dobbiamo andare, chiama Ravi, avverti tutti.»
Kiran come ripreso da uno stato di trance, si riscosse.
«Sì, sì certo. Do..Dobbiamo andare.»
«Sì, vai a chiamare Ravi, trovala, andate in città a chiamare aiuto.»
Il moro annuì e corse veloce all'interno della villa.
Jake si precipitò verso le stalle, prendendo anche lui dei secchi e cercando invano di salvare il salvabile.
Sudava freddo, poi sentiva caldo, poi ancora ansia e timore lo assalirono.
«Com'è successo?»
chiese a Maji che gli si era avvicinato per riuscire a parlargli.
«Ho sentito Ganga, mi ha svegliato e poi ho visto le fiamme divampare, non so come sia accaduto, mi dispiace tanto.» il suo hindi concitato, non lasciava spazio alle domande. Cercava di giustificarsi di qualcosa che non poteva controllare, e mentre ancora chiedeva scusa di un'azione che non era stata fatta da lui, Jake gli diceva di non preoccuparsi che tutto si sarebbe risolto, che tutto sarebbe andato bene. Continuarono a cercare di spegnere le fiamme ma era tardi. Il calore era fortissimo, l'incendio si stava impadronendo anche delle piante del giardino, il vento caldo che iniziò a soffiare da est, alimentava le fiamme alte anche tre metri che lambivano ogni cosa. La stagione secca non aiutava certo ad arginare il problema, anzi. Jake sentì un nodo alla gola, mentre sentiva gli animali lamentarsi e le voci spaventate degli uomini che cercavano di rimediare al disastro. Stava succedendo qualcosa che non aveva previsto, il suo sogno si stava sgretolando e lui era profondamente addolorato. Poi un esplosione.
Jake fu scaraventato via da calore, fumo e fiamme. Sentì delle urla e poi perse i sensi.
Poco dopo si risvegliò per colpa dell'immenso calore che sentiva.
Era illeso ma la testa gli bruciava per la vicinanza con le fiamme che ancora crepitavano e non lasciavano scampo.
Ormai era tutto inutile. Le fiamme avrebbero mangiato tutto.
L'esplosione naturale dovuta dal troppo ossigeno che il fuoco aveva trovato cercando di raggiungere anche la villa, aveva peggiorato la situazione e ora molte persone erano accorse.
Dalla città adesso, si poteva vedere sulla collina un bagliore così forte e tremendo che impietriva. La villa dei Thompson stata bruciando e con lei tutto quello che vi era al suo interno. Molte persone accorrevano ad aiutare per cercare di arginare il problema ma pareva inutile.
Jake con la poca forza che gli rimaneva si alzò e si diresse verso la parte della villa che non era ancora stata colpita dalle fiamme. Maji non lo aveva più visto e il suo cuore aveva perso un battito, ma lo avrebbe cercato dopo, adesso doveva trovare Kiran. Perché suo padre non era con loro? Perché non era tornato subito dopo il loro telegramma? Perché non aveva risposto a quella richiesta fatta direttamente dai figli?
Troppe domande gli assalivano la mente. Troppi giorni erano passati, non era normale.
Poi però la realtà tornò a fargli visita. Ormai era completamente sporco di fuliggine e cenere, i suoi capelli così scompigliati da non riconoscerne più il colore. Correndo verso la villa entrò veloce nella sala dei cuscini e vide una delle cose che mai nella vita avrebbe voluto vedere, e che mai e poi mai si sarebbe dimenticato.
Kiran era inginocchiato a terra di spalle sembrava tenere qualcosa stretto a sé, forse una persona, dalla finestra il bagliore giallo del fuoco gli disegnava addosso luci e ombre che Jake non distingueva.
Cercò di chiamarlo, ma la sua voce non uscì. Anzi si accorse che immettendo aria nei polmoni tossiva perché doveva aver inalato troppo fumo, gli occhi gli bruciavano. Poi mise a fuoco, per terra c'era una chiazza scura e lucida, densa e grande. Sangue.
Kiran si dondolava appena avanti indietro e il castano credeva stesse piangendo dai sussulti che gli squassavano la schiena. Si avvicinò cercando di chiamarlo senza riuscirci.
Sentì i singhiozzi farsi sempre più presenti e forti, Che stava succedendo? Di chi era quel sangue? Perché Kiran piangeva? Perché la sua vita sembrava stesse per scivolargli via dalle dita in un attimo?
Accostandosi ad una spalla del fratello, riconobbe la persona che stringeva a sé. Ravi. Aveva il viso pallido e gli occhi chiusi. Il volto rilassato pareva essere preso da un sonno talmente forte da non riuscire a svegliarsi.
Jake mise una mano sulla spalla del fratello che si riscosse e lo guardò negli occhi. Ambra e blu a mischiarsi in una consapevolezza dolorosa e devastante. Entrambi ricoperti da una maschera di terrore e morte, si guardarono consci di quello che stava per accadere.
«L'hanno uccisa J!»
L'affermazione straziante che dalla bocca di Kiran uscì così chiara e consapevole fece vacillare la sua anima e tremare il mondo. S'inginocchiò senza forze accanto al fratello.
«L'hanno uccisa J!» Di nuovo, un lamento di terrore nella voce del moro. Aveva le mani completamente insanguinate e da come stringeva il corpo senza vita della madre pensò che forse non si sarebbe mai più staccato da lei.
Jake non riusciva a parlare, la gola gli bruciava e la lingua completamente secca, non produceva alcun suono. Il crepitio del fuoco, che si stava piano piano trasformando in calore sempre più forte, era insopportabile.
Jake riuscì ad osservare la scena come dall'esterno, più chiaramente, con un innaturale freddezza che solo in un momento di devastante disperazione può prenderti. Ravi giaceva ormai inerme in grembo al figlio che la stringeva, il sangue intorno a loro era tanto, denso e scuro, non avrebbe mai immaginato che in una sola persona ci potesse essere tutto quel sangue. Le mani si Kiran erano imbrattate di rosso, ma non del cremisi bellissimo delle loro tinture da cerimonia, ma del vivo rosso della morte sanguigna e violenta. Kiran singhiozzava, ma Jake voleva capire cosa era successo. Dove l'avevano colpita? Chi aveva avuto il coraggio di fare una cosa simile? Chi l'aveva uccisa?
Così sforzandosi all'inverosimile, chiese.
«Chi?» La sua voce arrochita e flebile arrivò alle orecchie del fratello, che con un gesto automatico si voltò rivelando l'espressione più disperata che avesse mai visto in vita sua.
«Loro.» Kiran gli porse il pugnale che aveva colpito la madre. Insanguinato, piccolo, appuntito, affilato e letale. Sull'elsa dorata troneggiava uno stemma che conosceva bene. Quattro api che si guardavano in cerchio e uno smeraldo piccolo al centro, gli Stafford. Aveva una lama lunga e sottile, ideale per trafiggere organi interni, ideale per provocare danni irreversibili, un pugnale che poteva solo procurare morte. Dritto al fegato. Jake avvicinandosi ancora vide la quantità di sangue che imbrattava la camicia da notte della donna. I suoi capelli una volta profumati e setosi erano immersi nel suo stesso sangue in una poltiglia nodosa, dalla sua bocca un unico rivolo rosso usciva, deturpando il viso angelico e bellissimo della donna che per lui era stata la più importante della sua vita.
Come era potuto succedere? Tutte quelle minacce erano vere? Come avevano potuto essere così ciechi? Perché era successo? Perché lo avevano permesso?
Kiran era impietrito ma respirava affannato, Jake sapeva che quella era una bomba che stava per esplodere.
«Devo ucciderli, io voglio ucciderli tutti Jake!»
Kiran era già accecato dalla vendetta. Jake voleva assecondarlo, ma le fiamme dell'incendio erano più forti. Stavano mangiando piano piano tutto e loro dovevano andare o non sarebbero sopravvissuti per via del fumo. Jake strattonò il fratello per farlo alzare. Le lacrime scorrevano da entrambi i loro visi, la disperazione era presente e si stava facendo strada nei loro cuori, proprio come quell'incendio. Se non andavano via, sarebbero morti asfissiati e non ci sarebbe stato altro, solo vittoria per gli assassini.
«Dobbiamo andare Kiran.» gli costò fatica dirlo, anche perché il rumore degli scoppiettii delle fiamme sovrastava già ogni cosa e lui non riusciva a parlare. Kiran pianse ancora.
«Devo ucciderli!» urlò di nuovo.
Jake sapeva e capiva il dolore che era uguale al suo, ma adesso doveva ritrovare suo padre e cercare di salvare le loro vite già appese ad un filo. Doveva farlo per Ravi, Jake doveva salvare Kiran per Ravi.
Si sollevò di nuovo e stringendo il fratello gli disse nuovamente che dovevano salvarsi, dovevano andare.
Uscirono dalla villa che stava bruciando, la pietra si era annerita e ogni cosa al suo interno era ormai distrutta.
Fuori nel caos generale di gente che andava e veniva, cercarono riparo.
«Ti prometto la vendetta che cerchi, ma non stasera, dobbiamo trovare nostro padre, poi lo faremo te lo prometto.»
Kiran guardò il fratello e annuì. Sapeva che quando gli prometteva qualcosa, poi la faceva, le promesse per Jake Thompson erano più importanti di qualsiasi altra cosa.
Adesso erano solo loro due però, dovevano bastarsi e cercare aiuto.
Un aiuto che però non arrivò.
Condoglianze. Stop. Conte Thompson deceduto. Stop. Trovato corpo senza vita su treno. Stop. Recarsi a Londra. Stop.
Non arrivarono mai a Londra. Dovevano scomparire e non farsi più trovare. Dovevano essere morti per tutti. Neanche il Maharaja avrebbe potuto fare nulla, la corruzione aveva raggiunto anche lui.
Loro avevano un personale piano, e lo avrebbero attuato.
Il dolore per la scomparsa dei genitori, in circostanze così sospette e complesse, li aveva portati a decidere di rinunciare a tutto per il loro obiettivo. Il Conte Thompson non c'era più, sua moglie non c'era più, nessuno poteva convalidare la loro unione legittima senza gli importanti documenti che giacevano tra il mare di cenere che si erano lasciati alle spalle a Jaipur. Dovevano tornare in Inghilterra e tentare una strada più pericolosa di qualsiasi altra. Qualche giorno dopo alla stazione di Hyderabad, dove un treno li aspettava per portarli via dal Rajastan, un loro caro amico del personale di servizio li aveva informati delle perdite, in segreto. In più di venti erano morti la notte dell'incendio. Moltissimi animali avevano perso la vita, Maji era stato trovato insieme all'elefantino Gautami nel box dove dormiva con la mamma Ganga, probabilmente l'uomo era morto per i fumi che aveva inalato cercando di aiutare l'animale a scappare, erano morti insieme.
Jake e Kiran dovevano scappare. Dovevano smettere di esistere perché come quegli uomini così avidi avevano ucciso più di una volta per soldi, lo avrebbero fatto ancora. Jake sapeva che la sua scomparsa sarebbe stata forse più efficace di qualunque altra cosa. Rinunciare a tutto per cercare di avere vendetta. Perché nei cuori dei due giovani fratelli adesso, c'era solo quello.
Il desiderio bruciante di vendetta contro quelle persone che gli avevano tolto tutto e che ancora volevano eliminarli. Perché l'uomo è così, avido, corrotto, brutale.
In India stavano lasciando tutto, vita, amore, sogni, felicità, sorrisi, se stessi. Forse anche di più. Ma le cose dovevano essere aggiustate, e forse loro potevano.
Ma il dolore era tanto e scavava a fondo dentro di loro, non sarebbero stati più gli stessi di prima, mai.
Mentre le distese verdi del Rajastan lasciavano il posto alle radure aride del Pakistan, Jake e Kiran sapevano che forse l'India che conoscevano era stato solo un breve e bellissimo sogno. Avevano progettato per tanti mesi di poter partire insieme alla scoperta di nuovi paesi e visitare altre nazioni, compresa l'Inghilterra che tanto Kiran desiderava conoscere. Ma non in quel modo, adesso fuggivano. La loro India magica, profumata, rosa e bellissima era stata annerita e contaminata dal seme dell'odio. Adesso quella che per loro era una terra di vita e serenità, amore e felicità, era diventata solo una culla di devastazione, morte, disperazione e tradimento. Sempre nei loro cuori avrebbero custodito la loro unica città magnifica, ma con l'amaro in bocca. Si erano promessi di non scordare tradizioni, lingua e sentimenti, ma era doloroso solo parlarne. Così mentre lo scorrere del treno sulle rotaie portava con se pensieri di vendetta irrazionali, con quelli scivolavano via sentimenti di bontà che proprio da quella terra avevano preso vita. Perché ora non c'era più nulla di buono che li fermasse, non c'era più pietà o ragionamento. Loro dovevano combattere per riprendersi ciò che gli spettava di diritto e ciò che avevano visto spezzarsi tra le loro mani. Avevano solo l'un l'altro e potevano fidarsi solo di loro stessi.
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